L’India ha vibrazioni diverse, rispetto a qualsiasi altra terra: sono frutto di migliaia di anni di costante ricerca su se stessi. Nessun altro paese si è mai dedicato tanto a un progetto simile: è qualcosa di speciale e di unico.
La consapevolezza indiana non ha mai abbandonato questa ricerca, neppure per un istante, e non ne ha mai messo in dubbio la validità e la sostanza. Le ha sacrificato ogni cosa, addirittura la sua stessa vita: questo paese ha sofferto schiavitù, povertà, malattie e morte, ma non ha mai accettato la sconfitta in questa ricerca.
È una ricerca così antica che ha messo radici nel sangue, nelle ossa e nel midollo delle persone che hanno camminato su questa terra. Forse non ne sono consapevoli, ma di certo possiedono una vibrazione particolare che non è personale, ma appartiene alla loro eredità genetica. Nascendo, la portano con sé.
L’Occidente ha sviluppato una tradizione del tutto diversa: la motivazione fondamentale dell’azione, caratteristica dell’Occidente, è l’esplorazione degli oggetti, oggetti inanimati. E se per secoli esplori solo oggetti inanimati, è inevitabile che si insidi una sorta di morte anche nel tuo essere.
L’uomo è riconoscibile dalle compagnie che sceglie. La mente occidentale è circondata da oggetti. Studia persino le stelle più lontane e una sola cosa non suscita il suo interesse: il proprio essere.
Ciò che è ovvio è ignorato, mentre ciò che è distante diventa il punto focale di tutto l’interesse. Naturalmente, l’essere inizia a spostarsi sempre più lontano dal centro.
La mente occidentale vive alla periferia che per secoli è stata la preoccupazione fondamentale. Naturalmente, questo ha generato una cultura di tipo diverso rispetto alla cultura indiana. E ha generato un approccio particolare tra gli esseri umani: ha generato la psicologia dell’io.
Da Aristotele in poi, l’enfasi dell’educazione occidentale è sempre stata sul rafforzamento dell’io. È una conclusione ovvia, naturale: in un contesto del genere, in un mondo dove esistono centinaia di migliaia di persone, tutte in lotta per gli stessi oggetti, per raggiungere gli stessi obiettivi, devi competere. In un ambiente simile non puoi essere sincero, non puoi essere gentile e non puoi non essere violento. E non puoi preoccuparti troppo dei mezzi che usi, non puoi pensare che è possibile raggiungere un obiettivo usando dei buoni mezzi. E ti è difficile capire che se i mezzi non sono buoni il fine non potrà essere buono; anzi, sono i mezzi che, in ultima analisi, si trasformano nella meta, nel fine. È il sentiero che, alla fine, diventa la meta: un sentiero sbagliato non può portare alla meta giusta!
Ma quando il gioco si fonda sulla competizione, devi essere astuto, furbo, intrigante, perché tutti gli altri lo sono: devi esserlo più di loro, altrimenti sarai sconfitto.
Se vuoi essere ricco, devi lottare con le unghie e con i denti e non ti resta tempo per pensare ai mezzi e ai fini. Devi tenere gli occhi fissi sulla meta, sul tuo voler diventare più potente, più ricco, più rispettato e non ha alcuna importanza quali mezzi userai per raggiungere queste mete. E realizzare queste mete altro non è se non realizzare il tuo ego: “Sono superiore a chiunque altro, sono il migliore di tutti. Sono il primo, tutti gli altri sono sotto di me”.
In un’atmosfera simile, inchinarsi ai piedi di un maestro è del tutto impossibile, contrasta con l’essenza stessa dell’io.
È evidente dalle piccole cose, come l’Oriente e l’Occidente si sono evoluti in maniere specifiche, hanno seguito percorsi diversi, pur partendo dallo stesso materiale umano, pur usando la stessa energia umana.
In Oriente, ci si saluta congiungendo le mani all’altezza del cuore, in Occidente ci si stringe la mano: vedi la differenza?
In Oriente è come se dicessi: “Mi inchino alla divinità che c’è in te”. Quando stringi la mano, in primo luogo ti accerti che non stringa un’arma: “Non sono tuo nemico”, questo è il massimo che un simile gesto di saluto può implicare.
Allo stesso modo, in Oriente, si è sviluppata la tradizione dell’inchinarsi e toccare i piedi di un maestro: è un gesto di incredibile beatitudine e, in quei momenti, metti il tuo ego completamente da parte. In quei momenti sei puro essere e ciò significa pura beatitudine.
Ma gli occidentali trovano estremamente difficile comprendere queste tradizioni: imparano a non arrendersi mai, che è meglio morire che arrendersi. Tutta l’educazione occidentale implica lo sviluppo dell’ego, in nome dell’individualità, anche se si tratta di un inganno assoluto, in quanto l’individualità è un fenomeno totalmente diverso che non ha nulla a che vedere con l’io. Anzi, più sei egoico e minore sarà la tua individualità. Se sei totalmente cristallizzato in quanto io, non avrai in te alcuno spazio per un’individualità.
L’ego ha paura di piegarsi, ma l’individualità non ha paura, perché a ogni occasione si sente arricchita: non perde mai nulla, guadagna sempre qualcosa. Inchinarsi riversa fiori di beatitudine su un individuo. Rinfresca, acquieta: discende un silenzio celestiale e dissolve ogni oscurità. Ma per l’io questa è una morte: solo per l’individualità un simile gesto implica sentirsi veramente vivi.
L’Occidente è stato ingannato dalle sue religioni, dai suoi educatori, dai suoi politici che hanno spinto a credere che “l’ego è la tua individualità, quindi devi rafforzare il tuo io”. Certamente è utile nel mondo degli affari: aiuta a lottare, a competere senza pietà. Genera una competizione sfrenata, dove non importa il mezzo che si sceglie: il tuo io deve essere realizzato, il tuo ego dev’essere appagato, allora ti senti bene.
L’India conosce un’altra dimensione: nella tradizione di questo paese si conosce una via di conquista, o meglio di realizzazione, che non ha nulla a che vedere col mondo esterno, con la sfera degli oggetti, con gli altri. Non si tratta di conquistare gli altri, ma se stessi; non si tratta di conquistare oggetti o mete esteriori, ma il proprio essere.
Si narra che quando Alessandro Magno conquistò l’India, sulla via del ritorno voleva portare con sé un sannyasin, un ricercatore. Glielo aveva chiesto Aristotele, il suo tutore, che ne aveva sentito parlare come di persone qualitativamente diverse. E sembrava che fossero loro a tenere l’intero Oriente a un livello esistenziale completamente diverso, o almeno così si diceva.
Alessandro era così impegnato a combattere che se ne dimenticò, ricordandosene solo sulla via del ritorno. Era oramai giunto al confine dell’India, ma qualcuno, in quell’ultimo villaggio, gli disse che un sannyasin viveva proprio nei pressi dell’accampamento, vicino al fiume.
Alessandro mandò i suoi soldati a catturarlo, ma quell’uomo non si fece minimamente spaventare dalle armi, anzi, rise e disse: “Andate a dire al vostro padrone che nessuno può portarmi da nessuna parte: un sannyasin si muove come una nuvola, nella più assoluta libertà. Potete anche tagliarmi la testa, ma io non vi seguirò!”.
Qualcosa nella sua presenza lo rendeva speciale e sprigionava qualcosa di luminoso. I soldati indietreggiarono, tornarono da Alessandro e gli dissero che, se voleva quell’uomo, doveva andare a prenderlo lui stesso: c’era qualcosa di sconosciuto nella sua presenza. Alessandro, che non era abituato a subire sconfitte, si presentò a spada tratta e disse con orgoglio e voce altisonante: “Io sono Alessandro Magno, il conquistatore del mondo”.
A quelle parole il sannyasin rise e disse: “Non essere sciocco e rimetti quella spada nel fodero, qui è inutile. La tua lama non può colpire me, ma solo il mio corpo e io me lo sono lasciato alle spalle da tempo. Puoi tagliarmi la testa, ma quando cadrà, anch’io la vedrò rotolare sulla sabbia, perché non sono questo corpo, sono il testimone. Non essere infantile, rimetti la tua spada nel fodero! E ricorda, questo tuo definirti ‘Magno’ è solo segno della tua inferiorità. Nella vita non esistono differenze simili, piuttosto, rispondi a questa domanda: hai conquistato te stesso?”.
Alessandro non aveva mai pensato a una cosa del genere, era un pensiero del tutto alieno alla sua cultura, del tutto estraneo a lui: non gli era mai neppure passata per la mente l’idea che si dovesse conquistare se stessi!
A quel silenzio, il sannyasin disse: “Hai del coraggio! Senza aver conquistato te stesso, hai iniziato a conquistare il mondo intero: vergognati! Come prima cosa, conquista te stesso: questa è l’unica vera vittoria”. E le parole di quell’uomo erano accompagnate da una compostezza e una solennità tali da renderle indubitabili, inequivocabili.
Alessandro poté solo voltare le spalle e tornare sui suoi passi: quell’uomo semplice, nudo, armato solo del suo essere, lo aveva sconfitto! Per la prima volta seguì gli ordini di un altro: la semplice presenza di quell’uomo gli fece dimenticare la sua posizione. E quando tornò al campo disse: “È difficile uccidere un uomo che è pronto a morire, non ha senso. Puoi uccidere una persona che lotta, ma non un uomo che non ha paura della morte”.
È la paura che ti rende schiavo. E anzi è la paura che ti spinge a ridurre gli altri in schiavitù, prima che facciano di te uno schiavo...
Tratto da: Osho, I Maestri raccontano, Oscar Mondadori