Tortura e uccisione di Ipazia per ordine di "san" Cirillo, ai tempi di Diocleaziano


San Cirillo, il torturatore – Scrive A.L.M.: "La Chiesa il 27 giugno ha commemorato San Cirillo, "dottore della Chiesa" (defunto nel 444 d.C.) che condannò a morte la scienziata e filosofa Ipazia, ad Alessandria d'Egitto. Nasce in quell'epoca il cosiddetto "Medioevo cristiano", caratterizzato dall'oscurantismo religioso e dall'oppressione del Papato. Ipazia fu massacrata e il suo corpo ridotto letteralmente a brandelli da una massa di fanatici, ciascuno armato di un pezzo di vetro o coccio, che dovettero infierire sul cadavere il segno di fede e di sottomissione alla Chiesa. Ancora oggi Ipazia è l'emblema della libertà di pensiero e di ricerca scientifica, della razionalità filosofica, della indipendenza ed emancipazione della donna, contro il buio della mente rappresentato da tutte le religioni cosiddette "rivelate". La Chiesa festeggi pure il suo malvagio "dottore", io invece ricordo la splendida figura di Ipazia, simbolo di tutte le donne colte, intelligenti e libere...."


La storia di Ipazia:

“Commento di Teone di Alessandria al Terzo Libro del Sistema matematico di Tolomeo. Edizione controllata dalla filosofa Ipazia, mia figlia”
Questa l’intestazione al III libro del Sistema matematico di Tolomeo, scritto da Teone di Alessandria, padre della filosofa e matematica Ipazia.  Lui  la introduceagli studi matematici ma lei non si limita allo studio e diventa ancheinsegnante,come testimoniano le parole di Filostorgio (suo contemporaneo e biografo): “Introdusse molti alle scienze matematiche” e l’elogio che ne tesse Pallada è forse il più bello e il più intimo: ” Quando ti vedo mi prostro, davanti a te e alle tue parole, vedendo la casa astrale della Vergine, infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto, Ipazia sacra, bellezza delle parole, astro incontaminato della sapiente cultura”.
Ipazia ha fatto importanti scoperte sul moto degli astri, raccolte nel testo “Canone astronomico” così da renderne pubblica la conoscenza anche ai suoi contemporanei. Considerata la terza caposcuola del Platonismo da Socrate Scolastico, ha dimostrato che tra la scienza matematica e la sapienza filosofica c’è uno stretto legame, e la studiosa Gemma Beretta traccia un quadro lucido e dettagliato dell’opera che questa filosofa ha lasciato ai suoi contemporanei e a tutte le successive generazioni di uomini e donne che hanno calpestato la stessa terra e guardato lo stesso cielo:
“Quando tracciava una nuova mappa nel cielo, Ipazia stava indicando una traiettoria nuova, e al tempo stesso antichissima, per mezzo della quale uomini e donne del suo tempo potessero imparare ad orientarsi sulla terra e dalla terra al cielo e dal cielo alla terra senza soluzione di continuità e senza bisogno della mediazione del potere ecclesiastico…
Ipazia insegnava ad entrare dentro di Sé (l’Intelletto) guardando fuori (la volta stellata) e mostrava come procedere in questo cammino con il rigore proprio della geometria e dell’aritmetica che, tenute l’una insieme all’altra, costituivano l’inflessibile canone della verità”.
Ipazia: matematica ma anche filosofa.  Inventrice, pare di un astrolabio piatto, di un idroscopio e un aerometro. Ipazia anche guida spirituale, come testimonia una intensa ed intima lettera scritta da Sinesio, Vescovo di Cirene,  indirizzata a lei, maestra pagana: ” Detto questa lettera dal letto nel quale giaccio. Possa tu riceverla stando in buona salute, o madre, sorella e maestra, mia benefattrice in tutto e per tutto, essere e nome quant’ altri mai onorato! …. E se c’è qualcuno venuto dopo di me che ti sia caro, io debbo essergli grato perché ti è caro, e ti prego di salutare anche lui da parte mia come amico carissimo. Se tu provi qualche interesse per le mie cose bene; in caso contrario, non importano neanche a me”.
Ipazia è stata una donna seguita dai suoi contemporanei, dal popolo come dalle più alte cariche cittadine, come riportano Socrate Scolastico ” A causa della sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente, e provavano verso di lei un timore reverenziale”, e Damascio ” Il resto della città a buon diritto la amava e la ossequiava grandemente, e i capi ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da lei”. Secondo il parere di questi due illustri filosofi e diretti testimoni di Ipazia, grazie a lei si era realizzata nel concreto la “politeia” in cui erano i filosofi a decidere le sorti della città.
Ancora Beretta sottolinea l’innovazione contenutistica degli insegnamenti di Ipazia, nel sostenere che ” Ipazia affiancava ad un insegnamento esoterico un insegnamento pubblico, simile a quello dei sofisti moralizzatori del I secolo” e ” … spiegava tutte le scienze filosofiche a coloro che lo desideravano”.
Nel 391 d.c. Teodosio dichiara il Cristianesimo religione di Stato, e l’anno successivo viene promulgata una legge speciale contro i riti pagani.  Ipazia occupa la cattedra di filosofia, ereditata dal padre; Cirillo diventa Vescovo e rappresenta il massimo del potere ecclesiastico.
Durante il passaggio dal paganesimo al cristianesimo, l’unico modo che il Vescovo ha di controllare le menti è quello di spodestare il filosofo, e Cirillo non perde tempo per organizzare l’eliminazione fisica della sua rivale.
Ipazia cade vittima di un’imboscata mentre faceva ritorno a casa, la colpiscono con dei cocci e la smembrano. Gettano pezzo per pezzo il suo corpo nel fuocoperché non ne restasse traccia. Il santo Cirillo, pur essendo considerato il principale architetto della ingiusta e violenta sparizione di Ipazia, non ha mai pagato, neanche moralmente, la sua colpa.  Un esimio collega della filosofa d’Alessandria, Voltaire, le dedicherà pensieri di solidarietà e definirà la sua fine una “condanna ingiusta”, frutto di “un eccesso di fanatismo” e l’irlandese John Toland le dedica un saggio ” Ipazia, ovvero la Storia di una Dama assai bella, assai virtuosa, assai istruita e perfetta sotto ogni riguardo, che venne fatta a pezzi dal clero di Alessandria per compiacere l’Orgoglio, l’Emulazione e la Crudeltà del loro Vescovo, comunemente ma immeritatamente denominato San Cirillo”.
Angela  Braghin




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Mio commentino: "Che queste cose siano avvenute e continuino ad avvenire, in conseguenze del propagarsi delle religioni monoteistiche di origine semita, non desta meraviglia nelle menti capaci di discriminazione analitica. Infatti basti vedere le ripetute professioni di odio espresse dal dio giudeo contro tutti gli altri dei e contro gli altri popoli che non fossero il suo e si capisce quali sarebbero state le conseguenze, sempre più cruente, nelle successive azioni delle sette di ispirazione biblica. I giudei, prima, ed i cristiani, dopo, e per finire i musulmani, portarono alle estreme conseguenze quell'odio verso l'altro dissimile da sè, diverso nel pensiero, però, solo nel pensiero. Infatti queste cosiddette "religioni" monoteistiche non sono assolutamente tali ma semplici ideologie razziste. Altro che "amore"... qui l'amore si esercita solo verso i propri kit and kin (e mai termine inglese fu più azzeccato)" - Paolo D'Arpini  

Energia spirituale ed invio di onde pensiero amorevoli per aiutare gli animali


Contro lo sfruttamento, la tortura ed il sistematico massacro degli animali, nostri fratelli di viaggio, vittime innocenti dell’egoismo e della violenza umana, la nostra impotenza ad aiutarli è dolorosamente schiacciante.

            Però abbiamo un’arma potentissima che possiamo usare in questa ìmpari battaglia: L’ENERGIA DELLE ONDE PENSIERO (che io stesso ho potuto sperimentare in molte circostanze con risultati sorprendenti) i cui effetti sono stati dimostrati anche a livello scientifico.

            Per questo abbiamo deciso di organizzare una CATENA DI ENERGIA SPIRITUALE tra tutte le persone che credono nell’efficacia della preghiera e che vogliono aiutare gli animali.

            L’impegno consiste nel collegarsi mentalmente con tutti coloro che nello stesso momento sono impegnati nel medesimo obiettivo inviando il proprio sostegno spirituale a tutti gli animali del mondo che in quel momento stanno soffrendo a causa della privazione della libertà, della fame, della sete, delle ferite; che stanno agonizzando nei mattatoi, negli allevamenti intensivi, negli istituti di sperimentazione, nelle reti dei pescatori, nei boschi, nelle arene, nei circhi, negli zoo o a causa di qualunque altra violenza fisica, mentale od emotiva.

            Pensiamo di suddividerci in gruppi con l’impegno di un’ora in modo da coprire l’intera giornata bilanciando le forze disponibili. Per questo è necessario che coloro che intendono far parte di questa RETE DI ONDE PENSIERO A BENEFICIO DEGLI ANIMALI SOFFERENTI mi comunichino la propria disponibilità, indicando l’ora che intendono coprire, al mio indirizzo di posta elettronica:  francolibero.manco@fastwebnet.it 
oppure telefonandomi allo 06.7022863 – 333.9633050.

Se potete cercate di coinvolgere altre persone in questo progetto. L’unione fa la forza, specialmente nel campo mentale-energetico-spirituale.

            Confido nella partecipazione degli animalisti e di tutti coloro che hanno a cuore il bene di ogni essere vivente e sperano in un mondo migliore.
Franco Libero Manco

La differenza fra il ben-avere ed il ben-essere



Bisogna risalire alla seconda metà del ‘700 per trovare le origini del pensiero economico che fa coincidere il «benessere» statistico con il «ben avere», sebbene nello stesso periodo l’illuminista napoletano Antonio Genovesi avesse sottolineato la necessità di una economia fondata sulla ricerca del bene comune. Temi che si ripropongono oggi con grande urgenza e che richiedono l’elaborazione di nuovi codici e regole. L’anticipazione di un intervento a Pordenonelegge

Per concepire e costruire una società di abbondanza frugale e una nuova forma di felicità, è necessario decostruire l’ideologia della felicità quantificata della modernità; in altre parole, per decolonizzare l’immaginario del PIL pro capite, dobbiamo capire come si è radicato.

Quando, alla vigilia della Rivoluzione francese, Saint-Just dichiara che la felicità è un’idea nuova in Europa, è chiaro che non si tratta della beatitudine celeste e della felicità pubblica, ma di un benessere materiale e individuale, anticamera del PIL pro capite degli economisti. Effettivamente, in questo senso, si tratta proprio di un’idea nuova che emerge un po’ ovunque in Europa, ma principalmente in Inghilterra e in Francia. La Dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776 degli Stati Uniti d’America, paese in cui si realizza l’ideale dell’Illuminismo su un terreno ritenuto vergine, proclama come obiettivo: «La vita, la libertà e la ricerca della felicità». Nel passaggio dalla felicità al PIL pro capite si verifica una tripla riduzione supplementare: la felicità terrestre è assimilata al benessere materiale, con la materia concepita nel senso fisico del termine; il benessere materiale è ricondotto al «ben avere» statistico, vale a dire alla quantità di beni e servizi commerciali e affini, prodotti e consumati; la stima della somma dei beni e dei servizi è calcolata al lordo, ossia senza tenere conto della perdita del patrimonio naturale e artificiale necessaria alla sua produzione.

Il primo punto è formulato nel dibattito fra Robert Malthus e Jean Baptiste Say. Malthus comincia col comunicarci la propria perplessità: «Se la pena che ci si dà per cantare una canzone è un lavoro produttivo, perché gli sforzi che si fanno per rendere divertente e istruttiva una conversazione e che sicuramente offrono un risultato ben più interessante, dovrebbero essere esclusi dal novero delle produzioni attuali? Perché non vi si dovrebbero comprendere gli sforzi che dobbiamo fare per moderare le nostre passioni e per diventare obbedienti a tutte le leggi divine e umane che sono, senza possibilità di smentita, i beni più preziosi? Perché, in sostanza, dovremmo escludere un’azione qualsiasi il cui fine sia quello di ottenere il piacere o di evitare il dolore, sia del momento che nel futuro?».


Materiali e immateriali

Certo, ma è Malthus stesso poi a osservare che questa soluzione porterebbe direttamente all’autodistruzione dell’economia come campo specifico. «È vero che in tal modo potrebbero esservi comprese tutte le attività della specie umana in tutti i momenti della vita», nota giustamente. Infine, aderisce al punto di vista riduttivo di Say: «Se poi, insieme a Say», scrive Malthus «desideriamo fare dell’economia politica una scienza positiva, fondata sull’esperienza e capace di dare risultati precisi, dobbiamo essere particolarmente precisi nella definizione del termine principale di cui essa di serve (cioè, la ricchezza) e comprendervi solamente quegli oggetti il cui aumento o diminuzione siano tali da potere essere valutati; e la linea più ovvia e utile da tracciare è quella che separa gli oggetti materiali da quelli immateriali».

In accordo con Jean-Baptiste Say, che definisce così la felicità del consumo, non molto tempo fa Jan Tinbergen proponeva di ribattezzare il PNL semplicemente FNL (felicità nazionale lorda). In realtà, questa pretesa arrogante dell’economista olandese è solo un ritorno alle fonti. Se la felicità si materializza in benessere, versione eufemizzata del «ben avere», qualsiasi tentativo di trovare altri indicatori di ricchezza e di felicità sarebbe vano. Il PIL è la felicità quantificata.

È facile condannare questa pretesa di equiparare felicità e PIL pro capite, dimostrando che il prodotto interno o nazionale misura solo la «ricchezza» commerciale. In effetti, dal PIL sono escluse le transazioni fuori mercato (lavori domestici, volontariato, lavoro in nero), mentre invece le spese di «riparazione»sono contate in positivo e i danni generati (esternalità negative) non vengono dedotti, neppure la perdita del patrimonio naturale. Si dice ancora che il PIL misura gli outputs o la produzione, non gli outcomes o i risultati.

È appropriato ricordare il bellissimo discorso di Robert Kennedy (scritto probabilmente da John Kenneth Galbraith) pronunciato qualche giorno prima del suo assassinio. «Il nostro PIL (…) include l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le corse delle ambulanze che raccolgono i feriti sulle strade. Include la distruzione delle nostre foreste e la scomparsa della natura. Include il napalm e il costo dello stoccaggio dei rifiuti radioattivi. In compenso, il pil non conteggia la salute dei nostri bambini, la qualità della loro istruzione, l’allegria dei loro giochi, la bellezza della nostra poesia o la saldezza dei nostri matrimoni. Non prende in considerazione il nostro coraggio, la nostra integrità, la nostra intelligenza, la nostra saggezza. Misura qualsiasi cosa, ma non ciò per cui la vita vale la pena di essere vissuta».

La società economica della crescita e del benessere non realizza l’obiettivo proclamato dalla modernità, cioè: la felicità più grande per il maggior numero di persone. Lo constatiamo chiaramente. «Nel XIX secolo, nota Jacques Ellul, la felicità è legata essenzialmente al benessere, ottenuto grazie a mezzi meccanici, industriali, e grazie alla produzione. (…) Una tale immagine della felicità ci ha condotti alla società del consumo. Adesso che sappiamo per esperienza che il consumo non fa la felicità, conosciamo una crisi di valori». Il fatto è che nella riduzione economicista , come osserva Arnaud Berthoud, «tutto ciò che fa la gioia di vivere insieme e tutti i piaceri dello spettacolo sociale dove ognuno si mostra agli altri in tutti i luoghi del mondo – mercati, laboratori, scuole, amministrazioni, vie o piazze pubbliche, vita domestica, luoghi di svago… sono rimossi dalla sfera economica e collocati nella sfera della morale, della psicologia o della politica. La sola felicità che ci si aspetta ancora dal consumo è separata dalla felicità degli altri e dalla gioia comune». (…)

Il progetto di una «economia» civile o della felicità sviluppato soprattutto da un gruppo di economisti italiani (rappresentato principalmente da Stefano Zamagli, Luigino Bruni, Benedetto Gui, Stefano Bartolini e Leonardo Becchetti) si ricollega alla tradizione aristotelica e trae origine da una critica dell’individualismo. La costruzione di una tale economia resuscita la «publica felicità» di Antonio Genovesi e della scuola napoletana del XVIII secolo che il trionfo dell’economia politica scozzese ha respinto. La felicità terrestre, in attesa della beatitudine promessa ai giusti nell’aldilà, generata da un governo retto (buon governo) che persegue la ricerca del bene comune era, in effetti, l’oggetto di riflessione degli Illuministi napoletani. Integrando il mercato, la concorrenza e la ricerca da parte del soggetto commerciale di un proprio interesse personale, essi non ripudiavano l’eredità del tomismo. Questi teorici dell’economia civile sono perfettamente coscienti del «paradosso della felicità» riscoperto dall’economista americano Richard Easterlin. «È legge dell’universo – scriveva Genovesi – che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri». Ci sono voluti due secoli di distruzione frenetica del pianeta grazie al «buon governo» della mano invisibile e dell’interesse individuale eretto a divinità per riscoprire queste verità elementari. (…)


Merci fittizie

Come aveva visto bene Baudrillard a suo tempo, «una delle contraddizioni della crescita è che produce beni e bisogni allo stesso tempo, ma non li produce allo stesso ritmo». Ne risulta ciò che egli chiama «una pauperizzazione psicologica», uno stato di insoddisfazione generalizzata, che, dice, «definisce la società di crescita come l’opposto di una società di abbondanza». La frugalità ritrovata permette di ricostruire una società di abbondanza sulla base di quello che Ivan Illich chiamava la «sussistenza moderna». Vale a dire, «il modo di vita in un’economia postindustriale all’interno della quale le persone sono riuscite a ridurre la propria dipendenza nei confronti del mercato, e l’hanno fatto proteggendo – con mezzi politici – un’infrastruttura in cui tecniche e strumenti servono, essenzialmente, a creare valori di uso non quantificato e non quantificabile dai fabbricanti professionali di bisogni». Si tratta di uscire dall’immaginario dello sviluppo e della crescita, e di re-incastonare il dominio dell’economia nel sociale attraverso una Aufhebung (toglimento/superamento).

Tuttavia, uscire dall’immaginario economico implica rotture molto concrete. Sarà necessario fissare regole che inquadrino e limitino l’esplosione dell’avidità degli agenti (ricerca del profitto, del sempre più): protezionismo ecologico e sociale, legislazione del lavoro, limitazione della dimensione delle imprese e così via. E in primo luogo la «demercificazione» di quelle tre merci fittizie che sono il lavoro, la terra e la moneta. Si sa che Karl Polanyi vedeva nella trasformazione forzata di questi pilastri della vita sociale in merci il momento fondante del mercato autoregolatore. Il loro ritiro dal mercato mondializzato segnerebbe il punto di partenza di una reincorporazione/reinnesto dell’economia nel sociale. Parallelamente a una lotta contro lo spirito del capitalismo, sarà opportuno dunque favorire le imprese miste in cui lo spirito del dono e la ricerca della giustizia mitighino l’asprezza del mercato. Certo, per partire dallo stato attuale e raggiungere «l’abbondanza frugale», la transizione implica nuove regole e ibridazioni e in questo senso le proposte concrete degli altermondialisti, dei sostenitori dell’economia solidale fino alle esortazioni alla semplicità volontaria, possono ricevere l’appoggio incondizionato dei partigiani della decrescita. Se il rigore teorico (l’etica della convinzione di Max Weber) esclude i compromessi del pensiero, il realismo politico (l’etica della responsabilità) presuppone il compromesso per l’azione. La concezione dell’utopia concreta della costruzione di una società di decrescita è rivoluzionaria, ma il programma di transizione per giungervi è necessariamente riformista. Molte proposte «alternative» che non rivendicano esplicitamente la decrescita possono dunque felicemente trovare posto all’interno del programma.

Lo spirito del dono

Un elemento importante per uscire dalle aporie del superamento della modernità è la convivialità. Oltre ad affrontare il riciclaggio dei rifiuti materiali, la decrescita si deve interessare alla riabilitazione degli emarginati. Se lo scarto migliore è quello che non è prodotto, l’emarginato migliore è quello che la società non genera. Una società decente o conviviale non produce esclusi. La convivialità, il cui termine Ivan Illich prende in prestito dal grande gastronomo francese del XVIII secolo Brillat Savarin (Le fisiologia del gusto. Meditazioni di gastronomia trascendentale), mira appunto a ritessere il legame sociale smagliato dall’«orrore economico» (Rimbaud). La convivialità reintroduce lo spirito del dono nel commercio sociale accanto alla legge della giungla e riprende così la philia (amicizia) aristotelica, ricordando al contempo lo spirito dell’agape cristiana. Questa preoccupazione si ricollega appieno all’intuizione di Marcel Mauss che nel suo articolo del 1924, Apprezzamento sociologico del bolscevismo, sostiene, «a rischio di apparire antiquato» di dover tornare «ai vecchi concetti greci e latini di caritas (che oggi traduciamo così male con carità), di philia, di koinomia, di questa “amicizia” necessaria, di questa “comunità” che sono l’essenza delicata della città».

È importante anche scongiurare la rivalità mimetica e l’invidia distruttrice che minacciano ogni società democratica. Lo spirito del dono, fondamentale per la costruzione di una società di decrescita, è presente in ognuna delle R che formano il cerchio virtuoso proposto per dare vita all’utopia concreta della società autonoma. Soprattutto nella prima R, rivalutare, poiché indica la sostituzione dei valori della società commerciale (la concorrenza esacerbata, il ciascuno per sé, l’accumulo senza limiti) e della mentalità predatrice nei rapporti con la natura, con i valori di altruismo, di reciprocità e di rispetto dell’ambiente. Il mito dell’inferno dalle lunghe forchette con cui si apre la seconda parte del libro La scommessa della decrescita è esplicito: l’abbondanza abbinata al ciascuno per sé produce miseria, mentre la spartizione, pur nella frugalità, genera soddisfazione in tutti, perfino gioia di vivere. La seconda R, riconcettualizzare, insiste invece sulla necessità di ripensare la ricchezza e la povertà. La «vera» ricchezza è fatta di beni relazionali, quelli fondati appunto sulla reciprocità e la non rivalità, il sapere, l’amore, l’amicizia. Al contrario, la miseria è soprattutto psichica e deriva dall’abbandono nella «folla solitaria», con cui la modernità ha sostituito la comunità solidale. (…)

È imperativo ridurre il peso del nostro modo di vita sulla biosfera, ridurre l’impronta ecologica i cui eccessi si traducono in prestiti richiesti alle generazioni future e all’insieme del cosmo, ma anche al Sud del mondo. Abbiamo dunque l’obbligo di dare in cambio ciò che si trova al centro della maggior parte delle altre R: ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Ridistribuire rimanda all’etica della spartizione, ridurre (la propria impronta ecologica) al rifiuto della predazione e dell’accaparramento, riutilizzare, al rispetto per il dono ricevuto e riciclare, alla necessità di restituire alla natura e a Gaia ciò che è stato preso in prestito da loro.

Questa la differenza sostanziale tra il ben-avere e il ben-essere e i passaggi necessari per raggiungerlo.

Serge Latouche

Traduzione di Laura Pagliara

Taoismo, Confucianesimo ed I Ching - Viaggio breve alla scoperta dell'antica saggezza cinese




Due sono stati i ricercatori italiani illustri che hanno legato il loro nome alla scoperta dei misteri di Cina ed India. Il primo fu il gesuita maceratese, Matteo Ricci (1552/1610), che soggiornò lungamente presso la corte imperiale cinese scrivendo diversi libri in Mandarino (la lingua dotta); la sua più importante composizione fu il Grande Mappamondo, la cui sesta edizione fu fatta ristampare su ordine dell’imperatore stesso. Egli cercò di integrare la cultura cinese con quella occidentale in una sintesi più apprezzata in Cina, ove morì a Pechino, che presso la chiesa cattolica che lo aveva inviato in Cina come “missionario”.

L’altro grande studioso, anch'egli maceratese, fu il professor Giuseppe Tucci (1894/1984), fondatore e curatore dell’ISMEO, l’istituto italiano per lo studio della cultura orientale e importante museo sito in Via Merulana a Roma. Io ebbi la fortuna di visitare quel museo e fui toccato dal rispetto con il quale le reliquie di religioni esterne alla nostra cultura avessero trovato ospitalità e idonea spiegazione. In seguito a ciò mi interessai alla letteratura ed alle traduzioni originali prodotte dall’esimio professor Tucci e mi abbeverai a quella fonte di conoscenza. In particolare apprezzai le sue ricerche sulla cultura nepalese e tibetana e la sua ricerca sull’antica saggezza cinese, laica per antonomasia, rivolta al benessere dello stato e del popolo. In particolare Giuseppe Tucci é stato in grado di offrirci un quadro suggestivo dei due indirizzi culturali della Cina, il Confucianesimo ed il Taoismo, la via della correttezza e la via della spontaneità.

Ricettacolo di questi due aspetti sociali è il Libro dei Mutamenti, I Ching, uno dei  testi di conoscenza più antichi dell’umanità. In esso sono integrati diversi commenti di Confucio e di Lao Tze, nonché considerazioni più tardive di matrice Chan (Meditazione Buddista). All’I Ching, di cui é disponibile un’ottima traduzione di Richard Wilhelm, con prefazione di Carl Gustav Jung, sono riconducibili anche gli archetipi psichici basilari dello zodiaco cinese.

La mia pluridecennale ricerca compiuta sia su testi di matrice cinese che indiana  mi ha portato a elaborare un sistema archetipale misto, basato sugli esagrammi dell’I Ching e sui cinque elementi indiani. Seguendo poi la tradizione orientale, ed avendo “completato” i miei studi e le mie sperimentazioni dal vivo, ho deciso di trasmettere la conoscenza acquisita attraverso una serie di incontri che si terranno ovunque io mi trovi in quel momento.  Le sessioni sono gratuite e si svolgono vivendo in spirito comunitario la quotidianità, e condividendo cibo e lavoro. 


Paolo D’Arpini 


circolo.vegetariano@libero.it

Ai papi cattolici piacciono gli UFO

L’extraterrestre è mio fratello
“E quindi uscimmo a riveder le stelle”. Cita Dante – il celebre verso che chiude l’ultimo canto dell’Inferno – per descrivere la missione dell’astronomia. Che è anzitutto quella di “restituire agli uomini la giusta dimensione di creature piccole e fragili davanti allo scenario incommensurabile di miliardi e miliardi di galassie”. E se poi scoprissimo di non essere i soli ad abitare l’universo? L’ipotesi non lo inquieta più di tanto. È possibile credere in Dio e negli extraterrestri. Si può ammettere l’esistenza di altri mondi e altre vite, anche più evolute della nostra, senza per questo mettere in discussione la fede nella creazione, nell’incarnazione, nella redenzione. Parola di astronomo e di sacerdote. Parola di José Gabriel Funes, direttore della Specola Vaticana.
Argentino, quarantacinque anni, gesuita, dall’agosto del 2006 padre Funes ha le chiavi della storica sede nel Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo, che Pio XI concesse all’osservatorio vaticano nel 1935. Fra circa un anno le restituirà, per ricevere quelle del monastero delle basiliane situato al confine tra le Ville Pontificie e Albano, dove si trasferiranno gli studi, i laboratori e la biblioteca della Specola. Unisce modi cortesi e pacati a quel leggero distacco dalle cose terrene di chi è abituato a tenere gli occhi rivolti verso l’alto. Un po’ filosofo e un po’ investigatore, come tutti gli astronomi. Contemplare il cielo è per lui l’atto più autenticamente umano che si possa fare. Perché – spiega a “L’Osservatore Romano” – “dilata il nostro cuore e ci aiuta a uscire dai tanti inferni che l’umanità si è creata sulla terra:  le violenze, le guerre, le povertà, le oppressioni”.
Come nasce l’interesse della Chiesa e dei Papi per l’astronomia?
Le origini si possono far risalire a Gregorio XIII, che fu l’artefice della riforma del calendario nel 1582. Padre Cristoforo Clavio, gesuita del Collegio romano, fece parte della commissione che studiò questa riforma. Tra Settecento e Ottocento sorsero ben tre osservatori per iniziativa dei Pontefici. Poi nel 1891, in un momento di conflitto tra il mondo della Chiesa e il mondo scientifico, Papa Leone XIII volle fondare, o meglio rifondare, la Specola Vaticana. Lo fece proprio per mostrare che la Chiesa non era contro la scienza ma promuoveva una scienza “vera e solida”, secondo le sue stesse parole. La Specola è nata dunque con uno scopo essenzialmente apologetico, ma col passare degli anni è divenuta parte del dialogo della Chiesa col mondo.
Lo studio delle leggi del cosmo avvicina o allontana da Dio?
L’astronomia ha un valore profondamente umano. È una scienza che apre il cuore e la mente. Ci aiuta a collocare nella giusta prospettiva la nostra vita, le nostre speranze, i nostri problemi. In questo senso – e qui parlo come prete e come gesuita – è anche un grande strumento apostolico che può avvicinare a Dio.
Eppure molti astronomi non perdono occasione per fare pubblica professione di ateismo.
Direi che è un po’ un mito ritenere che l’astronomia favorisca una visione atea del mondo. Mi sembra che proprio chi lavora alla Specola offra la testimonianza migliore di come sia possibile credere in Dio e fare scienza in modo serio. Più di tante parole conta il nostro lavoro. Contano la credibilità e i riconoscimenti ottenuti a livello internazionale, le collaborazioni con colleghi e istituzioni di ogni parte del mondo, i risultati delle nostre ricerche e delle nostre scoperte. La Chiesa ha lasciato un segno nella storia della ricerca astronomica.
Ci faccia qualche esempio.
Basterebbe ricordare che una trentina di crateri della luna portano i nomi di antichi astronomi gesuiti. E che un asteroide del sistema solare è stato intitolato al mio predecessore alla direzione della Specola, padre George Coyne. Si potrebbe richiamare inoltre l’importanza di contributi come quelli di padre O’Connell all’individuazione del “raggio verde” o di fratello Consolmagno al declassamento di Plutone. Per non parlare dell’attività di padre Corbally – vicedirettore del nostro centro astronomico di Tucson – che ha lavorato con un team della Nasa alla recente scoperta di asteroidi residui della formazione di sistemi binari di stelle.
L’interesse della Chiesa per lo studio dell’universo si può spiegare col fatto che l’astronomia è l’unica scienza che ha a che fare con l’infinito e quindi con Dio?
Per essere precisi, l’universo non è infinito. È molto grande ma è finito, perché ha un’età:  circa quattordici miliardi di anni, secondo le nostre conoscenze più recenti. E se ha un’età, significa che ha un limite anche nello spazio. L’universo è nato in un determinato momento e da allora si espande continuamente.
Da che cosa ha avuto origine?
Quella del big bang resta, a mio giudizio, la migliore spiegazione dell’origine dell’universo che abbiamo finora dal punto di vista scientifico.
E da allora che cosa è successo?
Per trecentomila anni la materia, l’energia, la luce sono rimaste unite in una sorta di miscela. L’universo era opaco. Poi si sono separate. Così noi adesso viviamo in un universo trasparente, possiamo vedere la luce:  quella delle galassie più lontane, per esempio, che è arrivata a noi dopo undici o dodici miliardi di anni. Bisogna ricordare che la luce viaggia a trecentomila chilometri al secondo. Ed è proprio questo limite a confermarci che l’universo oggi osservabile non è infinito.
La teoria del big bang avvalora o contraddice la visione di fede basata sul racconto biblico della creazione?
Da astronomo, io continuo a credere che Dio sia il creatore dell’universo e che noi non siamo il prodotto della casualità ma i figli di un padre buono, il quale ha per noi un progetto d’amore. La Bibbia fondamentalmente non è un libro di scienza. Come sottolinea la Dei verbum, è il libro della parola di Dio indirizzata a noi uomini. È una lettera d’amore che Dio ha scritto al suo popolo, in un linguaggio che risale a duemila o tremila anni fa. All’epoca, ovviamente, era del tutto estraneo un concetto come quello del big bang. Dunque, non si può chiedere alla Bibbia una risposta scientifica. Allo stesso modo, noi non sappiamo se in un futuro più o meno prossimo la teoria del big bang sarà superata da una spiegazione più esauriente e completa dell’origine dell’universo. Attualmente è la migliore e non è in contraddizione con la fede. È ragionevole.
Ma nella Genesi si parla della terra, degli animali, dell’uomo e della donna. Questo esclude la possibilità dell’esistenza di altri mondi o esseri viventi nell’universo?
A mio giudizio questa possibilità esiste. Gli astronomi ritengono che l’universo sia formato da cento miliardi di galassie, ciascuna delle quali è composta da cento miliardi di stelle. Molte di queste, o quasi tutte, potrebbero avere dei pianeti. Come si può escludere che la vita si sia sviluppata anche altrove? C’è un ramo dell’astronomia, l’astrobiologia, che studia proprio questo aspetto e che ha fatto molti progressi negli ultimi anni. Esaminando gli spettri della luce che viene dalle stelle e dai pianeti, presto si potranno individuare gli elementi delle loro atmosfere – i cosiddetti biomakers - e capire se ci sono le condizioni per la nascita e lo sviluppo della vita. Del resto, forme di vita potrebbero esistere in teoria perfino senza ossigeno o idrogeno.
Si riferisce anche ad esseri simili a noi o più evoluti?
È possibile. Finora non abbiamo nessuna prova. Ma certamente in un universo così grande non si può escludere questa ipotesi.
E questo non sarebbe un problema per la nostra fede?
Io ritengo di no. Come esiste una molteplicità di creature sulla terra, così potrebbero esserci altri esseri, anche intelligenti, creati da Dio. Questo non contrasta con la nostra fede, perché non possiamo porre limiti alla libertà creatrice di Dio. Per dirla con san Francesco, se consideriamo le creature terrene come “fratello” e “sorella”, perché non potremmo parlare anche di un “fratello extraterrestre”? Farebbe parte comunque della creazione.
E per quanto riguarda la redenzione?
Prendiamo in prestito l’immagine evangelica della pecora smarrita. Il pastore lascia le novantanove nell’ovile per andare a cercare quella che si è persa. Pensiamo che in questo universo possano esserci cento pecore, corrispondenti a diverse forme di creature. Noi che apparteniamo al genere umano potremmo essere proprio la pecora smarrita, i peccatori che hanno bisogno del pastore. Dio si è fatto uomo in Gesù per salvarci. Così, se anche esistessero altri esseri intelligenti, non è detto che essi debbano aver bisogno della redenzione. Potrebbero essere rimasti nell’amicizia piena con il loro Creatore.
Insisto:  se invece fossero peccatori, sarebbe possibile una redenzione anche per loro?
Gesù si è incarnato una volta per tutte. L’incarnazione è un evento unico e irripetibile. Comunque sono sicuro che anche loro, in qualche modo, avrebbero la possibilità di godere della misericordia di Dio, così come è stato per noi uomini.
Il prossimo anno si celebra il bicentenario della nascita di Darwin e la Chiesa torna a confrontarsi con l’evoluzionismo. L’astronomia può offrire un contributo a questo confronto?
Come astronomo posso dire che dall’osservazione delle stelle e delle galassie emerge un chiaro processo evolutivo. Questo è un dato scientifico. Anche qui io non vedo contraddizione tra quello che noi possiamo imparare dall’evoluzione – purché non diventi un’ideologia assoluta – e la nostra fede in Dio. Ci sono delle verità fondamentali che comunque non mutano:  Dio è il creatore, c’è un senso alla creazione, noi non siamo figli del caso.
Su queste basi, è possibile un dialogo con gli uomini di scienza?
Direi che anzi è necessario. La fede e la scienza non sono inconciliabili. Lo diceva Giovanni Paolo II e lo ha ripetuto Benedetto XVI:  fede e ragione sono le due ali con cui si eleva lo spirito umano. Non c’è contraddizione tra quello che noi sappiamo attraverso la fede e quello che apprendiamo attraverso la scienza. Ci possono essere tensioni o conflitti, ma non dobbiamo averne paura. La Chiesa non deve temere la scienza e le sue scoperte.
Come invece è avvenuto con Galileo.
Quello è certamente un caso che ha segnato la storia della comunità ecclesiale e della comunità scientifica. È inutile negare che il conflitto ci sia stato. E forse in futuro ce ne saranno altri simili. Ma penso che sia arrivato il momento di voltare pagina e guardare piuttosto al futuro. Questa vicenda ha lasciato delle ferite. Ci sono stati malintesi. La Chiesa in qualche modo ha riconosciuto i suoi sbagli. Forse si poteva fare di meglio. Ma ora è il momento di guarire queste ferite. E ciò si può realizzare in un contesto di dialogo sereno, di collaborazione. La gente ha bisogno che scienza e fede si aiutino a vicenda, pur senza tradire la chiarezza e l’onestà delle rispettive posizioni.
Ma perché oggi è così difficile questa collaborazione?
Credo che uno dei problemi del rapporto tra scienza e fede sia l’ignoranza. Da una parte, gli scienziati dovrebbero imparare a leggere correttamente la Bibbia e a comprendere le verità della nostra fede. Dall’altra, i teologi e gli uomini di Chiesa dovrebbero aggiornarsi sui progressi della scienza, per riuscire a dare risposte efficaci alle questioni che essa pone continuamente. Purtroppo anche nelle scuole e nelle parrocchie manca un percorso che aiuti a integrare fede e scienza. I cattolici spesso rimangono fermi alle conoscenze apprese al tempo del catechismo. Credo che questa sia una vera e propria sfida dal punto di vista pastorale.
Cosa può fare in questo senso la Specola?
Diceva Giovanni XXIII che la nostra missione deve essere quella di spiegare agli astronomi la Chiesa e alla Chiesa l’astronomia. Noi siamo come un ponte, un piccolo ponte, tra il mondo della scienza e la Chiesa. Lungo questo ponte c’è chi va in una direzione e chi va in un’altra. Come ha raccomandato Benedetto XVI a noi gesuiti in occasione dell’ultima congregazione generale, dobbiamo essere uomini sulle frontiere. Credo che la Specola abbia questa missione:  essere sulla frontiera tra il mondo della scienza e il mondo della fede, per dare testimonianza che è possibile credere in Dio ed essere buoni scienziati. 
 Francesco M. Valiante  -  L’Osservatore Romano 14 maggio 2008

Vincenzo Magliocco, Pio La Torre e l'aeroporto di Comiso - La memoria degradata


....so bene che il fattaccio è passato in carrozza e che l'argomento può considerarsi di "scarso interesse mediatico" nell'Italia di oggi ma, assieme a pochi altri, ritengo non possa "scomparire nel nulla".

Antefatto: da sempre (1939-giorni nostri) l'aeroporto di Comiso (Rg) è stato titolato alla medaglia d'oro (piú 2 d'argento ed 1 di bronzo) gen. Vincenzo Magliocco, eroe dell'aviazione morto in Etiopia nel 1936. La titolazione non è stata mutata neppure dopo la "liberazione" e quando lo scalo di Comiso è stato convertito da militare a civile, in varie fasi e date.

Nel 2007 la giunta di sinistra di Ragusa ribattezza Pio La Torre lo scalo, dedicandolo al segretario regionale del Pci assassinato dalla mafia nel 1982.
Ribaltata la situazione al comune di Ragusa il nome Vincenzo Magliocco ritorna ad indicare l'aeroporto di Comiso.

Ma, tornata al potere la sinistra, il terzo tempo vede rimesso in sella Pio La Torre.
Lo scorso 7 giugno 2014, alla presenza del Presidente del Senato e di altri politici (tutti di appartenenza Pd) viene ufficialmente ribaltata la "nuova"titolazione all'eroe dell'antimafia al posto di quella "vecchia" dedicata a Magliocco. Inoltre, assieme ad una campagna mediatica celebrativa dei meriti civili (che non metto in discussione) di La Torre, si è pure massacrata la figura del generale Magliocco per renderne la memoria perlomeno "indegna"di essere ricordata ulteriormente.

Si è scritto (ed a quanto pare pure parlato in televisione) che trattavasi di un "gerarca" fascista  e pure massacratore di etiopi innocenti in guerra, contrapponendone la (presunta) "brutalità" alla attività "pacifista" di La Torre quando a Comiso stazionavano i Cruise americani.

Ad oggi... fine della storia.

Governando il Pd (in Italia e Sicilia) la buonanima di La Torre si gode il suo "luogo della memoria" in quel di Comiso. "Degradato" di fatto sul campo (d'aviazione) il generale Magliocco starà forse riflettendo, ovunque si trovi, sulla validità delle motivazioni che lo portarono a sacrificare la vita in una sperduta località dell'Etiopia nel lontanissimo 1936. Se arriverà alle stesse conclusioni cui sono arrivato io  sicuramente farà pervenire a Grasso (e con lui a Crocetta, al sindaco di Ragusa, all'Enav, alle associazioni d'arma, ai media ed alla Rai) la medaglia d'oro al valor militare piú le altre due di supporto.

Per buttarle nella latrina piú vicina....

Vincenzo Mannello