Il
tremore e l’esempio
1
Nella giovinezza, adagiati sui diritti
che il percorso ci offriva non avremmo accettato la critica che ci
diceva d’essere in errore, d’essere i fautori di un futuro
mortificato.
Non lo avremmo accettato; senza se
e senza ma. Ciò che vedevamo per noi era nel nostro diritto
prendercelo. Gli altri, quelli che sarebbero venuti dopo, non c’erano
e il futuro era semplicemente un affare nostro.
Ora che i tempi ci permettono sguardi
prima accecati dalla vanità, ci crucciamo di fare qualcosa di utile
e riparativo per chi verrà poi.
E lo facciamo con esuberanza
intellettuale, elevando noi stessi a senatori della saggezza.
Ma guardare avanti ora, dà la
sensazione che non serva. Che il tempo sia passato mentre carriera e
svaghi, ideologie e interessi privati sfilavano la vita come sabbia
tra le dita.
I nuovi giovani trovano il mondo che
noi gli abbiamo lasciato e lo credono il solo possibile. Come
accadeva a noi.
Nessuno di loro è disponibile a
rinunciare a quanto vede alla sua portata.
Si affacciano al mondo dalla finestra
delle loro brevi vite.
Avvertono il potere che l’infanzia
non gli permetteva.
Iniziano ad interpretare e a credere e
a credere di aver capito.
Sono in un flusso che travolge loro e
ciò che incontrano.
Banalmente sono costretti a rispettare
le spinte della loro biografia.
Non lo sospettano ma sono repliche da
sempre sulla scena del mondo.
Parlano di novità. Ci mettono
convinzione e determinazione.
Dentro il ciclo dell’avanguardia
avanzano impudichi di ciò che poi si pentiranno.
Si risolleveranno però dal senso di
colpa con un così va il mondo qualunque.
2
Questo è quanto la generazione in
scadenza ha di fronte, o alle spalle se si preferisce.
Il confronto è ad armi impari: il
dialogo non ha terreno per divenire essere.
Nonostante l’età – di una vita
intera evidentemente trascorsa dentro la sterilità dei dogmi – ci
si cilicia di accanimento intellettuale.
Ci si appella alla ragione, che non sa
evitare di richiamarsi al buon senso, impiegato come fosse un napalm
d’intelligenza capace di azzerare le difficoltà di comunicazione.
Ma è semplicemente incapace di
riconoscere come stanno le cose: l’esperienza non è trasmissibile.
Le nostre buone parole non saranno che
ulteriori interruzioni generazionali, qualunque esse siano perché il
medium è il vecchio e i giovani lo sentono.
Nessuna ragione è mai bastata a
raggiungere le profondità delle emozioni. Una schiuma dalla dinamica
incontrollabile, dal centro soggettivo, che riempie i vasi fino
all’ultimo capillare dei nuovi esploratori.
Non resta che la coercizione e poi la
compressione, quindi lo scontro e se possibile la soppressione.
Ognuno di noi
pieno di sé non è in grado di ricreare la filologia delle ragioni
dell’altro. Dovremmo essere pieni di femminino, allora sì la
relazione sussisterebbe, lo scontro si ridurrebbe.
Continueremo a dileggiarle e
criminalizzarle quelle ragioni diverse.
Continueremo a ergerci a giudici di un
mondo intero nonostante il nostro scranno galleggi su una corteccia
tra le acque bianche dell’illusione.
Azioni sobrie a nostro parere.
Necessarie per alleviare il vuoto che ci separa dai nostri figli.
Un abisso che abbiamo riempito di idee
che avevamo credute rispettabili. Ma ora è chiaro, erano solo fatui
fuochi di una vanità che, travestita di buone ragioni, sempre ci
aveva guidato senza farsi sentire e riconoscere. Un mantello
autoreferenziale di valori ne aveva sempre assorbito i rumori e gli
umori.
3
Non resta che riconoscere che il mondo
che chiamiamo realtà è solo una specie di punto di attenzione
permanente.
Non resta che riconoscere che la
continuità reiterata delle nostre convinzioni perpetua i sentimenti
con i quali a nostra insaputa costruiamo la storia, qualunque essa
sia.
Piccola, personale, grande, mondiale,
universale.
Abbiamo fatto di noi stessi una
cosmogonia.
Con noi stessi selezioniamo il mondo
utile ai nostri destini e non ce siamo accorti, l’abbiamo chiamato
scienza.
Non resta che l’umiltà prima di
morire dopo una vita spesa a cavallo dell’arroganza di quattro idee
qualunque scambiate per autorevoli.
Non resta che vedere quanto nel nostro
piccolo ambito potevamo pure avere ragionevoli argomenti e, ora,
paragonarlo a ciò che non avevamo ancora visto. Che non credevamo
esistesse. Che non avevamo pensato.
Non c’è che da scappare dalla
vergogna d’essersi creduti chissà che. O anche solo qualcosa, con
qualche diritto, con qualche dovere di dire la nostra, soprattutto se
avessimo potuto farle seguire strascichi di dati e referenze
titolate.
Uomini, la cui missione è stata
tradita da loro stessi: invece di andare oltre le infinite forme e
trovare i pochi arcani hanno preferito moltiplicarle a propria
immagine e somiglianza. E giù titoli e riconoscimenti accademici o
che dir si voglia. Giù inchini a profusione e premi al migliore.
Strati di autorereferenza scambiati per vita vera. Soldatini
inquadrati sotto la propria bandiera. Radunati in piccoli e
grandi eserciti a cui immolare la propria libertà dal conosciuto. Ma
alla fine solo grotteschi e immondi soldatini di Enrico Baj.
Altroché la mela di Eva.
Ma lo spirito necessario per dubitare
del sistema?
Nulla di fatto. Comprato.
Era preferibile allungare le braccia
verso il camion dei benefit. Pannocchie distribuite in un immenso
campo profughi dalle tende insonorizzate e con la theatre tv.
4
Ora nell’ora della morte si sente la
paura.
Paura di una presenza che non avevamo
avuto il tempo di ammettere o di considerare.
Paura che mai avremmo se avessimo speso
una vita in armonia con la natura, se avessimo saputo rifiutare le
lodi e i binari della laurea.
Quel passaggio verso la morte
avverrebbe grandiosamente. Come grandiosi sarebbero stati i parti
verso la vita.
Nessuna meschinità ci farebbe tremare
fino nelle ossa.
Avverrebbe così che i nostri giovani
avrebbero l’esempio che non hanno avuto.
Che avrebbero il necessario per sapere
che significa amare e armonia, e quanto povero sia credere che capire
abbia maggior senso.
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