Sincronia universale - Riconoscersi in ciò che è... dove l'agire si svolge da sé


Tutti  agiamo in modo spontaneo, sempre, ognuno mette in pratica quel che sente. C'è un'aura che lo dimostra, c'è un odore che lo annuncia. Tu non puoi comportarti diversamente da come i tuoi pensieri indicano.
In natura come nell'individuo l'agire si svolge da sé in sincronicità con il Tutto
Come e da dove sorgono i tuoi pensieri?
Chi li sceglie?
Chi decide una via di azione piuttosto che un'altra?
Forse il desiderio?
Forse la volontà di raggiungere un fine?
E dove si raggiunge qualcosa se non nel mondo delle apparenze, nel sogno dell'esistenza?
Da qui la teoria del karma che pone l'uomo all'interno di una ruota. La stessa ruota che vediamo nelle gabbiette dei criceti. Si muove perché il criceto che ci sta dentro la fa muovere. In se stessa la ruota è inerte. Perciò sia nel taoismo che nell'advaita si proclama "il non agire", nel senso di non compiere azioni con la finalità di un raggiungimento.
Però, in tutta sincerità con te stesso, agisci, non rifuggire dall'azione per paura. Lo stesso Krishna ad Arjuna disse: "Se rifuggi dall'agire la tua stessa natura ti spingerà a compiere le azioni che sono a te dovute". Perciò agisci conformemente al tuo "Dharma/Karma" e lascia i risultati al "Cielo"...
Ed ora un approfondimento: Il “vuoto” taoista - ... se il vero Tao al nostro percepire determinista appare come un nulla, che per noi corrisponde al vuoto del sé (della coscienza individuale), esso segna il ritorno beato nella matrice silenziosa, che attira e proietta l’esperienza del pensiero empirico e poi lo riassorbe nel nulla da cui proviene. Questa kenosi del Tao procede per sua propria natura e non presuppone alcuna volontà creatrice o distruttrice. E da qui si comprende la non valutazione taoista per un Dio personale.
Il manifesto è solo una apparenza, appare nella mente una propensione perché così è nella natura della mente. Accettala e passa oltre. Vivi momento per momento osservando tutto ciò che avviene. Pian piano ti accorgerai che non compirai le azioni sforzandoti o in reazione a quelle degli altri, ma saranno spontanee risposte, senza ricerca di un "esito" definito.
Secondo lo psicologo taoista Alessandro Mahony per i taoisti non esisterebbe quindi tanto una causa effetto ma piuttosto una sincronicità: "Non che cosa è, ma che significato ha per me, ora".
«Tutto il nostro ragionamento si basa sulla legge di causa ed effetto, che opera come una successione. Qualcosa accade ora, perché qualcos'altro è accaduto allora. I cinesi non ragionano tanto secondo questa linea orizzontale, che va dal passato al futuro, attraverso il presente: ragionano verticalmente, da ciò che è in un posto ora a ciò che è in un altro posto ora. In altre parole non si chiedono perché, o per quali cause passate, un certo ordine di cosa avvenga ora; si chiedono: Qual è il significato delle cose che avvengono insieme in questo momento? La parola Tao è la risposta a questa domanda». (Alan Watts, Il significato della felicità [109])
Quindi un Taoista non ragiona seguendo una ideale linea orizzontale di causa effetto ma, piuttosto, seguendo una linea verticale, cercando di connettere tra loro cose che sono in un posto ora ed in un altro posto ora. La domanda che si pongono è: "qual è il significato delle cose che avvengono insieme in questo momento? Ragionano quindi secondo un concetto che potrebbe essere chiamato sincronicità.
Ed ancora: «quando un occidentale sente di pensare, crede che un tal fatto sia dovuto ad una specie di fatalismo o determinismo. [...] La prima illusione è quella di credere che ciò che sta accadendo accada a lui e che quindi sia vittima delle circostanze. Ma se siamo immersi nell'ignoranza originaria non esiste un tu diverso dalla cosa che sta accadendo. Quindi la cosa non sta succedendo a noi, succede e basta. [...] La seconda illusione è quella di credere che ciò che sta accadendo ora è la conseguenza di un evento del passato. [...] Dobbiamo essere davvero ingenui per credere che il passato provochi quanto avviene oggi. Il passato è simile alla scia lasciata da una nave. Alla fine ogni traccia scompare. [...] È moto semplice: tutto comincia adesso, perciò è spontaneo: non è determinato [...], non è nemmeno casuale [...]. Il Tao è un certo tipo di ordine [...] che però non è precisamente ciò che noi definiamo ordine quando disponiamo un oggetto in un ordine geometrico, in scatole od in file. Se osserviamo un pianta di bambù ci è perfettamente chiaro che la pianta possiede un suo ordine. [...] I cinesi lo chiamano Li [...]. Tutti cercano di esprimere l'essenza del Li. Ma la cosa interessante è che nonostante si sappia cosa sia, non c'è modo di definirla». (Alan Watts, Il significato della felicità [111] pag. 17-18).
E' difficile conciliare i due concetti o no?
In verità Alan Watts è un grande estimatore del Tao ed è riuscito molto bene ad individuarne i punti salienti, egli affermò: "ogni forma di controllo ricade infine sul controllore". Infatti nella tradizione Taoista «L’uomo si conforma alla Terra, la Terra si conforma al Cielo, il Cielo si conforma al Tao, il Tao si conforma alla spontaneità».
La spontaneità è sinonimo di naturalezza, categoria eversiva nel mondo artificiale del contrattualismo sociale e del dominio tecno-scientifico.
Ed allora che significato ha compiere azioni "virtuose" con l'intento di un raggiungimento?
Come ad esempio ripetere costantemente il mantra Nam Myoho Renge Kyo (dedicato alla legge di causa effetto) per realizzare i desideri?
Evidentemente non ha un senso per un taoista. Però ha un senso per "accreditare" un'ipotetica "volontà" personale ("Ichinen" si chiama in giapponese). Comunque il pensiero assume una forma, ogni qualvolta lo si desidera, con più o meno forza secondo l'intensità. Ma questo processo nel taoismo - come nell'advaita - è ritenuto una forma di "schiavitù", di immersione nell'illusione del "sogno" (Samsara).
Ciò non toglie che il il sogno esiste, finché si dorme, e pur non essendo "vero" è comunque "reale" per il tempo che dura... finché non giunge il momento del Risveglio.

 Paolo D'Arpini

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Nagarjuna e l'osservatore silenzioso


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"Nomen est Omen" dicevano i latini... e loro sì che se ne intendevano poiché per loro, come per tutte le popolazioni di cultura indoeuropea, il nome portava  con sé un significato. Mica come al giorno d'oggi in cui i nomi si portano appresso solo la storia di un ipotetico "santo" della cristianità. 

No, una volta, per gli antichi popoli pre-cristani il nome  stabiliva una qualità, era una sorta di auspicio, di "emblema" con il quale il nuovo nato veniva insignito.  Ed allora vediamo quale è il destino assegnato a "Nagarjuna" analizzando il suo nome. Tanto per cominciare Naga, che sta anche per nudo, indica un serpente. Un sacro cobra, una divinità (non quel serpente demoniaco della bibbia), mentre Arjuna  significa letteralmente "il puro". 

Sia nell'accezione di "nudo" che di "puro" si sottintende una
pulizia, una sincerità, una onestà, una semplicità.. insomma una saggezza. E Nagarjuna confermò queste qualità.


Tanto per cominciare egli nacque (probabilmente),  nel II secolo d.C. in Andhra Pradesh, in una famiglia di brahmani.  Secondo una tradizione nacque sotto un albero di Terminalia Arjuna, fatto che determinò la seconda parte del suo nome. La prima parte, Naga, lo si deve ad un viaggio che avrebbe condotto, sempre secondo alcune leggende, nel regno dei naga, i cobra divini, posto sotto l'oceano, per recuperare i Prajñāpāramitā Sūtra ad essi affidati dai tempi del Buddha Shakyamuni. 

Certo queste son tutte storielle aggiunte per dare lustro ma sicuramente di vero c'è che Nagarjuna fu un grande filosofo e conoscitore della realtà. Sia i seguaci del Madhyamaka sia gli studiosi  di quella scuola riconoscono Nagarjiuna come il
suo fondatore. Più in generale si può dire che sia stato uno dei primi e principali pensatori originali del Mahāyāna, di cui sistematizza l’idea  della non sostanzialità di tutti  gli  elementi  della realtà fenomenica.

I suoi scritti  ancora oggi rappresentano una vetta quasi insuperata di concettualizzazione  del metafisico. In termini che ai giorni nostri furono ripresi da filosofi come Friedrich Wilhelm Nietzsche o -volendo restare in un ambito "indiano"- dal grande propugnatore dell'Advaita moderno: Nisargadatta Maharaj. 
Ecco cosa disse di lui Osho, un altro maestro dei nostri tempi: "Nagarjuna fu uno dei più grandi Maestri che l'India abbia mai prodotto, del calibro del Buddha, Mahavira e Krishna. E Nagarjuna era un genio raro. A livello intellettuale non esiste paragone possibile con nessun altro al mondo. Capita raramente un intelletto così acuto e penetrante."

Nagarjuna, oltre l'impermanenza temporale,  indicò una ulteriore qualità nella non sostanzialità dei fenomeni: essi erano vuoti anche di una loro identità in quanto dipendevano uno dall'altro sul piano temporale.  Tutti i fenomeni  sono quindi privi di sostanzialità, poiché nessun fenomeno possiede una natura indipendente. Egli esprime la sua posizione in quella che è 
 un'opera capitale del buddhismo: le Madhyamakakarika, Stanze della via di mezzo. Evidentemente riportata da suoi seguaci, come avvenne per i detti del Buddha, poiché  Nagarjiuna  riteneva che il linguaggio è inevitabilmente illusorio in quanto prodotto di concettualizzazioni ed è per questa ragione che egli rifiutò sempre di definirsi detentore di una qualsivoglia dottrina. Poiché l'esperienza della vacuità non è compatibile con alcuna costruzione di pensiero.  E l'idea stessa della vacuità rischia di essere pericolosa, se alla vacuità viene  attribuita una identità. 

Lo stesso  Buddha  aveva messo in guardia dall'assolutizzare la propria dottrina, considerandola altro che un semplice mezzo per raggiungere la liberazione ("una zattera per attraversare un fiume, che va abbandonata appena si è arrivati all'altra sponda"). 

Di seguito alcune  citazioni che possono aiutare il lettore a
comprendere meglio il  punto di vista di Nagarjuna:



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"La coproduzione condizionata, questa e non altra noi chiamiamo la vacuità. La vacuità è una designazione metaforica. Questa e non altro la via di Mezzo.La realtà assoluta non può essere insegnata, senza prima appoggiarsi sull'ordine pratico delle cose: senza intendere la realtà assoluta, il nirvana non può essere raggiunto"

"Se il mondo fosse non vuoto, non si potrebbe né ottenere ciò che non si possiede già, né mettere fine al dolore, né eliminare tutte le passioni."

"Se gli illuminati non appaiono e se gli uditori sono spariti, un sapere spontaneo si produce allora isolatamente negli Svegliati solitari"



Paolo D'Arpini


La sindrome della Sindone e pezzi di storia e misteri dei Templari


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Treia. Paolo D'Arpini (in incognito) nei pressi dell'Accademia Georgica



Il 12 settembre 2017 a Treia c'era il sole, così la mattina ne ho approfittato per recarmi, accompagnato da Valeria, a fare un giro di propaganda fide (volantinaggio) per il prossimo evento "Equinozio d'Autunno" del 23 e 24 settembre,  nei luoghi per me non raggiungibili a piedi (ovvero Borgo, Chiesanuova e Passo di Treia). Fra un tragitto ed un altro, si sa, in macchina si fanno delle chiacchiere ed un argomento toccato da Valeria è stato quello dell'atteso incontro sulla "Sacra Sindone di Torino" organizzato dall'Accademia Georgica per il 15 settembre 2017 qui a Treia (vedi: http://www.accademiageorgica.it/eventi/2017/sindone.html). 

Alla storia della Sindone, almeno quella fornita da religiosi e aficionados del mistero,  in cui si presume che potesse rappresentare il volto e la figura di Gesù, non ho mai creduto. 

Di reliquie finte ne ho conosciute tante, ho una certa esperienza poiché essendo vissuto a Calcata, dove si diceva che fosse conservata la reliquia più famosa "Il Prepuzio di Gesù Bambino", cioè un pezzo "reale" del corpo di Cristo, (Vedi: http://riciclaggiodellamemoria.blogspot.it/2013/06/calcata-furto-del-sacro-prepuzio.html) ed avendo fatto una ricerca sulle centinaia di migliaia di reliquie conservate al Vaticano e nelle chiese di tutta Europa e Medioriente, mi ero fatto un'idea precisa su questi reperti, che  avevano un solo scopo: alimentare la credulità popolare per specularci sopra.

A parte questo, sin dal 1989, con l'analisi al radiocarbonio è stato appurato che la tela della Sindone risale al Medioevo, quindi risulta praticamente impossibile che fosse il telo originale in cui si dice che Giovanni di Arimatea avesse avvolto il corpo del Cristo (Vedi:
http://www.gesustorico.it/htm/vangeli/cosavidegiovanni.asp).


Inoltre, proprio l'anno scorso, qui a Treia, mi sono letto i libri di  Christopher Knight e Robert Lomas sulla storia dei Templari ed in particolare sull’ultimo Gran Maestro Templare Jacques De Molay, torturato ed arso vivo a Parigi nel 1307 perché riconosciuto (dalla chiesa e dal re di Francia) colpevole di eresia. I libri dei due autori inglesi andrebbero letti e ponderati con molta attenzione poiché mi sembra che racchiudano una verità storica inoppugnabile sulla Sindone.  Tra l'altro la Sindone si trova a Torino perché acquistata dai Savoia dalla famiglia   di Goffredo De Charney (anch’egli bruciato sul rogo insieme a De Molay) che la custodiva (Vedi: https://it.wikipedia.org/wiki/Sindone_di_Torino)

Ma di questo potrete avere un'idea più completa leggendo l'articolo che segue...


Paolo D'Arpini


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I ricercatori Christopher Knight e Robert Lomas hanno condotto una ricerca estensiva in ambito Templare e Massonico con i due volumi “The Hiram Key” [La Chiave di Hiram N.d.A.] e “The Second Messiah” [Il Secondo Messia N.d.A.]. Essi descrivono la teoria del Mandylion teorizzando che l’immagine della Sacra Sindone mostri in realtà il volto dell’ultimo Gran Maestro Templare Jacques De Molay, che fu torturato alcuni mesi prima della sua esecuzione nel 1307. 

L’immagine sul telo certamente coincide con la descrizione che viene data di De Molay come mostrato in alcuni intagli Medioevali: naso aquilino, capelli lunghi fino alle spalle e divisi al centro, barba lunga con biforcazione alla base, e l’altezza (si diceva che De Molay fosse piuttosto alto).

Molti hanno criticato tale teoria sulla base del fatto che la Regola dell’Ordine proibiva ai Templari di far crescere i capelli. La spiegazione regge fino a un certo punto, visto che De Molay passò sette anni in prigione e sembra improbabile che in quel tempo gli fosse concesso il lusso della cura della persona. Knight e Lomas continuano dicendo che il telo figurava nei rituali Templari di risurrezione simbolica e che il corpo torturato di De Molay fu avvolto in un sudario, che i Templari conservarono dopo la morte del Gran Maestro. 

I ricercatori sostengono che sangue e acido lattico del corpo di De Molay si sarebbero mescolati al franchincenso (usato per sbiancare il panno) così da imprimere l’immagine del volto sul tessuto. Quando la Sindone fu esposta per la prima volta nel 1357 (50 anni dopo la distruzione dell’Ordine) dalla famiglia di Goffredo De Charney (anch’egli bruciato sul rogo insieme a De Molay) le persone che videro il telo riconobbero in esso l’immagine di Cristo. Gli autori teorizzano che Jacques De Molay potesse essere stato torturato in una maniera molto simile al Cristo per una sorta di macabra provocazione. A quel punto, allora, le ferite inferte al vecchio Templare erano le stesse di quelle di Gesù  sulla Croce. 

Oggi si crede comunemente (attraverso la datazione del Carbonio), che la Sindone risalga al tardo XIII sec. e non alla possibile data della crocifissione di Cristo. E’ interessante notare come la Chiesa rese noti i risultati dell’analisi al Carbonio-14 il 13 ottobre 1989, cioè lo stesso giorno dell’arresto dei Templari da parte della Chiesa e della monarchia di Francia.

Stralcio di un articolo di Diego Antolini 

Santoni e miracoli del pensiero - Un'altra vita è possibile?

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Ormai ero arrivato a crederci anch’io di essere un caso disperato, visto che me lo facevano capire un po’ tutti: alcuni con tatto e diplomazia, in modo indiretto ma allusivo, altri proprio sfacciatamente e senza riguardi. Il peggio era quando – soprattutto le donne- mi guardavano con quell’aria di compatimento mista a una sorta di materna tenerezza che proprio non riuscivo a mandar giù. “Eh, poverino…” era il loro pensiero inespresso, mentre si scambiavano pietosi sguardi di circostanza.
Ma cosa c’era che non andava in me?
Esteriormente, niente: certo, non ero molto bello, però i miei pezzi erano tutti al posto loro. E mentalmente? Anche: quoziente intellettivo nella media, secondo tutti i test psicologici proposti periodicamente dalle riviste (ne avevo fatta incetta in un periodo di vari mesi, a partire dal Piccolo Chimico per finire con Annabella Di Giorno, senza naturalmente tralasciare Cucina erotica, Sofà & Nunsofàgnente, Punto croce uncinata, Il Fighetto e Lo spazzino moderno).
Insomma niente, sembravo un inno alla normalità.
Il problema era quando mi mettevo a fare qualcosa – e intendo qualsiasi cosa: ne usciva un pasticcio da minorati, peggio di un Picasso trasferito alla realtà di tutti i giorni.
Se compravo un cane quello col cavolo che mi si affezionava: mi mostrava i denti e dopo qualche mesetto mi mordeva quando meno me l’aspettavo: uno si era anche abituato a pisciarmi addosso, come regola quotidiana.
Se facevo una torta o qualsiasi specialità culinaria intervenivano i pompieri. Avevo dovuto rifare la cucina quattro volte in due anni.
Non andavo ormai più in macchina, perché mi aveva convocato l’assicuratore per farmi assistere personalmente al rogo della mia polizza da parte sua nel suo ufficio, e minacciandomi che se la compagnia falliva a causa mia lui mi avrebbe bruciato, allo stesso modo, la casa.
Le biciclette: penso di aver raccolto sulle gomme più chiodi di quelli presenti in tutti i negozi di ferramenta della città. I pattini a rotelle: fratture e distorsioni.
Quindi andavo a piedi, ma nemmeno ciò era esente da rischi: infatti un paio di volte mi avevano sfiorato dei vasi da fiori caduti dai balconi, e qualche vecchietta in bicicletta colta da improvviso malore riusciva sempre a centrarmi in pieno ogni tanto. I piccioni si passavano parola quando mi vedevano uscire di casa e scommettevano sulla qualità della loro mira nei miei confronti.
La volta che, miracolosamente, ero riuscito ad attirare nel mio letto una femmina d’uomo (sorvolando sulle sue caratteristiche fisiche) e lei mi aveva chiesto di chiudere le tende, scendendo dal letto ero inciampato nel lenzuolo, e nel cadere mi ero aggrappato alla tenda, tirandola giù insieme al bastone, che era caduto direttamente in testa alla ragazza, che era stata messa kappao e avevo dovuto chiamare il 118. Avventura finita. Prima ancora di cominciare.
Insomma, qual’ era la soluzione? 

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Mi dissero: sai, nel Nepal conosco un santone…
Il solo pensiero di quel che sarebbe potuto succedere ai miei sfortunati compagni viaggiatori in aereo mi atterriva; d’altronde a mali estremi, estremi rimedi…..
Incredibilmente, tutto andò bene. Però, mentre facevo la fila per scendere dall’aereo a Kathmandu sentii un tonfo e un’esclamazione soffocata provenire dalla carlinga del pilota. Immediatamente corse fuori una hostess con il viso angosciato, chiamando aiuto e chiedendo se c’era un dottore a bordo.
Che freddo su quelle montagne innevate, altitudine media 5000 metri SLM! Gli Yak mi guardavano con compatimento – anche loro!- come se sapessero che ero freddoloso di natura. Bene o male (e direi più male che bene) arrivammo dal santone. Aspettavo ansiosamente le sue parole di saggezza.
Mi accoglie dicendo: “Vuoi un tè? Un caffè? Uno zabaione? Un cognacchino? Un maritozzo con la panna?”
“Ma.... come,lei…?”
“Ah, ah! Ci sei cascato!” e si fa una risatina chioccia, sommessa e contenuta, tipica del grande saggio himalayano. Strano santone, pensai. 
“Che ore sono?” Mi fa poi.
“Mmmh… le otto e mezza”
“Uohh, stasera gioca il Milan, aspetta che accendo”
Io lo guardo sbigottito mentre si dirige verso un immenso televisore al plasma, per rendermi poi conto che è finto. 
“Ah, ah! Ci sei cascato!”
“Ma insomma, sono venuto fino in Nepal per farmi prendere per il sedere?” Penso.
“No, certo che no” dice lui, ovviamente allenato, come tutti i santoni, a leggere il pensiero. “E’ che mi piace esordire in umiltà....come in un gioco!” E giù un’altra risatina di stampo orientale. 
Poi mi dice: “Guarda!” Stende un braccio e sulla parete della sua umile casetta si materializza una sorta di schermo, diviso in due da una striscia nera. Mi fa assistere a tutti gli eventi più salienti della mia vita, nelle due versioni: reale e alternativa, cioè di come sarebbe potuta andare. Gli faccio:
“Sì, è facile così, ma bisogna esserci dentro le cose, per capire com’è in realtà. Altrimenti non è giusto.”
“Hai ragione, ragionissima!” E si proietta nello schermo, prendendo il mio posto nel film della mia vita.
“Ah, ah! Ci sei cascato!” Gli dico. 
“Ah, ah! Ci sei cascato!” Gli dico. 
E spengo lo schermo con lo stesso gesto della mano che avevo visto fare a lui per accenderlo, lasciandolo a sbrigarsela da solo con i miei guai mentre io me ne andavo a pescare sul lago ghiacciato con il thermos del suo tè. 
Avevano proprio ragione i miei amici: quel santone faceva miracoli!

Simon Smeraldo