Anna Maria Pinnizzotto racconta il nostro vivere vegetariano e naturista. Una testimonianza preziosa dei primi anni a Calcata...



Ero giunto a Calcata da pochi anni, ma ero già vegetariano ed oltre ad occuparmi di teatro, canti sacri, yoga e mostre d’arte (la prima  galleria "ufficiale"  fu da me fondata nel 1978 e si chiamava Depend’Arp) organizzavo anche pranzi all’aperto, ovviamente vegetariani, e con ciò iniziai -di fatto-  quello che poi divenne il Circolo  Vegetariano di Calcata

Anche allora usavo il sistema  di  “ognuno porta qualcosa”  e talvolta, se non c’era spazio nella piazzetta di Porta Segreta, dove abitavo, andavamo nella piazzetta di San Giovanni, sui gradini altissimi della chiesa dove oggi c’è un piccolo museo d’arte contadina,  oppure fuori porta  dove c’era  un ristorantino  che ci accoglieva come ospiti a “mezzo-servizio”. Fausto Aphel, il proprietario, come noi un nuovo venuto in spirito pionieristico, ci preparava panini con insalata e formaggio prodotti da lui stesso. Il pomeriggio si andava a bere il tè in un altro localetto,  aperto da Giovanna Colacevich, la Latteria del Gatto Nero (ci ha lavorato pure  il giovane Vittorio Marinelli), che a volte ospitava i nostri incontri estemporanei….  E così capitò  che un bel giorno venne a trovarci Anna Maria Pinnizzotto, giornalista del Paese Sera, la quale aveva ricevuto l’invito, da un comune amico e suo collega, Roberto Sigismondi,  per venire conoscere la realtà alternativa di Calcata ed il nostro programma della Due Giorni Vegetariana.      Emozionato per l’importanza ricevuta  le fui al fianco per un’intera giornata (anche perché era una donna veramemente affascinante) e fra una chiacchiera e l’altra ne sortì fuori questo magico articolo che segue…      (Paolo D’Arpini)    




Domenica ‘vegetariana’ a Calcata, paese museo.

Un pugno di case rosate su una roccia di tufo. Un paese che attualmente non ospita più di cinquanta anime, e nel passato ne ospitava poche di più. Calcata (con l’accento sulla seconda) è un paesino medioevale rimasto miracolosamente intatto in uno spazio  naturale molto bello. E’ circondato da colline verdi, ai suoi piedi scorre un ruscello limpido e nelle viscere si aprono grotte ed antri. Da qualche anno è diventato meta di naturisti, vegetariani, amanti dello yoga che hanno deciso di trasformarlo in un’oasi di raccoglimento. Una oasi facilmente raggiungibile. Calcata è a circa sessanta chilometri da Roma, in provincia di Viterbo.  L’idea di fare del piccolo paesino arroccato su un picco di tufo un punto di riferimento stabile per chi ama la cucina alternativa e le passeggiate ecologiche è venuta ad un gruppo di romani che si è trasferito stabilmente a Calcata.

“L’idea era quella di fare una due giorni vegetariana -dice Giovanna Colacevich fondatrice della Latteria del Gatto Nero- Sabato e Domenica a Calcata per chi ama la natura e la pace. Nel programma è compresa la colazione, il pranzo ovviamente vegetariano, la merenda, una passeggiata guidata ed una conferenza su yoga e vegetarismo. Il costo è di lire cinquemila e -dimenticavo- comprende anche uno spettacolo in piazza dei Vecchi Tufi, un gruppo teatrale di Calcata”. Intanto Giuseppe, co-fondatore della Latteria, si muove con agilità tra i fornelli, tra una crepe e l’altra. Il loro locale è posto ai limiti della minuscola piazza del paese, dove si affaccia una chiesetta in cui si conserva il prepuzio di Cristo (così narra la leggenda).

All’ingresso del paese, invece, c’è la trattoria di Fausto Aphel esperto cuoco che a Roma aveva una trattoria alternativa  prima di trasferirsi a Calcata. Ma il personaggio più singolare, attorno al quale ruota tutta l’organizzazione, è Paolo D’Arpini. Anche lui, come la pittrice Simona Weller,  ha scelto Calcata come residenza definitiva. La pace del luogo non rovinata ancora da nessun prodotto del consumismo, gli ricorda le verdi valli dell’India dove ha soggiornato per molto tempo. E’ lui che guida la passeggiata ecologica, che parla di vegetarismo e di Siddha Yoga.

Alle ore 16 di Domenica, dopo un infuso di liquirizia offerto da Paolo, una piccola spedizione parte per fare il giro della rocca, quattro cinque chilometri di percorso. La discesa è impervia, sono circa trecento metri fra sassi, fango e rifiuti.

“La chiamo ecologica -spiega Paolo- perché voglio che la gente  rifletta sul consumismo. Lattine, buste di plastica, cartacce. Alcuni paesani usano questo dirupo per scaricare i loro rifiuti. Quanti rifiuti produce una città come Roma? Dove vanno a finire?”.  Una ragazza olandese si è portata dietro un coltello, “non si sa mai, è per le vipere”.  Paolo cammina avanti e con il bastone si fa largo. Il viottolo scavato nel bosco consente appena il passaggio di una persona magra. Si guada il ruscello su un antico ponte di legno che si è adagiato sul fondo. Le assi di legno, ricoperte di paglia, sono oblique e c’è chi teme di cadere nell’acqua, fredda, ma poco profonda. In una minuscola spiaggia si fa tappa. C’è chi tenta invano di trovare cocci etruschi nell’acqua. Nella zona sono state scoperte alcune necropoli.

“Io parlo soprattutto dell’aspetto fisiologico degli alimenti -dice Paolo- con i cibi correnti è difficile mantenere il corpo in buona salute. La carne è ricca di tossine. Gli animali sono ingrassati con mangimi chimici e durante l’agonia le ghiandole secernono tossine che si fissano nelle cellule. Se nel mondo si scegliesse il vegetarismo non ci sarebbe più la fame. Il cibo sarebbe sufficiente per tutti. Noi dobbiamo vivere in armonia con il mondo e lasciarlo integro ai nostri figli”.

La spedizione riprende il cammino tra cornioli e prugne selvatiche e alberi di nocciole. Ai margini del viottolo crescono già i ciclamini. Seconda tappa una sorgente di acqua ferruginosa dove ci si disseta. Si riattraversa il ruscello, questa volta sugli scogli, e si risale la scarpata dalla parte opposta dove esisteva il lavatoio. Stanchi e sudati arriviamo in piazza mentre un gruppo di giovani sta ascoltando un ragazzo che suona la chitarra. La spedizione si scioglie, chi corre alla latteria per rifocillarsi, chi segue Paolo e scende in una grotta per fare meditazione e cantare mantra.

Al calare del sole avrebbero dovuto apparire I Vecchi Tufi di Calcata con le stupende maschere create da Wilton Sciarretta. Ma Sciarretta, che è anche il regista del gruppo, è caduto da una rupe proprio mentre provava la commedia che doveva allietare i vegetariani. E’ ora ricoverato all’ospedale con una spalla rotta. E’ calato il buio. Nella piccola piazza siedono come in un salotto gli abitanti di Calcata e i turisti. I primi, subito dopo cena andranno a dormire. A Calcata non ci sono cinema e teatri e pochi hanno la televisione. I secondi, tutti romani, si immergeranno nel traffico caotico della via Flaminia e torneranno alla vita cittadina con il rimpianto di una domenica alternativa trascorsa in un paese-museo.

Anna Maria Pinnizzotto – 13 Settembre 1979,  Paese Sera.







La storia del blog "Altra Calcata... altro mondo" e quel che c'era scritto sul frontespizio


Non so perché, misteri telematici insindacabili, alla fine "Altra Calcata... altro mondo",  blog “alternativo” e neanche troppo “serio”,  è diventato il più seguito fra tutti quelli da me gestiti. Dalla sua apertura ad oggi (28.07.21) ci sono state  2.106.609   letture, ultimamente la media mensile è di  centomila visite... E chissà perché non è stato  bannato da FB come altri miei blog, che in fondo preferisco, come ad esempio: Il Giornaletto di Saul, Bioregionalismo Treia, La Rete delle Reti, Spirito Laico... ? Ma voglio comunque raccontarvi come nacque questo blog "fortunato"...


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Nella tarda primavera del  2009, un anno prima  di lasciare Calcata, ma non sapendo quel che sarebbe avvenuto di lì a poco, decisi di aprire un nuovo blog che chiamai  "Altra Calcata...  altro mondo"  per fare da tandem a quello già esistente del Circolo Vegetariano Calcata. La ragione? Pensavo che alcune notizie "diverse"  dovessero essere inserite in un contenitore più idoneo, che non fosse quello più "specifico" del Circolo. Ma poi -pian piano- come sempre succede nelle mie cose, in entrambi i blog cucinai la solita frikassea. Un melange di cose serie e meno serie, di Calcata e di fuori Calcata. Riporto qui di seguito la presentazione che inizialmente  era stata pubblicata nel frontespizio di quel blog (poi andata persa per un mio errore): 

 "Altra Calcata... altro mondo" - Questo blog nasce per l'esigenza di restituire identità al luogo ed a noi  stessi.

Negli anni passati avevo coniato il motto "Una, cento, mille Calcata.." per significare  come l'esperimento in corso nel vetusto borgo potesse essere esemplificativo di un nuovo  modo di rapportarsi con la natura e con se stessi. Non è certo Calcata, in quanto  comunità o località, che va riprodotta ma un modo di percepire la presenza umana nel  luogo. Una presenza inserita nel contesto della natura, nel consesso dei viventi, in condivisione olistica e  simbiotica.

Infatti - come disse Nisargadatta Maharaj - noi non possiamo essere altro che una parte  integrante della manifestazione totale e del totale funzionamento ed in nessuna maniera  possiamo esserne separati.

Molto spesso però ho notato che l´uomo tende a dare maggiore importanza al contesto  sociale in cui egli vive. E´ nella società umana, con le sue esigenze e movimenti, che si  fa la storia e si sancisce la caratteristica di un posto, molto spesso dimenticando  l'appartenenza al tutto, ignorando l´inscindibile co-presenza della natura e degli animali. Per tentare di riscoprire le  nostre radici naturali, continuando a prendere ad esempio un certo modo di vivere il  luogo e nel luogo, ho pensato di affidare le mie riflessioni a questo blog. In esso si  parla di Calcata ma anche di tutto il mondo, ma potremmo dire che è un'altra Calcata ed un altro mondo.

Programmi, storie, descrizioni dell´ambiente (sia naturale che umano), poesie, riflessioni... è ciò che troverete in questo blog. Non sarà quindi un sito di servizi, per promuovere il turismo o la speculazione commerciale, ma un luogo di incontro e di fusione delle anime.

Paolo D'Arpini  

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Paolo dubbioso, nella casarsa di Calcata, soprastante la fogna

Realtà copyright

 Il mondo pare ci sia davvero. Ma esso dipende dal binario identitario che siamo obbligati a seguire e non può fare altro che portarci dritti dritti nella galleria della realtà.





Mondo esterno

La Scienza è arrivata al punto ineludibile. Dopo essersi dedicata anima e corpo a scomporre la cosiddetta realtà, dopo aver preso coscienza che stimare la natura piccola e grande attraverso categorie autoreferenziali e arroganti misurazioni con pretesa di Verità, è cosa utile sono ai fini della tecnologia quando non fine a se stessa, si trova ora al cospetto dell’intero, delle connessioni di tutto, della realtà come rete dai nodi interdipendenti, dell’inseparabilità dell’osservatore dall’osservato. In una parola, della coscienza.

Gli uomini hanno da sempre riconosciuto le caratteristiche della realtà olistica, ora al vaglio dell’ultima ricerca scientifica. Dall’epoca dei lumi e soprattutto della sua successiva vulgata, dette caratteristiche sono state sistematicamente lasciate fuori dal novero di studi degni di serietà, di vera conoscenza, detti scientifici, autoreferenzialmente concepiti come i soli, validi scandagli della realtà. Sempre quelle caratteristiche olistiche, se non potevano essere dimostrate e ripetute non avevano valore se non per il sarcasmo e la denigrazione. Se ciò, nel territorio della Scienza meccanicistica, è più che legittimo – la Scienza si è fatta le regole del gioco e chi vuol giocare deve rispettarle – in quello extra-scientifico, ovvero nella vita tutta, la negazione della profondità e del legame di tutte le cose, è stato quantomeno disdicevole.

La Scienza, non quella pura e trasparente, consapevole dei propri limiti, aperta per definizione ad aggiornare se stessa, ma quella spuria, intorbidita dal bigottismo specifico, farcita di dogmi, corrotta da interessi, che avanza a petto in fuori, preceduta da vessilli di verità definitiva, quella che ha permeato la cultura ordinaria facendo di noi, volgo e scienziati, suoi devoti scientisti, ha sempre delegittimato la ricerca umanistica. Non ha mai considerato necessario accreditare quanto non era in grado di misurare e catalogare. Oppure, ha indagato con i suoi inidonei strumenti ciò che i ciarlatani di qualunque risma, dal Buddha a Cristo, da Bateson a Heisenberg, da Feyerabend a von Foerster, andassero dicendo.

Ma è opportuno evitare di percorrere la medesima strada della negazione del non gradito, della delegittimazione, della riduzione di dignità. Tutte le espressioni umane hanno una ragione storica che le legittima. Così, per la gestione della vita empirica – in particolare per le grandi comunità – è stato necessario separare, catalogare, ed è simbioticamente venuta da sé la creazione del linguaggio logico-razional-duale. Totalmente funzionale alla bisogna amministrativa della vita. E quale realtà è descrivibile da un linguaggio ontologicamente separativo se non quella detta oggettiva, che tutti conosciamo, o meglio, che tutti condiziona fino al punto da considerarla la sola, unica e insostituibile?

All’interno di una concezione del mondo-oggetto, da noi separato, osservabile e identico per tutti che ne deriva, disinteressata alla coscienza, si procedeva come se l’esperienza fosse trasmissibile. Da cui le classificazioni e le gerarchie come ordine nuovamente, definitivamente, assolutamente unico e solo referente di verità. Soltanto certa psicologia, certa pedagogia, certa biologia e certa sociologia hanno saputo riconoscere che la realtà non è una stanza nella quale ci muoviamo ma si costituisce man mano attraverso la relazione, a sua volta modulata dal nostro sentimento e dai nostri più o meno egoici interessi.



Mondo interno

Il mondo è determinato dalla narrazione che ne facciamo. Il minimo comun denominatore di ogni narrazione è il linguaggio. Se questo, come avviene, determina un noi separato dal mondo, impedisce a se stesso di assumere la prospettiva idonea per lo studio della coscienza, in quanto obbliga una ricerca con mezzi inidonei. Studiare come oggetto separato da noi, ciò che oggetto non è, né è separato da noi porta il discorso nella bocca fetente dell’ossimoro. Un’affermazione piuttosto vincolante. Che però rende impotenti le probabili scandalizzate reazioni quando per coscienza tutti intendiamo l’unità di tutte le cose. Anzi la matrice di tutte quelle cose che pensavamo tra loro indipendenti. La natura della coscienza è inaccessibile attraverso l’impiego del linguaggio dualista. L’unità di tutte le cose è riconoscibile individualmente, non è codificabile con passi didatticamente utili ad essere trasmessa a colui che non la vive.

Il magico intero della coscienza perde la sua dimensione quando l’approccio è analitico. Se così non fosse la tecnologia l’avrebbe già riprodotta. Forse si può avvertire la presenza della coscienza nell’atto creativo. Niente ci separa da esso. In esso siamo noi. Esso è noi. Essa è uno specchio nel quale ci riconosciamo, nel quale esperiamo il nucleo di noi stessi. Aspetti, questi sì, che si presterebbero ad essere proposti dalla politica e dall’educazione. Ma al momento sono castrati da moralità, ideologie, formalismi, culto dell’apparenza, intellettualismo (prevaricazione dei saperi cognitivi su quelli estetici).

Quando così non è, quando ci si emancipa dai campetti di gioco che la cultura meccanicista ci ha offerto per i nostri passatempi – viene da sé – che l’infinito, come il mistero sono in noi. Che è la coscienza che genera lo spazio-tempo sfondo di tutte le narrazioni, in particolare di quella che meglio conosciamo: la nostra biografia, in qualunque modo la si abbia costruita. Nessuno può farci gratuitamente dubitare di essa. In essa constatiamo l’oggettività del mondo nel quale serpeggia. Tutte le nostre considerazioni esprimono un’elaborazione del mondo, del prossimo, del cosmo, di noi stessi un istante dopo aver disteso sullo sfondo lo spazio-tempo da cui si genera proprio ciò vogliamo sostenere. Così a volte riconosciamo un percorso mentre avanziamo o ne perdiamo familiarità se separati dal tempo-spazio. In un caso sappiamo sempre dove ci troviamo e il mondo è davvero un oggetto frequentabile; nell’altro diviene ignoto e non capiamo perché ci troviamo lì. E la paura che deriva è nell’inacettazione di essere anche altro di ciò che credevamo di essere. Credere uccide la conoscenza.

L’inconsapevolezza di essere creatori di realtà, quella dei gioghi imposti dal linguaggio analitico e quelli di essere parte integrante di ciò che crediamo di poter descrivere attenendoci ai fatti, compongono una trinità che esprime la cosiddetta materia e la sua storia orgogliosamente oggettiva. Emancipati dal sortilegio che questa trinità ci impone, viene a mancare il terreno sotto i piedi alla storia, alle storie che consideriamo narrazione certa, ufficiale, al sapere cognitivo e al potere che attribuiamo. Ma, quando si riconosce che ciò che osserviamo è generato dal nostro personale spazio-tempo; che prima di crederlo fuori da noi, avviene dentro, tutto, da noi al cosmo è coinvolto da un cambio di paradigma che ribalta le più consolidate superstizioni scientifiche. L’oggettività dove va quando noi non la osserviamo, quando non la concepiamo?

La cultura è un grande fiume prevalentemente placido che scende all’oceano senza lasciarci il tempo di riconoscere la corrente che la muove. In essa, giocoforza, in tanti condividiamo la medesima narrazione, abbiamo la medesima formazione e costruiamo il medesimo tunnel di realtà. Improbabile basti farci presente che ciò che crediamo di osservare sia solo e soltanto nella nostra coscienza. Non basta farci presente che non c’è niente fuori da noi in attesa di essere esperito. E se qualcosa del genere avviene, si tratta evoluzioni individuali. Il fiume culturale in cui navighiamo lascia poco spazio a morte di ripensamento. Se – scimmiottando Freud – il principio di oggettività, ha valore per amministrare la storia, in campo umanistico è come un branco di elefanti nella cristalleria dove normalmente se ne metteva uno soltanto. C’è perciò tutta un’altra storia del mondo in attesa di essere raccontata. Anzi, di essere riconosciuta in noi stessi.



Dominio di realtà

È la storia del dominio di realtà. Se viviamo ogni oggetto, fisico o metafisico, con un senso, anche inconsapevole, di dominio, le intenzioni tendono a realizzarsi: nel tunnel troviamo la realtà che pre-sentivamo. Parimenti, qualunque oggetto, fisico e metafisico, con cui anche inconsapevole ci relazioniamo, con la convinzione sia per noi eccessivo, facilmente comporterà un insuccesso. In ambo i casi crediamo di avere a che fare con qualcosa di esterno a noi: una volta lo abbiamo vinto, un’altra ci ha vinto. In ambo i casi riteniamo di poter aggiungere un tassello di oggettiva verità alla narrazione della storia che facciamo. La responsabilità che abbiamo ci sfugge. Se così non fosse tutti noi avremmo buone opportunità per liberarci dal conosciuto e raggiungere noi stessi come matrice del mondo.

In funzione della linea di tunnel che abbiamo seguito nel labirinto di tutti gli eventi possibili, assistiamo alla realizzazione del solo mondo disponibile ai passi che l’hanno preceduto, alla concezione del mondo che istante per istante lo hanno preceduto. Tutta la conoscenza che vantiamo è definitivamente concernente gli strumenti che impieghiamo per indagare il campo di spazio-tempo che osserviamo, in cui costringiamo, senza sforzo alcuno, il mondo. Tra gli strumenti vanno annoverate le intenzioni che motivano l’indagine, la struttura delle personalità che li impiega, il contesto in avviene (in cui ogni momento è oracolo). In sostanza come dice Linde di Stanford, “L’universo [qualunque esso sia, nda] e l’osservatore esistono in coppia”(1). O, come dice Robert Lanza, “L’universo si accende grazie alla vita, non viceversa”(2).

L’identità che crediamo di essere implica campi di certezze e d’incertezza. Pochi i primi, innumerevoli i secondi. Come saggi piloti dirigiamo il convoglio di noi stessi su percorsi noti per condurci a destinazione. Strade percorribili in quanto le sole visibili ai sensi dell’identità, inetti a riconoscere la rete di vie alternative. Nelle prime incontriamo la realtà prevista. Questa ci appare così vera e concreta tanto da considerarla oggettiva e presente anche in nostra assenza, anche senza il nostro creativo presentimento di esse. Se qualcuno, con la sua semplice esistenza, ci segnala le vie che da soli non vediamo, concludiamo si tratti di fandonie. La nostra identità non contempla altro che il cibo che la nutre.

Il dominio come culmine di un’attestazione, genera certezza, genera materia oggettiva, sagoma la realtà. Con esso, autopoieticamente, produciamo continuità, permanenza, spazio e tempo. Elaboriamo parole, linguaggio e narrazione definitivamente adatte a fare quadrato. E uccidiamo la conoscenza. Ammazziamo la dimensione consapevolmente creatrice di cui siamo espressione.

“Facciamo finta che vi siete appena comprati una calcolatrice nuova di zecca e l’avete appena tirata fuori dalla sua scatola. Se premete sui tasti 4, x e 4 il numero 16 apparirà sul piccolo schermo, anche se i numeri non sono ancora mai stati digitati sul dispositivo specifico. La calcolatrice segue un insieme di regole, proprio come la vostra mente. Il 16 apparirà sempre su una calcolatrice funzionante quando verranno premute le sequenze di tasti 4x4, 10+6, o 25-9. Ogni volta che mettete piede fuori dalla vostra casa, è come se una nuova sequenza di tasti venisse digitata producendo quello che poi apparirà sul vostro «schermo» mentale […]”(3).

“Bernard d’Espagnat ha detto: «La non separabilità è ora uno dei principi generali più certi della fisica»”(4).

Le parti distinte del reale esistono solo con noi che, istante per istante, le generiamo, per interesse personale. Averne consapevolezza ci concede di seguire le vie della conoscenza che neppure vedevamo.


Lorenzo Merlo 









  1. Robert Lanza con Bob Berman, Biocentrismo – L’universo, la coscienza. La nuova teoria del tutto, Milano, Il Saggiatore, p.180

  2. Ibid, p.181

  3. ibid, p.183

  4. ibid, p.185

La vita è una continua navigazione! - Una storia strana narrata nello stile di Costantino Kavafis



La vita è una continua navigazione! Quando lessi per la prima volta la bellissima poesia di Kavafis "Itaca" piansi di commozione ed ancora oggi se la riascolto rivivo quell'emozione. Il poeta non ha segreti, se piange piange e se ride ride.... la poesia del poeta è un messaggio riposto in una bottiglia gettata in mare, potrà goderne chiunque abbia la fortuna di trovarlo ed apprezzarlo. Non esistono segreti per il poeta e le sue parole restano, ingenuamente, per il godimento di chiunque, nessuno escluso (vedi anche:   http://www.circolovegetarianocalcata.it/2009/04/28/desenzano-del-garda-carlo-monopoli-e-le-sue-immagini-evocative-con-accompagnamento-poetico-di-costantino-kavafis-e-vittoria-palazzo/)


La poesia è una preghiera rivolta alla vita, a Dio, agli elementi, all'amante ed all'amico. Anche le poesie dei sufi sono sempre rivolte "all'amico". Talvolta sono espresse con lacrime, con risa od in silenzio ma sempre hanno un loro effetto sul cuore umano. In questa storia si narra del viaggio e del periglio affrontato da un poeta sufi e da un commerciante e del loro diverso atteggiamento verso la vita.

Tanto tempo fa una nave strapiena di merci e di passeggeri, salpata da Gaza, navigava nell'oceano alla volta dell'India. Improvvisamente una bufera si addensò sul mare, la furia degli elementi minacciava di travolgere lo scafo ormai ingovernabile. I membri dell'equipaggio erano disperati e si rivolsero ad un sufi che restava silenzioso in un angolo "tu che sei un uomo di Dio pregaLo affinché plachi la tempesta" Ed il sufi rispose "come potrei? Se è la volontà di Dio che io mi salvi o se invece è quella di farci precipitare in fondo al mare, sia fatta comunque la sua volontà". Tutti si girarono verso il sufi ingiuriandolo ma lui rimase tranquillo. 



Fra i passeggeri c'era anche un ricco mercante ebreo, che aveva un meraviglioso palazzo in India, talmente sfarzoso che persino il re di quella contrada gli aveva chiesto più volte di cederglielo, ma lui sempre aveva rifiutato. Messo alle strette per la gran paura e disperazione invocò Dio e disse "se mi salvi donerò la mia sontuosa dimora alla sinagoga".

Strano a dirsi di lì a poco i venti ed i marosi si placarono e la nave raggiunse il porto. Il sufi alzò gli occhi al Cielo ed esclamò "Sia fatta la tua dolce volontà, Amico" e se ne andò contento cantando le lodi di Allah.

Il mercante a questo punto cominciò a pensare "forse aveva ragione il sufi a non esporsi, ora che ho fatto pubblicamente questa promessa dovrò mantenerla". Ma i mercanti –si sa- hanno mille scappatoie per uscire dalle difficoltà. Infatti sbarcato a terra subito indisse un'asta per vendere il suo palazzo e siccome era ben valutato molti ricchi e persino il re si presentarono. 

Essi videro il meraviglioso palazzo ed un cagnolino legato ad una colonna. Il mercante disse "ecco questo palazzo costa 1 dinaro ma viene venduto inscindibilmente con il cane che costa 1 milione di dinari". La richiesta era ben strana ma alla fine il re acconsentì a versare la cifra di 1 milione ed 1 dinaro ma chiese al mercante il perché di quella bizzarria. Il mercante allora gli raccontò della bufera e della promessa fatta aggiungendo "il dinaro della casa lo regalo alla sinagoga mentre il milione di dinari del cane li incasso io".

Questa è una barzelletta oppure una storia vera senza morale.

Paolo D'Arpini