La Grazia del Maestro, l'esperienza del Samadhi e la stabile realizzazione del Sé

I belong to everyone
No one can own me
The whole world is my home
All are my family
(Neem Karoli Baba)



.... tempo fa scrivevo ad un’amica: “..lavoro per un mezzo sderenato che si chiama Paolo D’Arpini, lo conosci?”. 

In verità identificarsi con uno specifico nome forma non corrisponde assolutamente al vero ed inoltre se ci si identifica con la “persona” non si può fare a meno di assumerne i pregi ed i difetti, di accogliere le sue sfumature e macchie, ma siamo noi Arlecchino e Pulcinella? Per questo dicevo che “io” (in quanto coscienza) lavoro per quel personaggio “Paolo D’Arpini” il quale solo attraverso la mia osservazione consapevole  può manifestarsi e compiere le nefandezze a cui è avvezzo. Allo stesso tempo gli voglio bene come voglio bene a chiunque mi si presenti davanti, che entra nella mia sfera cosciente. 

L’esperienza dello stato ultimo, della coscienza libera da identificazione, è esposta in varie scuole spirituali come: Satori, Spirito Santo, Samadhi, Shaktipat, etc. Di solito si intende che questa “esperienza” del Sé sia conseguente ad una particolare condizione di apertura in cui la “grazia” può manifestarsi ed impartire la conoscenza di quel che sempre siamo stati e sempre saremo. Purtroppo dovuto all’accumulo di tendenze mentali  “vasana” non sempre l’esperienza vissuta si stabilizza in permanente realizzazione. Il risveglio quindi non corrisponde alla realizzazione (oppure solo in rari casi di piena maturità spirituale).  E qui ci troviamo di fronte ad un paradosso, da un lato c’è la consapevolezza inequivocabile dello stato ultimo che non può mai più essere cancellata, dall’altro un oscuramento parziale di tale verità in seguito all’attività residua delle vasana che continuano ad operare nella mente del cercatore…

La conoscenza una volta rivelata prende tempo per stabilizzarsi. Il Sé è certamente  all’interno dell’esperienza diretta  di ognuno, ma non come uno può immaginare, è semplicemente quello che è. Questa “esperienza” è chiamata samadhi. Ma dovuto alla fluttuazione delle vasana, la conoscenza richiede pratica per stabilirsi perpetuamente. La conoscenza impermanente non può impedire la rinascita. Quindi il lavoro del cercatore consiste nell’eliminazione delle vasana.   Un grande aiuto in questo opera di pulizia - come affermò Ramana Maharshi- risulta nello stare in prossimità di un santo realizzato, così le vasana cessano di essere attive, la mente diventa quieta e sopravviene il samadhi. In questo modo il cercatore ottiene una corretta esperienza alla presenza del maestro.  

Per  mantenere stabilmente questa esperienza un ulteriore sforzo è necessario. Infine il cercatore  conoscerà la sua vera natura anche nel mezzo della vita di tutti i giorni. C’è uno stato che sta oltre il nostro sforzo o la mancanza di sforzo ma finché esso non viene realizzato lo sforzo è necessario.  Ma una volta assaggiata la “gioia del Sé”  il cercatore non potrà fare a meno di rivolgersi a questa ripetutamente cercando di riconquistarla. Una volta sperimentata la gioia della pace nessuno vorrà indirizzarsi verso qualche altra ricerca.

Paolo D'Arpini

    Moje di Treia. Teatro delle immagini parlanti 

Pranayama, meditazione, volontà, soffio vitale ed energia orgonica



Persino grandi maestri come Ramana Maharshi, che insegnava la via dell’autoinvestigazione come metodo per la ricerca del Sé, raccomandava una sorta di pranayama per coloro che non si sentivano pronti all’indagine diretta sul “chi sono io”. Egli consigliava l’“antha pranayama” (la regolazione interna del respiro) accompagnando le varie fasi del respiro con i seguenti stati di coscienza, o pensieri:   “Durante l’inalazione: (Koham?) chi sono io? – Durante la ritenzione del respiro: (Soham) io sono la Coscienza – Durante l’esalazione: (Naham) io non sono il corpo o la mente”. 

Facendo così il flusso dei pensieri ne risulta automaticamente controllato ma –ricordiamolo- secondo il Maharshi ed ogni altro grande maestro il più effettivo metodo era la comunione con un Essere pienamente realizzato, lo stare “in compagnia con i santi”. Ma anche qui, a parte l’implicazione spirituale annessa e connessa, si presuppone (in qualche modo) una condivisione della stessa aria, il respiro che entra ed esce dal santo viene ri-trasmesso a chi gli sta d’appresso, evidentemente impregnato dello stato coscienziale del santo.
Sappiamo che nella religione ebraica e cristiana quando viene infusa la vita da Dio all’Uomo si parla di trasmissione del “soffio vitale”.

Il respiro è energia primaria, tra l’altro esso è collegato all’olfatto che è il senso più antico, quello che ci pone direttamente in contatto con la realtà esterna. Anche se la respirazione è divenuta una funzione automatica, di cui la mente cosciente a malapena tien conto, essa resta pur sempre la principale connessione con la vita sino “all’ultimo respiro”….

Evidentemente con il respiro non si assorbe solo “aria” nell’organismo ma –come viene insegnato in varie discipline esoteriche- anche “energia vitale”. Questa fu anche la ricerca intrapresa da uno psicologo contemporaneo, Wilhelm Reich, che fece molti esperimenti e studi in tal senso. Egli definì il respiro non solo aria ma “energia orgonica” (la stessa cosa in India è chiamata “prana”). Reich afferma che l’aria è solo un contenitore ma in essa è contenuto un potere chiamato “orgone” (o “elan vital” secondo altri ricercatori francesi).

Per questa ragione, diceva Osho, quando si viene ricoverati in un ospedale ci si sente particolarmente stressati e stanchi, poiché lì c’è una ricerca spasmodica di energia vitale. Altro esempio è quello del senso di disagio e oppressione che si prova quando si staziona in mezzo ad una folla e ci si sente risucchiati, alcuni provano questa esperienza anche stando in un piccolo spazio chiuso, come un ascensore, con altre persone…. 
Probabilmente questi stati di disagio sono dovuti ad una debolezza psichica in cui si è incapaci di “proteggere” il proprio spazio vitale.

Ma il “prana” od “orgone” non è presente solo all’aperto o nell’aria esso è ovunque anche dove l’aria non può penetrare, e qui si riportano le esperienze di diversi yogi che restando sepolti per lunghissimi periodi in stato di animazione sospesa, in samadhi, senza respirazione né circolazione sanguigna, riuscivano a mantenere la vita trattenendo saldamente l’energia pranica nel corpo.

Chiaramente questa capacità di mantenere “stabile” l’energia vitale è legata alla volontà. Una proiezione di pensiero fortemente concentrata compie diversi miracoli e questo lo osserviamo anche attraverso gli studi sempre più evoluti sulla forza del pensiero: telecinesi, telepatia, teleforesi, etc. Il fatto è che già secondo il sistema yoga classico, quello di Patanjali, si collegavano tali poteri mentali alla pratica del controllo del respiro. Soprattutto nella fase prolungata
di “kumbaka” (ritenzione) in cui lo stato di coscienza è forte e determinato, per la pressione percepita allo stato vitale in sospensione.

Ma dal punto di vista della quiete mentale i santi, come Ramana Maharshi, raccomandano una respirazione regolare, con ritenzione limitata alla consapevolezza del “Soham”. Infatti nel respiro affannoso, sia nel piacere che nella paura od in altri stati mentali alterati, la mente non è mai serena ed il corpo sussulta in agonia parossistica.

Paolo D’Arpini

Misteri fantastici sul pianeta Terra - Figure animali visibili solo dall'alto in Perù



Sugli altopiani andini del Sud America, in Perù, dal cielo si vedono disegni geometrici e forme di animali invisibili da terra. Da chi sono state tracciate queste gigantesche forme chiamate geoglifi? 

La storia moderna di Nazca comincia nel 1926, quando un pilota, sorvolando quelle terre, scopre queste immense figure tracciate sul terreno. Questi geoglifi possono ricoprire vari chilometri e si trovano in pieno deserto in mezzo al nulla!

Essi sarebbero stati tracciati dalla civiltà Nazca, vissuta prima degli Inca, nel sud del Perù, tra il 300 a.C. e l'800 d. C. In realtà ci sono due siti. Il più famoso è Nazca, dal nome della civiltà che avrebbe tracciato queste immense figure. L’altro sito è Pampas de Jumana, ma Nazca è di gran lunga il più spettacolare.

L’arrivo degli scienziati

Tale evento archeologico di importanza mondiale attirò in questi luoghi numerosi scienziati, tra cui i più famosi sono Paul Kosok e Maria Reiche, due ricercatori molto importanti.

Maria Reiche (1903- 1998) è una matematica tedesca che studiò per molti anni questi geoglifi misteriosi e il loro significato enigmatico.

Alcuni geoglifi sono figurativi e rappresentano, in particolare, una scimmia, un condor, un cane, un ragno. Ci sono anche figure geometriche composte da spirali, linee ed elissi.

La cosa più strana è che queste figure occupano vaste superfici e continuano su  altopiani, colline e terreni accidentati senza che la loro rettitudine e precisione siano compromesse.

Piste di atterraggio?

Tra le forme geometriche, si notano soprattutto perfetti triangoli isosceli orientati con precisione.

Tale ipotesi sarà ripresa da vari ricercatori, che non capivano perché i Nazca avrebbero tracciato linee rette così lunghe e perfette senza un motivo preciso.

In base alle tradizioni e alle abitudini dei Nazca, niente spiegava perché avrebbero costruito queste forme rettilinee che assomigliano così tanto alle piste dei nostri aeroporti moderni!

Animali giganteschi

Oltre alle figure geometriche, anche gli animali tracciati sul terreno sono molto precisi, ma, soprattutto, si stendono per chilometri riuscendo sempre ad essere fedeli alla rappresentazione animale evocata.

Dal ragno grande 50 m al condor lungo 120 m, al suolo è disegnata tutta una serie di animali dalle proporzioni corrette. La cosa più notevole è che tali figure assumono un significato solo se viste dal cielo, anche se i Nazca, senza mezzi per volare, non potevano assolutamente vederle, neanche dalle colline circostanti.

Quale processo di produzione è stato utilizzato?

Grazie al lavoro di Maria Reiche, si conoscono meglio le tecniche di realizzazione di questi geoglifi.

Secondo tale matematica, i Nazca iniziarono a liberare il suolo dalle rocce e dalle pietre che impedivano di creare i geoglifi. In seguito tracciarono al suolo delle linee di demarcazione per ogni figura per poi disporre le pietre lungo linee precedentemente tracciate in base a disegni redatti prima.

Il come non spiega tutto

La spiegazione di Maria Reiche sembra l’ipotesi più plausibile, ma non spiega come i Nazca potevano verificare se le figure tracciate al suolo con le pietre rappresentavano davvero le forme che volevano realizzare. Quindi al momento, a livello scientifico, resta il mistero sul processo di verifica dell'opera finita.

Quindi, come hanno fatto i Nazca, o chi per essi?


I Nazca volavano?

A quell’epoca, tra il 300  a.C. e l'800 d.C., nessuna civiltà aveva i mezzi per volare, o per costruire apparecchi che potessero farlo.

Il famoso Leonardo da Vinci fu uno dei primi a disegnare un'ala volante, ma senza realizzarla e stiamo parlando del 15°  secolo.  Il primo volo ufficiale della mongolfiera dei fratelli Montgolfier ebbe luogo nel 1783 a Parigi.

E tuttavia forse i Nazca avevano trovato il modo di volare, o, almeno, di alzarsi in aria.

Secondo alcuni ricercatori, sarebbero stati in grado di creare apparecchi ad aria calda capaci di alzarsi in aria.

Nel 1975, due specialisti di areostati, l’inglese Julian Nott e l’americano Jim Woodman, crearono un pallone ad aria calda con corde e tele esistenti a quell’epoca. Il pallone si alzò fino a 90 metri, per poi cadere brutalmente rischiando di ucciderli.

La pista extraterrestre?

È a questo punto che entra in gioco la pista extraterrestre. Le ho già parlato dei disegni rettilinei simili a piste d'atterraggio. Essi acquisiscono un senso davanti all'impossibilità degli scienziati di spiegare a che cosa servono questi disegni sul terreno e al tentativo infruttuoso del pallone ad aria calda.

Tale enigma porta ovviamente all’ipotesi dello sbarco di extraterrestri sugli altopiani del Perù.  Questa è del resto l’ipotesi di uno dei più grandi specialisti di Nazca: Erich von Daniken.
 

La sua amica, 
Tara.

Il significato di Dharma, in parole spicce



Un Amico mi ha chiesto cosa sia il Dharma. Premesso che non è un argomento che si possa esaurire in un post, qui cerco di spiegarne il significato in modo semplice e con poche parole, se qualcuno volesse integrare l'argomento con un intervento sarà benvenuto.

Bisogna innanzitutto dire che la parola Dharma dal Sanscrito धर्म deriva dalla radice “dhri” ovvero “ciò che sostiene“. 


Dharma dunque è “ciò che sostiene e sostiene tutto ciò che è“. Più sinteticamente Dharma è quell’insieme di Leggi Naturali (ovvero stabilite dal Divino e non dall’uomo) che “sostengono” l’ evoluzione spirituale degli Esseri Viventi i quali, se evoluti, hanno il dovere di applicare all’attività e ai comportamenti sociali quotidiani. 

Quando la forza benefica del Dharma viene meno a causa delle azioni negative della maggior parte degli esseri umani, quando la Giustizia degli uomini non verrà più riconosciuta come valore universale ma applicata in base all’interesse, all’opportunismo dei singoli a favore dei pochi, anche il suo potere si indebolisce, l’evoluzione si blocca dando luogo ad una involuzione che inevitabilmente sfocerà nel degrado dei costumi, e nella trasgressione di ogni legge umana e morale: si verrà dunque a creare una situazione degenerativa, in cui anche gli Esseri Umani di buona volontà, verranno loro malgrado trascinati all’interno in un perverso meccanismo che sprofonderà tutto il Genere Umano nel baratro dell’ignoranza e della malvagità. 

Tutto ciò metterà in pericolo non solo l’Umanità, ma anche l’armonia del Creato. Perché ogni volta che il Dharma entrerà in decadenza per mano degli Uomini, anche l'equilibrio della Natura ne verrà coinvolto e disturbato, il percorso evolutivo si bloccherà lasciando spazio alle forze del male e del caos. Per questo motivo considero disonesto da parte di coloro che si professano Buddisti o Induisti violare le leggi naturali e Cosmiche per perseguire la ricerca del benessere psicofisico attraverso la materialità fine a sé stessa, e non attraverso la Spiritualità applicata alla "materialità".

 Grace Ārya Tārā

Buddismo radicale nel bene e nel male ed oltre...


Quando cominciamo a interessarci alla meditazione e ascoltiamo l'insegnamento di una guida spirituale, non capiamo bene di che si tratta. Non ci coinvolge veramente. Ci viene insegnato a non vedere e a non fare le cose nel vecchio modo, ma quello che ascoltiamo non arriva fin dentro la nostra mente, ascoltiamo solo con le orecchie. Il fatto è che non conosciamo noi stessi.

Perciò ci sediamo e ascoltiamo l'insegnamento, ma è solo un suono che entra nelle orecchie. Non entra dentro tanto da fare effetto. E' come un incontro di pugilato: si picchia sodo l'avversario, ma quello resta in piedi. Restiamo imprigionati nella nostra falsa auto-immagine. I saggi hanno detto che spostare una montagna è più facile che smuovere la concezione di sé.

Per spianare una montagna si può usare l'esplosivo, e poi spostare la terra. Ma la fissazione ostinata alla concezione di sé... figuriamoci! I saggi possono insegnarci fino al giorno della nostra morte, senza riuscire a scalfirla. Rimane forte e salda. Le nostre idee distorte e le cattive tendenze restano solide e immutate, anche a nostra insaputa. Perciò i saggi hanno detto che eliminare la concezione di sé e trasformare il punto di vista distorto in retta comprensione è una delle cose più difficili a farsi.

Per noi puthujjana (esseri mondani) progredire fino al livello dei kalyanajana (esseri virtuosi) è estremamente difficile. Puthujjana significa uno che è pesantemente illuso, che è all'oscuro, che è dentro fino al collo nell'oscurità e nell'illusione. La condizione del kalyanajana è un po' più leggera. Noi insegniamo come alleggerirsi, ma la gente non vuole farlo perché non si rende conto della situazione in cui si trova, del proprio stato di oscuramento. Perciò continua a brancolare in uno stato di confusione.

Se vediamo per terra un mucchio di sterco di bufalo non penseremo che è nostro e non ci verrà voglia di raccoglierlo. Lo lasceremo dove si trova perché sappiamo cos'è. E' qualcosa di molto simile. E' questo che è considerato buono dal punto di vista di chi è impuro. Il male è il cibo delle cattive persone. Se insegnate a persone del genere la bontà non se ne curano, preferiscono restare come sono perché non ci vedono nessun pericolo. Senza vedere il pericolo non è possibile correggere la situazione. Se invece lo riconoscete, pensate: "Oh! Tutto il mio mucchio di sterco non vale quanto un pezzettino d'oro". E a quel punto vorrete l'oro, non vorrete più lo sterco. Se non lo riconoscete, resterete i proprietari di un mucchio di sterco. Anche se vi offriranno un diamante o un rubino non vi interesserà.

Quello che è 'bene' per l'impuro è uguale. Oro, gioielli e diamanti sono considerati buoni nel regno degli umani. Lo sporco e il marcio sono buoni per le mosche e gli altri insetti. Se ci spruzzate sopra del profumo scapperanno via. Ciò che le persone con una visione distorta considerano buono è lo stesso. Quello è il 'bene' di chi ha una visione distorta, di chi è oscurato. Non ha un buon odore, ma se gli diciamo che puzza ribatterà che profuma. Perciò insegnargli qualcosa non è facile.

Se raccogliete fiori freschi le mosche non se ne curano. Anche a pagarle, non si avvicinerebbero. Ma dove c'è un animale morto, dove c'è qualcosa di marcio, lì invece accorrono. Non ce bisogno di chiamarle, arrivano da sole. La visione distorta è così. Trova piacere in cose del genere. Per lei, quello che puzza e che è marcio profuma. Ci sta dentro fino al collo, è immersa in cose del genere. Quello che sa di dolce per l'ape non è dolce per la mosca. La mosca non ci vede niente di buono o di utile, e non lo desidera.

La pratica ha le sue difficoltà, ma in tutto quello che facciamo si passa prima per il difficile per arrivare al facile. Nella pratica del Dhamma partiamo dalla verità di dukkha, la natura insoddisfacente di tutto ciò che esiste. Ma non appena lo incontriamo ci scoraggiamo. Non vogliamo guardarlo. Dukkha è la verità, ma facciamo di tutto per schivarla. Per lo stesso motivo non ci piace guardare le persone anziane, preferiamo guardare quelle giovani.

Se non vogliamo guardare dukkha non lo comprenderemo mai, anche se rinascessimo mille volte. Dukkha è una nobile verità. Se la affrontiamo, cominceremo a cercare un modo per uscirne fuori. Se siamo diretti in un certo posto e la strada è bloccata, ci daremo da fare per aprire un varco. Lavorando giorno dopo giorno, alla fine arriveremo dall'altra parte. Quando veniamo alle prese con i nostri problemi sviluppiamo la saggezza in modo simile. Se non vediamo dukkha non esaminiamo mai fino in fondo i nostri problemi per risolverli, ci passiamo accanto con indifferenza.

Il mio modo di educare la gente comporta un po' di sofferenza, perché la sofferenza è la via del Buddha all'illuminazione. Lui voleva che noi vedessimo la sofferenza, e che vedessimo l'origine, la fine e il sentiero. Questa è la via d'uscita di tutti gli ariya, i risvegliati. Se non passate per questa strada non c'è via d'uscita. L'unica via è conoscere la sofferenza, conoscere la causa della sofferenza, conoscere la cessazione della sofferenza e conoscere il sentiero della pratica che porta alla cessazione della sofferenza. Questo è il modo in cui gli ariya, a partire dall'entrata nella corrente, sono riusciti a venirne fuori. E' necessario conoscere la sofferenza.

Se conosciamo la sofferenza, la vedremo in tutto ciò che sperimentiamo. Certe persone credono di non soffrire granché. La pratica del buddhismo ha lo scopo di liberarci dalla sofferenza. Cosa dobbiamo fare per non soffrire più? Quando si presenta dukkha dobbiamo investigare per riconoscere le cause per cui è sorto. Poi, una volta che le conosciamo, possiamo praticare per eliminare quelle cause. Sofferenza, origine, cessazione: per arrivare alla cessazione occorre comprendere il sentiero della pratica. Allora, una volta percorso il sentiero fino in fondo, dukkha non sorgerà più. Nel buddhismo, la via d'uscita è questa.

Contrastare le nostre abitudini crea un po' di sofferenza. Di solito abbiamo paura di soffrire. Se qualcosa ci fa soffrire non vogliamo saperne. Siamo interessati a ciò che sembra essere buono e bello, mentre crediamo che qualunque cosa comporti sofferenza sia male. Ma in realtà non è così. La sofferenza è saccadhamma, è la verità. Se nel cuore c'è sofferenza, questa diventa la causa che spinge a cercare una via d'uscita. Saremo portati a riflettere. Non dormiremo tanto profondamente, perché ce la metteremo tutta per scoprire cosa sta succedendo veramente, per cercare di capire le cause e le conseguenze.

Le persone felici non sviluppano la saggezza. Sono addormentate. Un po' come un cane che mangia a sazietà. Dopo mangiato non vuole fare più nulla. Può passare tutto il giorno a dormire. Se arriva un ladro non abbaia, è troppo pieno, troppo stanco. Ma se gli date solo un po' di cibo resterà sveglio e all'erta. Se qualcuno cerca di entrare di soppiatto, salterà su e comincerà ad abbaiare. Ci avete mai fatto caso?

Noi esseri umani siamo intrappolati e imprigionati in maniera simile, e abbiamo una quantità di guai, siamo sempre pieni di dubbi, confusione e preoccupazione. Non è da ridere. E' veramente una situazione difficile e spinosa. Quindi c'è qualcosa di cui dobbiamo liberarci. Secondo la via della coltivazione spirituale dobbiamo abbandonare il nostro corpo, abbandonare noi stessi. Dobbiamo risolverci a dare la nostra vita. Possiamo considerare l'esempio dei grandi rinuncianti, come il Buddha. Il Buddha era un nobile di casta guerriera, ma fu capace di lasciarsi tutto alle spalle senza voltarsi indietro. Era erede di ricchezze e potere, ma seppe rinunciarvi.

Se parliamo del Dhamma profondo, la maggior parte della gente si spaventa. Non osa avvicinarcisi. Perfino se dico: "Non fate il male", molti non riescono a seguire. Quindi ho cercato tanti modi per spiegarlo. Una cosa che dico spesso è che non importa se siamo contenti o scontenti, felici o sofferenti, se piangiamo o cantiamo canzoni, è sempre lo stesso: vivere in questo mondo è come essere in gabbia. Anche se siete ricchi, vivete in una gabbia. Se siete poveri, siete in gabbia. Se cantate e ballate, cantate e ballate in una gabbia. Se guardate un film, lo guardate stando in gabbia.

Che cos'è questa gabbia? E' la gabbia della nascita, la gabbia dell'invecchiamento, la gabbia della malattia, la gabbia della morte. E' così che siamo imprigionati nel mondo. "Questo è mio"; "Quello appartiene a me". Non sappiamo cosa siamo veramente o cosa stiamo facendo. In realtà non facciamo altro che accumulare sofferenza. Non è qualcosa di lontano a procurarci la sofferenza, però noi non guardiamo noi stessi. Per quanta felicità e agiatezza possiamo avere, essendo nati non possiamo evitare di invecchiare, dobbiamo ammalarci e dobbiamo morire. Questo è di per sé dukkha, qui e ora.

Siamo comunque soggetti a dolore o malattia. Può succedere in qualunque momento. E' come aver rubato qualcosa. Potrebbero venire ad arrestarci in qualunque momento, perché abbiamo commesso quell'azione. La nostra situazione è questa. Siamo in pericolo, siamo inguaiati. Viviamo in mezzo ai pericoli: nascita, vecchiaia e malattia governano le nostre esistenze. Non possiamo scappare da nessuna parte per evitarle. Possono venire ad acchiapparci in qualunque momento; trovano sempre l'occasione. Quindi dobbiamo ammettere il fatto e accettare la situazione. Dobbiamo riconoscerci colpevoli. Se lo facciamo, la sentenza non sarà troppo dura. Altrimenti, soffriremo moltissimo. Se ammettiamo la nostra colpa, ce la caveremo con poco. Non resteremo in galera per molto.

Quando il corpo nasce non appartiene a nessuno. E' come questa sala di meditazione. Appena costruita vengono a starci i ragni. Vengono a starci le lucertole. Vengono a starci ogni sorta di insetti e creature che strisciano. Possono venirci a vivere i serpenti. Può venirci a stare di tutto. Non è solo la nostra sala, è la sala di tutto.

Questo corpo è lo stesso. Non è nostro. Altri ci entrano dentro e lo usano. Malattia, dolore e vecchiaia vengono ad abitarci, e noi dobbiamo abitarci insieme a loro. Quando questo corpo arriva al culmine del dolore e della malattia e alla fine si disgrega e muore, non siamo noi a morire. Perciò, non aggrappatevi a niente di tutto questo. Piuttosto, riflettete sulla questione, e a poco a poco il vostro attaccamento si esaurirà. Quando vedrete le cose correttamente, la comprensione distorta finirà.

La nascita ci ha creato questo fardello. Ma in genere non lo si vuole riconoscere. Pensiamo che non essere nati sarebbe il più grande dei mali. Morire e non nascere sarebbe il peggio che possa capitare. Ecco come la vediamo. Di solito pensiamo solo a quanto vogliamo avere in futuro. E poi desideriamo ancora: "Nella prossima vita mi auguro di rinascere fra gli esseri divini, o di rinascere come una persona ricca".

Chiediamo un fardello ancora più pesante! Però crediamo che ci farà felici. Comprendere davvero il Dhamma nella sua purezza riesce quindi molto difficile. Ci vuole un serio lavoro di investigazione.

Un modo di pensare del genere è completamente opposto all'insegnamento del Buddha. E' una via pesante. Il Buddha ha detto di lasciarlo andare e gettarlo via. Ma noi pensiamo: "Non riesco a lasciar andare". Così continuiamo a portarcelo dietro, e il peso aumenta. Dal momento che siamo nati abbiamo questa pesantezza.

Facciamo un altro passo: sapete se il desiderio ha un limite? Quand'è che sarà soddisfatto? Se ci pensate, vedrete che tanha, il desiderio cieco, non può essere soddisfatta. Continua a volere sempre di più; anche se ci procura tanta sofferenza da farci quasi morire, tanha continuerà a cercare qualcosa, perché non può essere soddisfatta.

Questo è un punto importante. Se la gente riuscisse a pensare con equilibrio e moderazione... il vestiario, ad esempio. Di quanti vestiti abbiamo bisogno? E il cibo... quanto mangiamo? Al massimo, a ogni pasto potremmo mangiare due portate, e ci basterebbe. Se sappiamo moderarci siamo felici e a nostro agio, ma non è molto comune.

Il Buddha ha dato istruzioni 'per i ricchi'. Il succo di questo insegnamento è contentarsi di ciò che si ha. E' questo che ci fa ricchi. Secondo me, è il tipo di conoscenza che vale la pena di apprendere. La conoscenza insegnata nella via del Buddha è qualcosa che vale la pena studiare, è una materia degna di riflessione.

Poi, il puro Dhamma della pratica va ancora oltre. E' molto profondo. Alcuni di voi forse non sono in grado in capirlo. Come l'affermazione del Buddha che per lui non c'è più nascita, che nascita e divenire si sono esauriti. Sono parole che mettono a disagio. Per dirla chiaramente, il Buddha ha affermato che non dovremmo nascere, perché è sofferenza. Solo su questo il Buddha si è soffermato, la nascita: l'ha contemplata e ne ha compreso la gravità. Essendo nati, ne deriva di conseguenza ogni forma di dukkha. Succede contemporaneamente alla nascita. Quando veniamo al mondo prendiamo occhi, una bocca, un naso. Tutto arriva unicamente in conseguenza della nascita. Ma se ci parlano di morire e non rinascere più, ci pare che sarebbe il massimo della disgrazia. Non vogliamo saperne. Ma l'insegnamento più profondo del Buddha è questo.

Perché ora soffriamo? Perché siamo nati. Per cui ci viene insegnato a mettere fine alla nascita. Non sto parlando solo della nascita del corpo e della morte del corpo. Fin lì è facile capire. Anche un bambino ci arriva. Il respiro si ferma, il corpo muore e resta disteso immobile. Di solito, quando parliamo di morte intendiamo questo. Ma che dire di un morto che respira? Di questo non sappiamo nulla. Un morto che può camminare, parlare e sorridere è qualcosa a cui non abbiamo mai pensato. Conosciamo solo il cadavere che ha smesso di respirare. La morte è questo per noi.

Lo stesso per la nascita. Quando diciamo che qualcuno è nato, intendiamo dire che una donna è andata all'ospedale e ha partorito. Ma il momento in cui nasce la mente... ci avete mai fatto caso, quando ve la prendete per qualche problema in famiglia? A volte nasce l'amore. A volte nasce l'avversione. Essere contenti, essere scontenti... ogni tipo di stati. Tutto questo non è altro che nascita.

Noi soffriamo solo per questo. Quando l'occhio vede qualcosa di sgradito, nasce dukkha. Quando l'orecchio ode qualcosa che piace molto, anche allora nasce dukkha. C'è solo sofferenza.

Il Buddha diceva in breve che c'è solo una massa di sofferenza. La sofferenza nasce e la sofferenza cessa. Non c'è altro. Noi ci avventiamo e la afferriamo in continuazione... ci avventiamo sul nascere, ci avventiamo sulla cessazione, senza mai capire davvero.

Quando sorge dukkha lo chiamiamo sofferenza. Quando cessa, lo chiamiamo felicità. E' sempre la stessa roba, che sorge e che cessa. Ci viene insegnato a osservare corpo e mente che sorgono e cessano. Al di fuori di questo non c'è nient'altro. Per dirla in breve, la felicità non esiste, c'è solo dukkha. Riconosciamo la sofferenza come sofferenza quando sorge. Poi, quando cessa, pensiamo che sia felicità. La vediamo e la definiamo così, ma non è vero. E' solo dukkha che cessa. Dukkha sorge e cessa, sorge e cessa; noi ci avventiamo e lo agguantiamo. Compare la felicità, e noi ce ne rallegriamo. Compare l'infelicità, e noi ce ne rattristiamo. In realtà è sempre la stessa cosa, che sorge e cessa. Nel momento del sorgere c'è qualcosa; e quando c'è la cessazione, è sparito. Ed è qui che cominciano i dubbi. Per cui ci viene insegnato che dukkha sorge e cessa e che al di fuori di questo non c'è nulla. A ben vedere, c'è solo sofferenza. Ma noi non lo vediamo chiaramente.

Non riconosciamo chiaramente che c'è solo sofferenza, perché quando si ferma vediamo la felicità. La agguantiamo e restiamo bloccati lì. Non capiamo fino in fondo la verità che tutto semplicemente sorge e cessa.

Il Buddha diceva in breve che c'è solo sorgere e cessare, e al di fuori di questo nient'altro. Parole difficili da ascoltare. Ma chi ha veramente inclinazione per il Dhamma non ha bisogno di aggrapparsi a nulla e vive in pace. Questa è la verità.

La verità è che in questo nostro mondo non c'è nulla che fa qualcosa a qualcuno. Non c'è niente per cui stare in ansia. Niente per cui valga la pena piangere, niente di cui ridere. Niente, di per sé, è tragico o delizioso. Ma è così che la gente vive le cose normalmente.

Il nostro linguaggio può essere ordinario; ci rapportiamo agli altri secondo il modo di vedere ordinario. Ma se pensiamo alla maniera ordinaria, non ci darà che lacrime.

In verità, se davvero conosciamo il Dhamma e lo vediamo continuamente, non c'è niente che sia niente in particolare, c'è solo sorgere e svanire. Non c'è reale felicità o sofferenza. Allora il cuore è in pace, quando non ci sono felicità e sofferenza. Quando ci sono felicità e sofferenza, ci sono divenire e nascita.

Di solito creiamo un certo tipo di kamma, che è il tentativo di fermare la sofferenza e produrre la felicità. E' questo che vogliamo. Ma quello che vogliamo non è vera pace: è felicità e sofferenza. Lo scopo degli insegnamenti del Buddha è praticare per creare un tipo di kamma che porti al di là di felicità e sofferenza e conduca alla pace. Ma non siamo capaci di pensare in quei termini. Riusciamo solo a pensare che la felicità ci porterà la pace. Se abbiamo la felicità, ci sembra che basti.

Perciò noi esseri umani ci auguriamo di avere in abbondanza. Se otteniamo molto, benissimo. In genere è così che pensiamo. Ci si aspetta che fare il bene porti a buoni risultati, e se li otteniamo siamo felici. Crediamo che non ci sia altro da fare, e ci fermiamo lì. Ma a che conclusione ci porta il bene? Il bene non dura. Continuiamo ad andare avanti e indietro, sperimentando il bene e il male, sforzandoci giorno e notte di afferrare quello che crediamo essere buono.

Il Buddha insegnò che prima di tutto dobbiamo rinunciare al male e praticare il bene. Dopodiché, disse che dovremmo rinunciare non solo al male ma anche al bene, non attaccarci nemmeno a quello perché è un'altra forma di combustibile. Se c'è qualcosa di combustibile, prima o poi prenderà fuoco. Il bene è combustibile. Il male è combustibile.

La gente non sopporta discorsi del genere. Non riesce a seguire. Perciò dobbiamo ricominciare dall'inizio e insegnare la moralità. Non fatevi del male a vicenda. Siate responsabili nel vostro lavoro, senza danneggiare o sfruttare gli altri. Il Buddha ha insegnato così, ma questo non basta a fermarsi.

Perché ci ritroviamo qui, in questa condizione? In conseguenza della nascita. Come ha detto il Buddha nel suo primo sermone, il 'Discorso che mette in moto la ruota del Dhamma': "La nascita è esaurita. Questa è la mia ultima esistenza. Non c'è nascita futura per il Tathagata".

Non sono molti quelli che tornano su questo punto e riflettono per capire in linea con i principi della via del Buddha. Ma se abbiamo fede nella via del Buddha, ci ripagherà. Se veramente ci affidiamo ai Tre Gioielli, praticare è facile.

Ajahn Chah

Tratto dahttp://santacittarama.altervista.org/rinunciare_bene_e_male.htm
Traduzione di Letizia Baglioni.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Dal lirythingIsTeachingUs"

Fonte: http://www.centronirvana.it/testimonianzemeditanti66.htm

Energia e Coscienza, prima della vita e dopo la morte - La teoria di Robert Lanza


La teoria di un famosissimo scienziato prova a spiegare come la vita va avanti per sempre. Tramite la nostra coscienza. Vi è un libro dal titolo abbastanza complesso: “Biocentrism: How Life and Consciousness Are the Keys to Understanding the Nature of the Universe” che sta avendo un notevole successo. Il concetto di fondo prova a spiegare come la vita non finisce quando il nostro corpo muore, ma invece può andare avanti per sempre.
Tramite la nostra coscienza. L’autore di questa pubblicazione, il dottor Robert Lanza, è stato votato come il terzo miglior scienziato in vita dal New York Times, stando a quanto riportato su Spirit Science and Metaphysics. Lanza, esperto in medicina rigenerativa e direttore del Advanced Cell Technology Company negli Stati Uniti, è anche conosciuto per la sua approfondita ricerca sulle cellule staminali e per l’aver clonato diverse specie di animali in via d’estinzione. Ma da un po’ di tempo ha deciso di dedicarsi anche alla fisica, meccanica quantistica e astrofisica. Questa miscela esplosiva di conoscenze ha dato vita ad una sua nuova teoria, quella del biocentrismo.
Essa insegna che la vita e la coscienza sono fondamentali per l’universo e praticamente è la coscienza stessa che crea l’universo materiale in cui viviamo e non il contrario. Prendendo la struttura dell’universo, le sue leggi, forze e costanti, queste sembrano essere ottimizzate per la vita, il che implica che l’intelligenza esisteva prima alla materia. Lanza sostiene inoltre che spazio e tempo non siano oggetti o cose, ma piuttosto strumenti della nostra comprensione: “portiamo lo spazio e il tempo in giro con noi, come le tartarughe con i propri gusci”.
Nel senso che quando il guscio si stacca (spazio e tempo), noi esistiamo ancora. La teoria implica che la morte della coscienza semplicemente non esista. Esiste solo sotto forma di pensiero, perché le persone si identificano con il loro corpo credendo che questo prima o poi morirà e che la coscienza a sua volta scomparirà. Se il corpo genera coscienza, allora questa muore quando il corpo muore, ma se invece il corpo la riceve nello stesso modo in cui un decoder riceve dei segnali satellitari, allora questo vuol dire non finirà con la morte fisica. In realtà, la coscienza esiste al di fuori dei vincoli di tempo e spazio. È in grado di essere ovunque: nel corpo umano e fuori da esso.
Lanza ritiene inoltre che universi multipli possano esistere simultaneamente. In un universo, il corpo può essere morto mentre in un altro può continuare ad esistere, assorbendo la coscienza che migra in questo universo. Ciò significa che una persona morta, durante il viaggio attraverso un tunnel non finisce all’inferno o in paradiso, ma in un mondo simile, a lui o a lei, una volta abitato, ma questa volta vivo. E così via, all’infinito. Senza ricorrere a ideologie religiose lo scienziato cerca quindi di spiegare la coscienza quantistica con esperienze precedenti alla morte, proiezione astrale, esperienze fuori del corpo e anche reincarnazione. Secondo la sua teoria, l’energia della coscienza a un certo punto viene riciclata in un corpo diverso e nel frattempo esiste al di fuori del corpo fisico ad un altro livello di realtà e forse, anche, in un altro universo.
Fonte: wallstreetitalia.com – Riportato da retenews24.it  – Tratto da EcPlanet