Sfruttamento del pianeta, la fine dei topi... e proposte costruttive per il 31 ottobre 2014 a Treia




Alcuni potentati economici, ben indirizzati e determinati, hanno
-dagli ultimi sessanta anni in poi- obbligato il sistema agricolo a
dipendere dai fertilizzanti chimici e dai veleni erbicidi. Pian piano
tutte le falde acquifere saranno inquinate e l’acqua diventerà un bene
preziosissimo e l’agricoltura, che sino a pochi anni fa era fonte di
nutrimento per l’uomo, diventerà la causa della sua rovina. Inoltre la
detenzione di sementi brevettate e la trasformazione dell’ambiente
porterà a carestie indicibili ed allo sterminio di intere popolazioni.
A chi interessa tutto ciò? Non è solo un meccanismo di sfruttamento
economico, dietro c’è una sorta di piano strategico per il dominio del
mondo.


Ma vediamo come è cominciato questo strazio. Tutto ha inizio con la
vittoria del sistema americano che ha esportato in tutto il mondo il
criterio alimentare basato sulla separazione del modello agricolo
tradizionale. La scissione è basata sull’aumento del consumo di carne.


Allontanati gli animali dalla campagna e rinchiusili negli allevamenti
intensivi, avendo cioè creato una frattura fra il mondo contadino
tradizionale che viveva in simbiosi con la presenza di animali nei
campi, ed avendo trasformato sia la produzione agricola che
l’allevamento in scomparto produttivo industriale, si è creata la
prima separazione in quel delicato organismo vitale che aveva sino
alla metà del secolo scorso consentito il mantenimento di un delicato
equilibrio: uomo, natura, animali. Scisse le due metà di un’unica
cellula, ovvero quella della compresenza e simbiosi fra vita animale e
vegetale. Si è potuto procedere al successivo passo alienante:
l’incremento nell’allevamento di animali da carne con sistemi
industriali e il contemporaneo sviluppo agricolo essenzialmente basato
sul sistema delle monoculture. Per nutrire gli animali non più
compartecipi del sistema naturale si è passati alla creazione di
apposite coltivazioni preposte al loro ingrasso, con alimenti che gli
animali non avrebbero mai trovato in natura, essendo precedentemente
abituati e predisposti al consumo di erbe sul campo. Non solo gli
animali si nutrivano di erbe spontanee ma contribuivano alla
concimazione diretta dei fondi ed al riposo di terreni che subivano
così un ciclo di diverse utilizzazioni e riposo. Il problema delle
cosiddette erbe infestanti non esisteva, tutto rientrava in un normale
procedere della vita naturale.


Imprigionati gli animali  negli allevamenti e dovendo approfittare 
della capacità produttiva degli stessi terreni ecco che giocoforza è
stato necessario ricorrere all’utilizzo di concimi artificiali e di
diserbanti. Inoltre questo processo si è ingigantito mano a mano che
le necessità di carne aumentavano, dovendo inoltre soddisfare le
esigenze di una numero crescente di persone che entravano nel
meccanismo consumistico. E l’accesso a quantità di cibo mai prima
ottenuto con i sistemi tradizionali ha contemporaneamente fatto
incrementare la presenza umana sul pianeta. Più gli umani aumentano,
più carne si consuma, più servono terreni agricoli, più si tagliano le
foreste, più si utilizzano concimi chimici e veleni.


Ricordo alcuni anni fa il problema che era subentrato nell’isola di
Montecristo, in seguito all’aumento massiccio della popolazione di
roditori emigrativi. I topi avevano invaso l’isola distruggendo ogni
altra forma vivente, mangiando le uova di uccelli, consumando ogni
risorsa alimentare… finché il loro numero era tanto cresciuto da
causare un’implosione… La natura si aggiusta da sé.


Probabilmente è quanto avverrà anche alla specie umana. Anche perché
le fonti di inquinamento e di distruzione dell’habitat non sono solo
quelle sinora menzionate. Vanno aggiunte le distruzioni deliberate per
scopi di guerra, l’uso indiscriminato di risorse sotterranee e
conseguenti sconquassi tellurici, la polluzione atmosferica causata
dall’uso massiccio di combustibili fossili, l’avvelenamento di sempre
maggiori aree verdi, etc.


La piaga umana sta impestando il pianeta sino alle midolla.
E come se non bastasse la produzione del cibo sta passando sempre più
in mani private, sta diventando un affare economico controllato
accuratamente da multinazionali, le stesse che compartecipano alla
finanza mondiale, e queste multinazionali hanno in mano la produzione
e possono quindi creare crisi alimentari pilotate per mantenere un
controllo reale sulla popolazione del globo. Le carestie sono ormai
un’arma in mano ai potentati economici. Tra l’altro l’inquinamento fa
si che l’acqua potabile sia diventata una rarità ed una fonte di
ulteriore speculazione. Su un pianeta composto da tre quarti di acqua
ecco che l’acqua manca….


Ma andiamo un po’ per ordine. Parliamo dell’utilizzo dei combustibili
fossili che ebbe inizio per merito dei petrolieri americani, i quali
una volta cominciato il bussinnes lo hanno esportato in tutto il
mondo, condizionando lo sviluppo industriale all’uso del petrolio. Il
petrolio ormai serve al funzionamento di tutto il sistema, ma
intendiamoci non è in se stesso il progresso e le invenzioni
tecnologiche e meccaniche che creano inquinamento, a parte l’aspetto
dell’eccesso consumistico, bensì il loro funzionamento, l’energia alla
quale questi mezzi attingono.


Eppure bruciare combustibili fossili a fini energetici ed industriali
è risaputo che contribuisce alla formazione di anidride carbonica e
questa a sua volta procura l’effetto serra. Non si può azzardare
nemmeno una previsione circa gli effetti futuri del turbamento
provocato dall’uomo nel ciclo naturale.


Ma tornando al problema ambientale causato dall’agricoltura
industriale. Vediamo che dal 1900 ad oggi l’azoto usato come
fertilizzante è aumentato di mille volte. L’interferenza
dell’agricoltura sui cicli naturali è superiore a quella causata da
ogni altro ciclo, compreso quello del ricambio atmosferico in seguito
all’aumento di CO2, e questo perché l’azoto finisce nelle falde
acquifere, nei fiumi, nei laghi e nei mari, e fa aumentare la crescita
di alghe e piante che soffocano le acque e le rendono morte per
eutrofizzazione. Inoltre se a ciò si aggiunge l’uso obbligato di
diserbanti sparsi a piene mani sulle coltivazioni ecco che scopriamo
che, con la nostra stupida mania di guadagno, stiamo avvelenando
l’acqua del pianeta e procurando la fine di un ciclo vitale
indispensabile al mantenimento della vita.


Aggiungiamoci poi l’inquinamento delle acque causate dall’allevamento
industriale e dal sistema fognario umano e vediamo finalmente che noi
stessi ci stiamo scavando la fossa, che noi stessi stiamo strozzandoci
con le nostre mani.


E chi ci da questa capacità? Chi chi spinge a farlo? Le famose
multinazionali che controllano il ciclo alimentare e tutto ciò che si
muove sulla faccia della terra. E di chi sono queste multinazionali?

Beh questo non posso dirvelo altrimenti mi taccereste di…

Paolo D’Arpini

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Commento di Caterina Regazzi: “Mi pare molto bello, anche se non sono
d’accordo con il primo paragrafo. Secondo me, dopo una prima fare di
euforia distruttiva e di menefreghismo nei confronti dell’ambiente,
sta subentrando una certa coscienza, che, pur essendo ancora il
sistema in mano alle multinazionali, sta facendo si che ci sia un
minimo dico un minimo di maggiore attenzione. Le acque credo siano
oggi meno inquinate di venti anni fa ed anche le terre sono meno
bombardate di antiparassitari e diserbanti. Mi è capitato già più
volte, nel corso del mio lavoro, intervistando allevatori che sono
anche agricoltori (fortunatamente) di sapere che usano pochissimi o
niente prodotti sui campi e anche pochi sugli animali…
Il problema sementi e ogm lo sento invece come molto urgente da
affrontare non so quanto l’Italia ancora potrà resistere a non usar
gli ogm e le sementi potranno salvarsi solo grazie a pochi buoni
volontari come Teodoro Margarita, si, ma per gli ortaggi e per qualche
coltura minore… ma il grano, il mais, i cereali che attualmente
vengono coltivati su grosse estensioni, sono destinati ad essere
coltivati solo a partire da sementi “brevettate”. O c’è qualche altra
soluzione? Si possono brevettare le sementi tradizionali? A che
costi?”



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Integrazione/commento

Caro Paolo, dopo questo articolo, converrai, che occorre tirare fuori qualche ideuzza condivisa per uscire fuori da questa deriva mortale che tu, con la consueta onestà intellettuale che ti contraddistingue, hai illustrato. Il prossimo 31 Ottobre a Treia, in occasione della presentazione del tuo libro (Riciclaggio della Memoria), non tanto occorre soffermarsi sull'analisi dei disastri, su cui possiamo convenire, tranne le multinazionali e i loro accoliti, quanto sulle proposte. Sulle tante iniziative di buone pratiche e comportamenti virtuosi e sui nuovi stili di vita che oggi rappresentano la vera alternativa ad un modello di sviluppo iniquo e insostenibile. C' è l'urgenza e la necessità che queste "esperienze alternative" lavorino in rete e non più separate. Molte realtà che conosciamo lo stanno già facendo, come le reti e distretti di economia solidale, ma non solo. Altrimenti saremo consegnati all'ininfluenza con la definitiva affermazione di chi ha interesse a sottometterci. In pratica ritorneremo ad essere dei sudditi. Se vogliamo continuare ad essere cittadini, che decidono insieme il loro futuro, c'è bisogno, per dirla alla Gaber, di partecipazione e di una sana voglia di perseguire insieme il bene comune. Dopo tanti egoismi imperanti, c'è bisogno che nel cuore degli uomini sgorgano desideri di condivisione, la consapevolezza che siamo uniti ad un medesimo destino..”  
Michele Meomartino


Sant’Antonio da Padova e dintorni…




"Spaccato di memorie sull’assurdità delle origini…."

Siccome non so che dire, oltre a raccontare qualche avventuretta  o parlare di qualche amico incontrato per strada, per ampliare il discorso vi racconterò del santo. Il santo ovviamente è Antonio da Padova, mio protettore di famiglia e grande esempio di “uomo di Dio con le palle”. Sì, Antonio protegge la mia famiglia da tempo immemorabile, quella parte di famiglia materna che è originaria dalla bassa padana, da Bagnoli di Sopra.  Il mio secondo nome è Roberto, come mio nonno materno Roberto Tirabosco,   e sia lui che mia nonna Santina  e mia madre Giustina  sono stati devoti del santo.  Durante le mie visite infantili a questo ramo della mia ascendenza padovana, venni spesso condotto nella basilica a pregare ed osservare…. Così sono rimasto affezionato a Sant’Antonio e ben feci poiché proprio per merito suo (nel rispetto umano di non volermi sentire a lui inferiore) ho smesso completamente di bere e di fumare senza sforzo alcuno (se non il vedermi tentato diabolicamente dal vizio e sorriderne…).

E proprio per onorare il santo ho scritto alcuni pensierini, a lui rivolti  ma per interposta persona, indirizzandoli ad una cara amica, Antonella, sua omonima femminile.

“Hai visto Antonella come ci siamo virtualizzati? La nostra è una continua ricerca nel pensiero. Oggi ho capito che nella nostra esistenza “rincorriamo” -cercando di afferrarlo- il presente. C’è una continua corsa, ma è solo apparente, dovuta all’attenzione che poniamo nel particolare, questa attenzione ci da l’illusione di divenire consci del nostro presente, di tutto ciò che ci circonda, essendo in grado di descriverlo ed inserirlo in “memoria”. Il conosciuto così insegue di pari passo lo sconosciuto e l’inconoscibile…. che rimane un concetto astratto, un’ipotesi od una interruzione. Quindi è solo questo “rincorrere” che consente alla nostra attenzione di fermarsi e conoscere. 

Questo meccanismo della conoscenza empirica si muove su un doppio binario: il presumere, che corrisponde alla proiezione del pensiero, e la conoscenza, che corrisponde alla memoria. Ed è proprio questo processo psicologico funzionale della mente che ci concede di affermare di esser vivi (in un corpo-forma e consapevoli dell’immanente). Altrimenti l’esperienza sarebbe un continuum ininterrotto senza incidenti di percorso né aspettative di raggiungimento, queste sensazioni sono possibili perché c’è appunto l’identificazione con una specifica coscienza individuale, che “osserva”. Tu, che sei la mia stessa mente, ti prego guarda per me, guarda attentamente quanto io non oso osservare e descrivilo...”.

Paolo D’Arpini




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Integrazione di Franca Oberti: 
"Antonio era il nome di mio padre. I suoi compaesani lo chiamavano Tugni e da bambina ero convinta fosse proprio quello il suo nome. Nell’attività commerciale di famiglia era rimasto Tugni, alcuni dicevano “il Tugni”, ma io pensavo sempre che il suo vero nome fosse più bello. Crescendo scoprii che anche mia nonna, morta che ancora non camminavo, si chiamava Antonia, oltre a Carla e Carlotta. Da ragazzina cominciai a curiosare nel solaio della casa di montagna e trovai tanti documenti provenienti dall’Argentina. Scoprii così che la mia era stata una famiglia di migranti. Infatti dopo qualche anno, cominciarono ad arrivare i parenti dell’Argentina. Un ramo, questo delle Americhe, che faceva capo ad un altro Antonio. Essendo però un nome piuttosto comune, mi sembrava così scontato che non lo sapevo apprezzare. Finché mio padre visse mi riferivo a lui col pensiero pensandolo Tugni e non Antonio. Un vero peccato, ma questo fu il mio rapporto con l’Antonio della famiglia. Quando nacque mio figlio, volevo onorare i nonni, come spesso ancora si usa in certe famiglie e così, come secondo nome, ho un altro Antonio in famiglia. Il mio migliore amico, da bambina, si chiamava Antonio e uno dei miei migliori amici di oggi si chiama ancora Antonio. Ricordo sempre il 17 gennaio, perché mio padre diceva: “Questo è il mio onomastico. L’altro Antonio, quello più importante, era troppo “signore” per rappresentarmi. Questo è l’Antonio degli animali e io mi sento amico degli animali come lo era lui”.
Rispetto ancora questo 17 gennaio e silenziosamente mando gli auguri al mio papà al di là del cielo. Quando morì, sembrò che tutti gli Antonio rappresentati in immagini e icone, arrivassero da me, mandati da una forza sovrannaturale, ritrovavo immaginette con i Santi Antonio ovunque. Entravo in chiesa e il mio occhio cadeva immediatamente sulla statua di Sant’Antonio da Padova. Persino nei circuiti TV di certe località, all’interno delle chiese, mi aspettavano per far scorrere l’immagine del Santo “signore”. Invece vicino a casa mia c’è un’antica edicola: una piccola nicchia, chiusa da un vetro, con, all’interno, Sant’Antonio Abate insieme ai suoi animali. Passo di lì ogni tanto, quando posso fare una passeggiata e mi soffermo, faccio il segno di Croce e gli dico: “Sant’Antonio caro, non farmi scherzi, continua a proteggere me e la mia famiglia e saluta il mio papà.” E mentre riprendo il cammino mi compare il sorriso un po’ sdentato di mio padre e mi sembra ancora di sentirlo: “sciü, stanni quieta” (su, stai tranquilla, ndr.)."

Potpourrì su Buddha e buddismo, in varie salse



"Spezzato il circolo vizioso, conquistata la libertà dal desiderio, la fiumana, prosciugata, non fluisce più; la ruota, infranta, più non rivolve. Questa, solo questa, è la fine del dolore" (Buddha Sakyamuni, in Udana, VII, 2)


Si narra che Buddha nacque intorno al 465 a. C. da una ricca famiglia della stirpe dei Sakya che dominava una parte dell’India himalayana. Fu allevato e crebbe nel lusso principesco, si sposò ed ebbe anche un figlio. Ma anche lui conobbe le miserie umane, incontrando durante alcune sue passeggiate un vecchio, un cadavere ed un mendicante. Queste tristi realtà della vita lo impressionarono notevolmente, tanto che all’età di 30 anni (notare la similitudine con il Cristo che iniziò la predicazione proprio a questa età) abbandonò tutto e tutti per dedicarsi a conoscere le cause della miseria ed alla ricerca di una soluzione all’enigma della vita. Si racconta che a 35 anni, dopo 49 giorni di riflessioni ai piedi di un albero di fico, in una notte di luna piena del mese di maggio, raggiunse l’illuminazione.


Animato  dalla pietà per gli uomini e dal desiderio di trasmettere la sua "conoscenza",  per circa quaranta anni percorse il nord dell’India, insegnando la sua dottrina.  Secondo la tradizione il Budda mori all’età di 80 anni ma prima di morire si rivolse ai suoi fedeli dicendo: "Ricordate o fratelli queste mie parole: tutte le cose composte sono destinate a disintegrarsi! Attuate quindi con diligenza la vostra propria salvezza!"

Il buddismo è un sistema di pensiero,  una scienza spirituale e un'arte di vivere, ragionevole e pratica e onnicomprensiva. Il buddismo non è una religione in senso stretto, in quanto priva dell'idea di un dio-persona e quindi di una teologia. Quando le falangi macedoni con il loro seguito di filosofi, storiografi, e letterati fecero il loro ingresso nella pianura dell'Indo tra il 327 e il 326 a.C, i greci entrarono in diretto contatto con l'antichissima civiltà indiana, che già parecchi secoli prima della nascita della filosofia ellenica aveva elaborato idee filosofiche di una profondità ed astrattezza del tutto sconosciute ai popoli del Mediterraneo. Probabilmente molti degli asceti incontrati da Alessandro appartenevano  alla tradizione buddista,  avendo il Buddha fondato la sua comunità da circa due secoli prima del suo arrivo. Infatti risultano tracce storiche della diffusione del  buddismo in varie parti dell'occidente, sia in Grecia che a Roma.  Esso esercita un fascino per l'occidente perché non ha dogmi, soddisfa al tempo stesso la ragione e il cuore, insiste sulla necessità di fare affidamento su se stessi e d'essere tolleranti verso le altrui opinioni, abbraccia scienza, filosofia, psicologia, etica e arte, ritiene che l'uomo sia il creatore della propria vita e l'artefice del proprio destino. La realtà ultima non si può descrivere e quindi un dio non è la realtà ultima.  Il buddismo si fonda sulla convinzione che la sofferenza e il mal-di-esistere derivano dall'attaccamento al nome-forma e dall'illusione individuale e collettiva di poter padroneggiare la realtà. Desiderio e sofferenza sono intrinsecamente connessi e il buddismo tende all'estinzione dell'individualità, allo smascheramento della natura illusoria. Il buddismo è fondamentalmente una prassi di vita al fine di ridurre la sofferenza dovuta all'attaccamento emotivo e intellettuale. Tutti hanno dentro di se la facoltà di raggiungere il risveglio. Si tratta quindi di diventare quello che già si è: "Guarda dentro di te: tu sei un Buddha."

Le varie scuole del buddismo (Theravada, Tantrismo, Lamaismo tibetano, Chan cinese, Zen giapponese e persino quelle forme di buddismo occidentalizzato, ecc.) si accostano  alla comune meta in base alle diverse inclinazioni dei loro fondatori e discepoli, dai costumi e dagli usi delle varie popolazioni che nel corso della loro storia adottarono la fede buddista. 

L'insegnamento tramandato dal Buddha non mira a convincere l'ascoltatore bensì fornisce chiare indicazioni metodologiche, etiche ed esistenziali. Per il Buddha è infinitamente più importante sperimentare l'impermanenza e la non-sostanzialità dell'io-individuale piuttosto che far ricorso alla ragione e alle parole. Chi sa tace. Questo tende ad escludere ogni risposta razionale e induce il discepolo ad abbandonare le normali categorie  di giudizio. Nella comprensione del meccanismo samsarico,  quel continuo trapassare da un oggetto all’altro  senza tregua, che ci spinge  nella illusione di  essere “individui” soggetti all’oggetto, come a una chimera, consumati e annullati nel mulinello del divenire. Il “pieno appagamento” sensoriale non può esistere. E, d’altra parte, è inconcepibile dentro la macchina-vortice, che gira e vive solo in base all’insoddisfazione sempre rinnovata, inesausta.

E per concludere teniamo presente quanto disse il Buddha a proposito del credere: "Non credere a niente perché ne hanno parlato e chiacchierato in molti. Non credere semplicemente perché vengono mostrate le dichiarazioni scritte di qualche vecchio saggio. Non credere alle congetture. Non credere come una verità ciò a cui ti sei legato per abitudine Non credere semplicemente all’autorità dei tuoi maestri e degli anziani. Dopo l’osservazione e l’analisi, quando concorda con la ragione e conduce al bene e al beneficio di tutti e di ciascuno, solo allora accettalo, e vivi secondo i suoi principi." 

Collage a cura di Paolo D'Arpini

Verità intuitiva e "verità" raccontata - Reminiscenze in penombra



Tutto ciò che esiste nel mondo sorge dall’incontro fra le tenebre e la
luce, fra la terra ed il cielo, fra il femminile ed il maschile, ed è
sempre presente, è la stessa sostanza che si trasforma ed assume
nuove forme. Spirito è materia sono Uno in espressioni diverse.

Questa è una teoria espressa non soltanto in India od in Cina ma
presente in ogni filosofia che meriti il nome e persino nella scienza
empirica. Ma in Cina ed in India maggiormente il discorso binario
delle forze creatrici, che attingono alla matrice unica, è stato
analizzato in profondità e portato alle sue estreme conclusioni. Ed
anche in occidente quasi tutti sanno –ad esempio- cosa sono lo Yin
(femminile) e lo Yang (maschile), i movimenti del Tao,  e molti
conoscono il binomio Shakti (fenomeno) e Shiva (noumeno) come
espressioni dell'Assoluto. Nella penombra dell’aurora si dice che il
mondo sia stato creato da Brahma. La descrizione di questa creazione è
molto semplice. La mitologia cosmologica mistica descrive la nascita
di tutti gli esseri attraverso l’opera creativa di Brahma. Il creatore
dovendo svolgere il suo compito formulò in se stesso il principio
femminile “Sandhia” che significa Aurora, assumendo egli il principio
maschile. Una volta che questa sua “figlia” apparve davanti ai suoi
occhi egli ne fu così affascinato che s’invaghì della sua stessa
creazione. Sandhia cercò di sfuggire alla bramosia di Brahma ed
assunse di volta in volta una forma diversa, sempre al femminile,
mentre Brahma la rincorse nella forma maschile della stessa specie. E
così tutti gli esseri senzienti furono alfine prodotti. Questa
allegoria simbolica del “rincorrersi” è ripetuta anche nella teoria
del Big Bang, in cui l’unità indistinta primordiale (Tao per i cinesi)
si trasforma in grande esplosione creatrice (il desiderio del
moltiplicarsi), resa possibile dall’espansione del tempo nello spazio,
potremmo egualmente chiamarli luce e tenebra….


Ma voglio scendere nei particolari minuti, sulle intuizioni presenti
in ognuno di noi, prendendo l’esempio della mia stessa vita. I ricordi
più lontani che ho di me stesso risalgono al limbo del grembo materno
ed al momento della nascita. Allora percepivo chiaramente il destino
della forma che avrei assunto, con tutte le difficoltà conseguenti al
necessario riequilibrio di un precedente karma. La volontà di uscire
fuori dall’utero era molto debole, vedendo le umiliazioni, le paure,
le fatiche, le trasformazioni che mi aspettavano… eppure ad un certo
momento sentii che non potevo tirarmi indietro, che questa nascita era
necessaria per la mia evoluzione, che vi sarebbero stati anche momenti
santi e gloriosi, che questa mia vita avrebbe aiutato il compimento
anche di altre esistenze. E così venni alla luce, tirato fuori da un
forcipe…. Che la levatrice infine usò, vista la mia reticenza a
nascere….


E poi i momenti cruciali legati all’insoddisfazione per la forma
assunta. A circa 6 od 8 mesi, ricordo che mia madre descriveva ad una
amica in visita il colore dei miei occhi “prima era azzurri ora stanno
diventando verdi –forse castani..”. Ed infatti i miei occhi sono
castani, con striature verdognole (”cacarella” dice mia figlia
Caterina), l’azzurro tanto desiderato è rimasto solo un alone nella
pupilla.


Ed il desiderio carnale, la paura e la gelosia edipica? A circa un
anno e mezzo ricordo che una sera ero nel mio lettino, nella stanza
dei miei genitori, che evidentemente volevano copulare, ma io non mi
addormentavo e mi dissero “dormi se no dalla finestra viene il gatto
mammone”. Neanche sapevo cosa fosse una tale bestia ma immediatamente
percepii una figura nera che mi osservava dalla finestra e implorai
mia madre di farmi andare nel suo letto. Ma non fui accettato e fui
zittito con frasi tipo “ma no… ma no.. il gatto mammone non c’è..
resta nel tuo lettino..”. Eppure per me c’era anche perché sentivo
rumori strani… Poi a circa due anni e mezzo, quando era nata da poco
la mia sorellina Maria, assistevo alla sua poppata al seno e mi venne
il desiderio di bere anch’io di quel latte ma presi la cosa alla larga
“Mamma, mamma… come fa il latte ad uscire dalla sisa?” E mia madre
scherzando sollevò la sisa la spremette nella mia direzione facendone
uscire uno schizzo di latte che mi colpì in faccia.


Lascio da parte altri ricordi di questo genere e racconto solo quello
che fu per me illuminante e mi diede la visione della realtà indivisa.
Un giorno, avevo circa quattro anni, osservavo nel raggio di sole che
entrava dalla finestra una moltitudine di piccoli esseri che si
muovevano, un pulviscolo di particelle misteriose, e chiesi a mio
padre “papà.. cosa sono tutte queste cose che si vedono nel raggio di
luce?” e lui mi rispose (dopo aver osservato a sua volta) che si
trattava di minuscole forme di vita. Immediatamente percepii la verità
che la vita è una realtà indivisa, la stessa cosa che oggi affermano
gli scienziati, che non c’è separazione e che veramente tutto è una
manifestazione del gioco delle particelle quantiche primordiali. Ed lo
dissi esclamando “ma allora non c’è divisione fra noi… siamo tutti la
stessa cosa!”. Ovviamente mio padre, vittima della visione dissociata
negò dicendo che ognuno ed ogni cosa era separata, e qui dovetti
iniziare a fare i conti con l’accettazione della mia verità intuitiva
rispetto a quella descritta dagli altri….


Paolo D'Arpini

Il meccanismo concettuale dietro alla creazione del mondo...



Ma insomma qual è il meccanismo concettuale dietro alla creazione del mondo?

A questa domanda Nisargadatta Maharaj rispose in modo lucido e chiaro: la creazione del mondo, come apparizione nella coscienza, ha un decuplo aspetto:


- Purusha (maschile o mente) e Prakriti (femminile o natura), il materiale psichico e fisico.

- L’essenza dei cinque elementi fondamentali (visti come stati energetici): etere, aria, fuoco, acqua e terra, in continua e mutua frizione.


- I tre attributi (o qualità): satva (armonia), rajas (attività), tamas (inerzia) Un individuo può pensare di essere lui stesso ad agire in realtà il suo nome e forma non sono altro che l’espressione combinata dell’incontro fra questi fattori.

In verità ognuno di noi è null’altro che “coscienza” ovvero la capacità di osservazione e di vivificazione che rende possibile il gioco degli elementi e dei vari aspetti psichici. La forma incarnata è un po’ come la particolare immagine che si forma al caleidoscopio, od alla slot machine, alla quale noi osservandola diamo un valore e significato sulla base di certe convenzioni. Le forme differiscono così tanto in qualità e quantità, dati i possibili mescolamenti dei 10 aspetti coinvolti, che alla fine appaiono individui come Hitler o Gandhi….


Facendo un’analisi all’inverso, tornando cioè indietro nella formazione degli aspetti, notiamo che le tre qualità non sono altro che il movimento del “maschile” (rajas) e del “femminile” (tamas) nel gradiente formato dallo spazio-tempo ed osservato nella “coscienza” (satva). Mentre gli elementi son solo le posizioni assunte dalle qualità nel gradiente, cioè: satva = etere; satva e rajas = aria; rajas = fuoco; rajas e tamas = acqua; tamas = terra.

Ma apprendere il meccanismo concettuale “esteriore” serve a poco se manca la capacità di riconoscimento e radicamento della propria identità primordiale, la pura consapevolezza, alla luce della quale tutto avviene.

Il pensiero “io sono” vibra nell’esistenza e tutto appare!

Paolo D'Arpini

La spiritualità naturale dell'uomo comune...




Ancora una volta mi sono interrogato sull’attuazione di una spiritualità naturale, o laica, e di come essa possa influire sulla nostra vita quotidiana, soprattutto in considerazione che oggigiorno la nostra vita nel mondo deve corrispondere ad esigenze  di efficienza e di partecipazione, in quanto nella società non sono più accettate forme di “assenza” che siano specificatamente dirette alla ricerca spirituale. 

Questo soprattutto nella consapevolezza che la spiritualità laica non può essere inserita in alcun filone “religioso”… Esistono comunità ed aggregazioni per cristiani, maomettani, buddisti.. insomma per gli “impegnati” nelle religioni, e basta!Tutto sommato ritengo che per noi laici la vita “nel mondo” sia più congeniale, anche perché la nostra ricerca non esula mai dal sé.. ed il sé è presente ovunque ed in ogni tempo… 

L’io individuale (ego) sorge dal riflesso della coscienza nello specchio della mente. Una sovrimposizione identificativa con l’oggetto osservato. L’oggetto è il corpo-mente che reagisce in relazione (al contatto) con gli altri oggetti esterni.Il momento che, nell’autoconoscenza l’identità fittizia con l’agente svanisce quel che resta è la pura consapevolezza. Non è perciò necessario, al fine della realizzazione, che le immagini -il mondo e l’osservatore- scompaiano, è sufficiente che la falsa identità con l’oggetto/soggetto riflesso (ego) scompaia. Ciò significa che il mondo può tranquillamente continuare a manifestarsi non essendo percepito come realtà separata, più o meno come potremmo considerare un sogno rispetto al sognatore.

A questo punto il Sé e la sua manifestazione sono visti come la stessa identica cosa mentre il senso dell’io separativo (del me e dell’altro) viene obliterato.

In fondo il dualismo è soltanto ignoranza di Sé.Il saggio osserva le azioni svolgersi senza che vi sia alcuna propensione o intenzione o giudizio in lui. Spontaneamente ogni cosa avviene confacentemente e conseguentemente al “destino” designato. Il destino è la risposta alla naturale interazione (e predisposizione) dei vari elementi ed aspetti psichici coinvolti… 

Siccome tutto succede automaticamente non vi è alcuna “preferenza” nell’agire del saggio.

Anzi il suo stesso agire è (apparentemente) intenzionale solo agli occhi degli “altri”, giacché per il saggio ogni cosa accade di per sé. Ogni evento vissuto accade semplicemente in sua presenza e lui ne è il testimone silenzioso e distaccato. Il suo agire (o stato) può essere paragonato al sonnambulismo, od al sonno da sveglio. 

Ed inoltre anche il concetto di “destino” o di azione deliberata ha un senso unicamente nella mente dell’osservatore ancora identificato con l’esterno, ovvero di un ego che si identifica con l’agente e con le sue azioni. Ma il momento -come già detto- che tale identificazione è distrutta ogni altro concetto collegato scompare.

La saggezza consiste nel rimanere immune dalla illusione dopo aver compresa la verità. La paura dell’agire e delle sue conseguenze (karma) permane solo in chi vede la pur minima differenza fra sé e l’altro. Finché esiste l’idea che il corpo/mente è l’io non si può essere espressione di verità. Ma certamente è possibile per chiunque, ed in ogni condizione, conoscere la propria vera natura poiché essa è assolutamente vera e reale, è l’unicum per ognuno.

Infatti lo stato di puro Essere è comune a tutti ed è la diretta esperienza di ciascuno. Vivere la propria vera natura questo si intende per auto-realizzazione, poiché il sé è presente qui ed ora.

Il pensiero di sentirsi separati è il solo ostacolo alla realizzazione dell’Essere onni-pervadente ed onnipresente.  E pure dal punto di vista empirico identificarsi con l’agente (ego) è un impedimento al buon funzionamento dell’apparato psicosomatico, nel contesto del funzionamento globale. Per cui già l’accettazione intellettuale della verità è una forma liberatoria dalla propensione intenzionale (razionale) ad agire. Ciò che è destinato ad accadere accadrà.

E’ nell’esperienza di ognuno che arrovellarsi nella domanda è un handicap a trovare la risposta.

Paolo D'Arpini

I tre corpi dell'Io, nello spazio e nel tempo



Il Vedanta, letteralmente “dopo i Veda” è una scuola di pensiero laico
basata sull’Assoluto non duale, detto “Brahman”  nelle Upanishad, i testi
filosofici vedantici (posteriori ai Veda).

Sulla datazione dei Veda e del Vedanta le opinioni degli studiosi,
storici e religiosi, divergono alquanto. La differenza di vedute è
soprattutto fra ricercatori occidentali e quelli indiani. Secondo gli
europei, proni al credo filo occidentale di una culla di civiltà
medio-orientale e mediterranea, i Veda sono posti attorno al primo
millennio a.C. e le Upanishad al periodo appena antecedente la nascita
del Buddha storico (VI secolo a.C.). Ovviamente per alcuni storici
indiani le date sono diverse e si allontanano moltissimo da quanto
affermato dagli storici europei. Ma analizziamo i concetti espressi e
lasciamo da parte le datazioni (irrilevanti ai fini della sostanza).

La peculiarità della filosofia Advaita Vedanta è che non si rifà ad
alcuna divinità.  L'Assoluto non duale è  tra l'essere ed il non
essere. Esso è il  Sé (Atman), ovvero la  Consapevolezza priva di
attributi,  che è contenitore e contenuto di tutto ciò che si
manifesta,  autoesistente, e contemporaneamente   aldilà di ogni
manifestazione e pensiero.

Il Sé gode della sua stessa illusione di esistere come oggetto
separato e distinto da se stesso e -secondo il Vedanta- questa
commedia si rende possibile attraverso  cinque maschere o “guaine” (in
sanscrito “kosha”) che nascondono il Sé al sé (l’Io assoluto all’io
relativo).

Esse sono: “annamaya”, “pranamaya”, “manomaya”, “vijnanamaya” e “anadamaya”.

Annamaya è la guaina composta dal cibo, il corpo fisico. I suoi
costituenti sono i cinque elementi nello stato grossolano, in vari
gradienti di mistura. Dello stesso materiale sono fatte le cose del
mondo oggettivo sperimentato.

Pranamaya è la guaina dell’energia vitale (nella Bibbia “soffio
vitale”) è quella che denota la qualità vitale, la sua espressione è
il respiro, in sanscrito “prana” e le sue cinque funzioni o “modi”:
“vyana” quello che va in tutte le direzioni, “udana” quello che sale
verso l’alto, “samana” quello che equipara ciò che è mangiato e
bevuto, “apana” quello che scende verso il basso, “prana” quello che
va in avanti (collettivamente vengono definiti con il termine
“prana”). Alla guaina del “prana” appartengono anche i cinque organi
di azione, ovvero: la parola, la presa, il procedere, l’escrezione e
la riproduzione.

Manomaya è la guaina della coscienza, o mente individuale, le sue
funzioni sono chiedere e dubitare. I suoi canali sono i cinque organi
di conoscenza: udito, vista, tatto, gusto ed olfatto.

Vijnanamaya è la guaina dell’auto-coscienza, o intelletto, cioè
l’agente ed il fruitore del risultato delle azioni. Questa maschera,
od involucro, è considerata l’anima empirica che migra da un corpo
fisico ad un altro (nella teoria della metempsicosi).

Anadamaya è la guaina della gioia, non la beatitudine originaria che è
del Brahman, essa è la pseudo beatitudine (sperimentata nel sonno
profondo) del cosiddetto “corpo causale”, la causa prima della
trasmigrazione, Un altro suo nome è “avidya” ovvero nescienza od
ignoranza del Sé.

Secondo lo studioso indiano T.M.P. Mahadevam è possibile riordinare
queste cinque maschere in tre “corpi”:

1 - “annamaya”, il corpo fisico grossolano;

2 - “suksma-sarira” il corpo sottile, l’insieme delle tre guaine di
prana mente ed intelletto  (”pranamaya, “manomaya” e vijnanamaya”);

3 - “karana-sarira”, il corpo causale della guaina “anandamaya”.


E’ per mezzo di questi tre corpi che noi sperimentiamo il mondo
cosiddetto “esterno” nei tre stati di veglia, sonno e sonno profondo.

L’esperienza empirica si manifesta attraverso le cinque guaine,
proiettate o riflesse nel concetto di “spazio” e “tempo”, senza di
esse la coscienza relativa di un “mondo” non potrebbe sussistere.

Come diceva il filosofo  M. Heidegger : "Com’è che l’esistenza umana
si è procurata un orologio prima che esistessero orologi da tasca o
solari?…Sono io stesso l’”ora” e il mio esserci il tempo? Oppure, in
fondo, è il tempo stesso che si procura in noi l’orologio? Agostino ha
spinto il problema fino a domandarsi se l’animo stesso sia il tempo.
E, qui, ha smesso di domandare...”


Paolo D'Arpini