Dopo un mese ad Abidjan mi sembrava di aver conosciuto tutto della città, perlomeno nell’ambito dei rapporti e dei luoghi che mi erano consentiti. Chiacchierate attorno alla piscina dell’hotel più “in” (quello dove andavano i turisti americani) per stare a contatto con i ricchi, puntate nelle taverne plus africaine (in compagnia di prostitute e gente di malaffare), nottate passate in terrazze della città vecchia fra i tamburi che ripetono senza sosta il loro richiamo verso l’istinto, qualche festa o cena nella villa di qualche annoiato patron francaise e soprattutto permanenze pomeridiane al famoso Kalaò, il bar riferimento dei viaggiatori e della scenografia, una specie di Harris Bar in Costa d’Avorio.
Ero ospite di una signora francese che aveva sposato un alto funzionario africano e poi si era separata e viveva un po’ allo sbando ed un po’ nel finto decoro in una casa normale di Cocodì, il quartiere elegante di Abidjan. Con me c’era anche una piccola banda di giovani avventurosi e di belle speranze, giunti anch’essi ognuno per proprio conto alle porte dell’Africa Nera. Uno svizzero, due francesi ed un altro italiano, oltre ad un meticcio che era anche l’amante della donna. Ripagavamo l’ospitalità con qualche poulet e qualche bottiglia di birra. A quel punto tutte le avventure che si potevano vivere ad Abidjan mi sembravano già vissute, le brochettes avec piment erano state tutte assaggiate, i ristoranti visitati, le ragazze frequentate, non mancava nulla e sentivo veramente di averne abbastanza della solita solfa e delle solite cose di un’apparentemente eterna “vacanza”. Sentivo la necessità di qualcosa di vero.
Decisi un bel giorno di andarmene in brousse, di andare in qualche villaggio sulla costa, star da solo per scoprire nuovi agganci nuovi rapporti nuove situazioni. Salutai gli amici del Kalaò e partii, non ricordo come, forse su un pullman forse facendo autostop. Giunsi in un posto che era abbastanza lontano dalla città, dove non c’erano bouvettes né turisti, solo l’oceano e qualche rado cottage. Gironzolavo attorno cercando un posto per piazzarmi e trascorrere il tempo in isolamento e riflessione. Percorrevo a piedi una strada che costeggiava l’oceano, sentivo il rumore forte dei flutti e delle onde, attorno a me alberi maestosi che mi riparavano dai cocenti raggi del sole. Ad un certo punto vidi in distanza una specie di tukul disabitato che stava a poca distanza dal mare, proseguii in quella direzione e scorsi, nascosta dalla vegetazione, una grande villa colonica di cui forse il tukul era una dependance, mi avvicinai all’ingresso per capire che aria tirava e proprio allora mi avvidi di una grossa scimmia che mi guardava. Era uno scimpanzé molto grande, alto all’incirca come me, muscoloso e sveglio. Mi sentivo un po’ a disagio ma osservando meglio scoprii che lo scimpanzé era legato ad una catena e capii che era stato messo lì di guardia per spaventare i passanti.
Mi avvicinai ma restai a due passi dalla bestia, non aveva un’aria minacciosa, anzi mi ispirava molta pena. Pensate un animale così nobile ed intelligente costretto alla catena, davanti alla vastità della foresta e dell’oceano, solo per accontentare le esigenze di qualche riccone egoista. Rimasi per un bel po’ a fissare la scimmia ed anche lei mi guardava, sembrava che leggesse il mio sguardo. Sentii l’impulso di avvicinarmi ancora e restai in silenzio davanti a lei con rispetto e compassione, non osavo avvicinarmi di più, la paura dell’animalità me lo impediva, allungai una mano come per salutarla ed in quel preciso istante la scimmia repentinamente si allungò al massimo della lunghezza consentita della catena e mi abbracciò.
Si, mi prese fra le sue braccia muscolose e pelose e mi strinse al suo petto con forza. Pensai di svenire, immobilizzato in quell’abbraccio, ma non urlai, non tentai di scappare, ero esterrefatto, fermo, non volevo offenderla o creare una situazione reattiva in lei. Un momento indimenticabile in braccio a King Kong….. Ad un certo punto, non so dopo quanto, la scimmia aprì le braccia e mi lasciò andare, indietreggiai di un passo, non fuggii, e continuai a guardarla per capire cosa mi avesse voluto dire. Mi accorsi allora che era una femmina.
Ormai era scesa la sera mi allontanai e mi sdraiai nella capanna, con il vento ed il mare che ululavano divertiti della mia angoscia, rimasi in un trepido ascolto. Ero così sconvolto, così stranito, che la notte non riuscii a chiudere occhio, quel tukul mi sembrava l’ingresso dell’ade, una voce inconscia mi diceva che dovevo lasciarmi andare alle forze oscure della natura, mi masturbai senza alcun piacere come se dovessi semplicemente compiere un dovere od un rito. L’indomani mattina presto ritornai sui miei passi, la scimmia non c’era più. Abbandonai ogni progetto di solitudine e riflessione e feci ritorno al Kalaò ed alla vita di Abidjan.
Ma non durò ancora a lungo….
Paolo D’Arpini
"Ovviamente sono favorevole all'estensione dei pari diritti ai nostri consanguinei scimmie, che condividono con noi il 99% del patrimonio genetico, debbo dire che è un passo necessario e che anche in Italia, dopo la legge contro il maltrattamento di cani e gatti, andrebbe considerata la “pietas” verso i nostri consimili come una necessità etico-filosofica (per non dire religiosa e morale)..."
RispondiEliminaBello!
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