Il bioregionalismo applicato nelle comunità umane


Treia al crepuscolo

Essendo vissuto per moltissimi anni in un contesto urbano (sono nato e vissuto a Roma ed ho anche abitato per diversi anni a Verona), ed avendo anche tentato un esperimento di ri-abitazione di un piccolo borgo abbandonato, Calcata, con conseguente tentativo di ricostituire o -perlomeno- avviare un processo di comunità ideale (non so con quale successo…), posso affermare che massimamente il mio procedere “bioregionale” si è svolto in un ambito sociale “cittadino”. Ma attenzione, essere un cittadino non significa abitare in città bensì vuol dire riconoscersi in un “organismo" comunitario  umano.


Dal 2010 mi sono trasferito in una cittadina delle Marche, Treia, e questo è un successivo passo avanti verso la mia ricerca di una sistemazione sociologica ideale… Infatti Roma è abitata da 6 milioni di persone, è insomma una metropoli, Verona conta quasi mezzo milione di abitanti, Calcata meno di mille… Mentre Treia arriva quasi a diecimila. Insomma sto cercando una giusta via di mezzo, adatta al mantenimento di un sano rapporto con l’ambiente e gli animali senza dover rinunciare ai vantaggi della “civitas”, essendo noi umani esseri altamente socializzanti…


La parola “Bioregionalismo” come pure il termine “Ecologia profonda” sono neologismi coniati verso la fine degli anni ‘70 del secolo scorso, rispettivamente da Peter Berg ed Arne Naess, uno scrittore ed un ecologista, ma rappresentano un modo di vivere molto più antico, che anzi fa parte della storia della vita sul pianeta ed ha contraddistinto tutte le civiltà umane (sino all’avvento dell’industrializzazione selvaggia e del consumismo). Diciamo che il “bioregionalismo” (che equivale all’ecologia profonda) contraddistingue un modo di pensare che muove dall’esigenza profonda di riallacciare un rapporto sacrale con la terra. Questo rapporto si conquista partendo dalla volontà di capire -riabitandolo- il luogo in cui viviamo.


Una bioregione infatti non è un recinto di cui si stabiliscono definitivamente i confini ma una sorta di campo magnetico (aura – genius loci) distinguibile dai campi vicini solo per l’intensità delle caratteristiche che formano la sua identità, alla stessa stregua degli esseri umani, contemporaneamente diversi e simili l’uno all’altro.


In una ottica bioregionale – dovendo analizzare i requisiti antropologici di una città ideale – occorre prima vedere gli aspetti di cosa è una città. Noi usiamo il termine città che deriva da “civitas” ma dobbiamo considerare anche l’altra definizione “urbs”, questi due termini hanno pari valore nella fondazione ed urbanizzazione del luogo abitativo.


Dal punto di vista antropologico sappiamo che una piccola comunità di 1000 persone consente a tutti i suoi membri la conoscenza personale ed inter-relazione reciproca. Ogni cosa prodotta ha come fruitori i membri tutti ed altrettanto dicasi per quanto è scartato. Nelle comunità antiche, nelle tribù che furono la base della vita umana per migliaia di anni, la reciprocità o solidarietà era elemento di sopravvivenza e sviluppo. Quando lentamente si giungeva ad una summa di tribù dello stesso ceppo originario (diciamo cento entità di 1000 componenti) si diceva che era nato un popolo, una società, insomma una “civitas”. Dobbiamo quindi partire da un elemento precostituito e cioé che l’ambito di una “comunità ideale” non dovrebbe superare i centomila abitanti. Ciò vale anche per una metropoli che andrebbe suddivisa in quartieri di tale entità. Perché? Per un semplice motivo: se tutti i componenti di una comunità “originaria” hanno interrelazioni in allargamento (diaspora) sarà possibile connettersi indirettamente o direttamente con gli appartenenti ai vari gruppi che compartecipano allo stesso luogo. Tutti individui diversi dal gruppo originario ma tutti “elementi effettivi” della stessa collettività.


Ampliando così il ramo di interesse dalla parentela vicina o lontana alla compartecipazione, somiglianza e convivenza nello stesso luogo. A questo punto le varie entità (o gruppi di individui) son paritetiche l’un l’altra, intrecciate in un contesto di relazioni e formano la base della città ideale. Forse i membri della città apparterranno a ceti diversi ma assieme a noi vivono nella città, con essi manteniamo numerosi rapporti personali come fra membri di una tribù ideale. Questa si può definire società ed il processo descritto conduce a forte correlazione e socializzazione e vivifica l’intera comunità. Ma si può dire che centomila abitanti son un limite. Giacché questo è il livello d’interrelazione possibile e la città bioregionale -secondo me- deve comprendere criteri di suddivisione sociale che rispettino questi termini numerici.


Non ho nulla contro la vita umana negli agglomerati umani, ma occore portare elementi di riequilibio all’insieme degli elementi vitali, materiali od architettonici che siano.


Il primo passo verso la riarmonizzazione delle aree urbane è il riconoscimento che esse si trovano tutte in bioregioni, all’interno delle quali possono divenire protagoste ed ecosostenibili. La peculiarità dei suoli, bacini fluviali, piante e animali nativi, clima, variazione stagionale e altre caratteristiche che sono presenti in un luogo-vita bioregionale (ecosistema), costituiscono il contesto base per l’approvvigionamento delle risorse quali: cibo, energia e materiali vari. Affinché questo avvenga in modo sostenibile, le città devono identificarsi e porsi in reciproco equilibrio con i sistemi naturali.


Non solo devono reperire localmente le risorse per soddisfare i bisogni dei propri abitanti ma devono altresì adattare i propri bisogni alle condizioni locali. Questo significa mantenere le caratteristiche naturali che ancora rimangono intatte e/o ripristinarne quante più possibili. Per esempio risanando baie inquinate, laghi e fiumi affinché possano ridiventare habitat salubri per la vita acquatica, contribuendo in tal modo all’autosufficienza delle aree urbane. Le condizioni che contraddistinguono le aree geografiche dipendono dalle loro peculiari caratteristiche naturali: una ragione in più per adottare i principi base del bioregionalismo, appropriati e specifici per ogni luogo e -soprattutto- utilizzabili per orientare al meglio le politiche municipali.


Le linee guida di questo mutamento possono essere prese da alcuni principi base che governano gli ecosistemi:

1) Interdipendenza. Accrescere la consapevolezza dell’interscambio fra produzione e consumo, affinché l’approvvigionamento, il riuso, il riciclaggio e il ripristino possano diventare integrabili.

2) Diversità. Sostenere la diversità di opinione così da soddisfare i bisogni vitali oltreché una molteplicità di espressioni culturali, sociali e politiche. Resistere a soluzioni che privilegino i singoli interessi e la monocultura.

3) Autoregolamento. Incoraggiare le attività decentralizzate promosse da gruppi di quartiere-distretti. Rimpiazzare la burocrazia verticistica con assemblee di gruppi locali.

4) Sostenibilità economica. Scopo della politica è quello di operare con interessi lungimiranti, minimizzando rimedi fittizi ed incentivando un processo di riconversione ecologica a lungo termine.


Mi sembra che il materiale trattato per il momento possa bastare al fine di una riflessione sul tema.



Paolo D’Arpini, referente della Rete Bioregionale Italiana

circolo.vegetariano@libero.it – Tel. 0733/216293



A Roma

















A Calcata


A Treia

Diversità come simbolo di Unità



Nel processo infinito della manifestazione l’essere umano è solo uno degli innumerevoli modi espressivi dell’intelligenza. Non c’è limitazione nell’espressione vitale, possiamo immaginare esseri composti di altre materie da quella organica che ci contraddistingue, ad esempio nella cosmologia indiana si parla di “abitanti”  di altri mondi astrali e fisici, che condividono con noi l’intelligenza e la coscienza ma in forme completamente diverse dalla nostra. Si parla di diverse dimensioni e di diverse evoluzioni.

Nella fantasia creativa, e possiamo osservarlo anche qui sulla Terra, non esistono due foglie dello stesso albero che siano uguali, non esistono due granelli di sabbia della stessa spiaggia che siano uguali, non esistono fra i miliardi di uomini due che siano identici, persino gli animali clonati manifestano evidenti differenze gli uni dagli altri. Insomma ogni essere è una rappresentazione unica ed irripetibile della Coscienza Assoluta.

Nel film universale in continua produzione e proiezione la fantasia e la diversità sono una regola, come dire che tutto cambia ma non la capacità di cambiamento che sempre permane. Tutto questo vivere si srotola sullo schermo della Mente Universale mentre la Coscienza vivifica il gioco creativo e lo osserva. Yin e Yang. Shiva e Shakti. Luce e Tenebra, Moto ed Inerzia.

Allora, appurato che il processo è indefinibile da punto di vista della comprensione mentale, resta però un fatto basilare, tutto quel che è sempre è presente nel Tutto.

Non può esserci separazione alcuna, non può sussistere alcuna limitazione nella Presenza dell’Assoluto in ogni sua forma ed immagine. Bene, quindi siamo certi al 100 per cento di essere Quello. Non possiamo essere altri che Quello. L’Assoluto!

Ma ora  torniamo al relativo, torniamo all’esperienza degli opposti vissuta nel nostro mondo duale: bene e male, egoismo ed altruismo, gioia e dolore, desiderio e paura. Certo ognuna di queste sensazioni (o pensieri) è relativa, perciò fittizia ed irreale, però noi la percepiamo e crudelmente la sperimentiamo nel nostro vivere quotidiano.

Ma l’integrazione degli opposti è alla radice del ritorno alla nostra consapevolezza primigenia. Alla capacità spontanea di essere ciò che siamo nell’Unità, aldilà del concetto di spazio e di tempo, aldilà di ogni illusione separativa.

Il processo di ritorno alla coscienza unitaria  che sospinge ogni singolo essere verso quella pura consapevolezza avvengono vari miracoli e misteriosi cambiamenti. L’adattamento ai nuovi stati di coscienza coinvolge sempre e comunque tutto il corpo massa della specie, ma nella nostra dimensione umana noi siamo abituati al funzionamento a locomotiva, ovvero due passi avanti ed uno indietro, anche definito crescita per tentativi ed errori. Per questa ragione sembra che l’evoluzione manchi di linearità e continuità. 

Nella nostra civiltà abbiamo vissuto vari momenti che sembravano paradisiaci, che mancavano però di una comprensione olistica. Un po’ come avviene nel mondo animale in cui la spontaneità apparentemente regna sovrana ma la coscienza è carente di auto-consapevolezza e di capacità ragionativa.

Insomma dobbiamo poter integrare l’intuizione e la ragione in una comprensione olistica del nostro funzionamento e ciò fatto possiamo procedere a dimenticare il processo sperimentale per poter vivere l’esperienza in se stessa. Osservatore ed osservato, materia e spirito, non possono essere separati e questo vale sia nel mondo della fisica moderna che nel contesto spirituale.

Quello che noi viviamo non è altro che il riflesso di ciò che noi siamo,  e quando possiamo restare consapevoli di ciò si affievolisce e  scompare la pulsione ad ottenere risultati puramente esterni (egotistici o retrogradi) dovuti  alle spinte di paure e desideri.  In effetti se restiamo vittime di queste spinte sentiamo il bisogno di “conquistare” risultati anche sopraffacendo gli altri, il che equivale a dire che riteniamo di poter indennemente mangiare le nostre stesse carni nel tentativo di ottenere una crescita.

Come possiamo considerare che qualcosa sia al di fuori di noi stessi? 

Paolo D’Arpini


Il Risveglio in cui il "se stesso" si riconosce in Se stesso



Il Risveglio  non può essere indotto negli altri con le parole, quel Risveglio  in cui il "se stesso" si  riconosce in Se stesso, l’essere come veramente è, completo, puro, reale, perfetto, senza paure e senza desideri.

Ma il "tendere verso" non può essere "aiutato"  reprimendo paure e desideri. La scomparsa di paure e desideri deve avvenire spontaneamente, quando scoprendo e amando il nostro vero Sé, non abbiamo più paura di nulla e non abbiamo più desideri.

Così  senza sostenere prove o sentirci stressati possiamo seguire le due vie:  quella dell'amore verso l'esterno e quella della conoscenza verso l'interno. Che poi sono una sola. 

Accompagnandoci lungo il percorso con "gli altri", tutti gli altri, che  fanno parte di noi.  Capendo noi stessi e conoscendoci conosciamo e capiamo gli altri, e conoscendo gli altri capiamo noi stessi, nei momenti bui e in quelli luminosi, e possiamo rifletterci e far “riflettere” gli altri in noi.

Possiamo tranquillamente  ignorare il nostro ego, che ci porta sempre e comunque a contrapporci, a differenziarci, a metterci in opposizione con ciò che noi, ciecamente, vediamo diverso, ma che fa parte dello stesso Uno. A volte  l’ego viene smascherato  ed allora esce dal cuore una sonora risata: ti ho scoperto! Anche se lui spesso è ancora lì a prendersi, immotivatamente e dannosamente, di nuovo, il suo spazio. Ad ognuno compete la sua parte nel gioco della Coscienza.

E quando arriviamo a conoscerci e accettarci completamente, le nostre azioni sono consone alle circostanze ma non hanno finalità particolari, non abbiamo bisogno di combattere contro qualcuno, possiamo amare indefinitamente e senza condizioni noi stessi come il resto del mondo.

Manifestando le nostre vere  qualità, senza timore delle conseguenze e senza aspettative di risultati.  La vita è un gioco in cui  recitare la propria parte è essenziale.

L’evoluzione procederebbe così e può procedere così non tanto o non solo per tentativi ed errori, ma tramite quella consapevolezza intuitiva, che tira l’intero corpo cellulare e mentale in avanti…….. 

La complementarietà porta all’equilibrio, alla visione chiara dei due aspetti, allo spirito e alla materia, al buio e alla luce, al moto e all’inerzia, nella comprensione che siamo tutti uniti e, come dice il saggio:  “dolore e piacere sono le creste e gli avvallamenti nell’oceano della beatitudine. In profondità c’è la pienezza assoluta”  (Nisargadatta Maharaj)

Caterina Regazzi e Paolo D'Arpini

I 10 comandamenti di Mosè reinterpretati



Ante scriptum dell'autore: avverto tutti i lettori che  nel testo autentico dei dieci comandamenti non c’è niente di quel che solitamente si crede, e scoprirli porta a cambiare idea e se tutto va bene, anche a cambiare rapidamente vita. 

A cominciare dal PRIMO
COMANDAMENTO, che di solito viene tradotto «Io sono il Signore Dio
tuo, non avrai altro Dio all’infuori di me». Ovverosia: «io comando,
io escludo, tu obbedisci e basta e non guardarti attorno, sii sordo a
ogni altra cultura e religione!» Ed è quello che tante grandi
religioni pretendono dai loro fedeli. In realtà, il testo originale
(Esodo 20,1) è: «Io sono YHWH ’Elohyim che ti ho fatto uscire dalla
terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi. Non avrai altro Dio davanti
a me». E significa: «Io sono l’Energia di ciò che è reale (YHWH) e
l’Energia del futuro (’Elohiym): questa energia ti libera SEMPRE dalle
dipendenze che tanti nel mondo ti vogliono imporre. Se riesci ad
accorgertene, non darai più ascolto a religioni che ti asserviscono».
Insomma, è proprio il contrario di quello che gli esperti ci hanno
insegnato. Importantissimo è il doppio nome di questo Dio che parla ai
singoli individui (infatti dice: «tu»). Non è un «Signore», un
dominatore che desidera sudditi. È semplicemente l’energia –
potentissima! – di tutto ciò che c’è davvero, di tutto ciò che non è
illusione, truffa, abbaglio, superstizione, credenze, ignoranze. Ed è
l’energia di ciò che ciascuno può diventare, se non rimane attaccato
al passato. Non può non odiare le schiavitù. Peccato che invece le
religioni siano, spesso, soltanto quello che dice il loro nome: modi
di religare, di tenere legati a tanti doveri (giusti o sbagliati) che
fanno comodo a qualcun altro, invece di aiutarti a scoprire chi sei e
chi puoi essere tu.

Il SECONDO COMANDAMENTO è, per noi, straniero. Viene insegnato come
«Non nominare il nome di Dio invano», ma nel testo è anche: «Non ti
farai immagine di ciò che è in cielo, né di ciò che c’è in terra»
(Esodo 20,4). Qualunque occidentale si chiederebbe giustamente: ma
allora la pittura, la scultura? Sono vietate? E tutte le volte che si
nomina Dio fuori da un rituale, si va contro il comandamento? Si
direbbe un tabù arcaico, superato, e ciò dà l’idea che anche nella
Bibbia ci sia molto di arcaico, di superato, e che dunque non valga la
pena di prenderla sul serio. In realtà, nel secondo comandamento c’è
un’indicazione utilissima e della quale abbiamo anche già parlato.
Vuol dire: «è meglio che impari a non farti un’idea precisa di nessuna
cosa: a non bloccarti su uno schema, su una convinzione, pensando che
sia tutto lì e non ci sia altro da scoprire. Sia in cielo sia in terra
scopri continuamente elementi nuovi, in ogni cosa, se riesci a
guardare le cose e non le immagini che te ne sei fatto». Così, per
esempio, si sa che il pittore mediocre è quello che dipinge ciò che sa
già di qualcosa, invece di dipingere ciò che sta vedendo in quel
qualcosa. Vale per ogni oggetto, per ogni persona, e anche per Dio:
anche ciò che chiami «Dio», se pensi di sapere cos’è (o se dai retta a
chi sostiene di sapere cos’è) diventa per te un «invano», un’occasione
perduta, una fissazione e, spesso, un fanatismo. Ma ovviamente una
religione non può spiegare così il secondo comandamento, perché
darebbe torto a se stessa. Che ne pensate?

Il TERZO COMANDAMENTO, di solito, sembra il più innocuo: «Ricordati
del giorno di sabato, per santificarlo». Viene spiegato che per i
cristiani lo shabat è la domenica, e che di domenica bisogna evitare
lo stress ed è bene dare a Dio quel che è di Dio (cioè un rituale
festivo) mentre negli altri sei giorni bisogna dare a Cesare quel che
è di Cesare. In realtà il testo dice: «Ricordati che c’è il giorno di
sabato, e che è Qadosh». Qadosh non vuol dire «santo», ma «sommo». È
il punto più in alto di tutti. Ed è come dire: quale che sia il tuo
lavoro, ricordati che in te c’è qualcosa che è molto più in alto. Può
essere un lavoro servile, con capi e obblighi che non ti piacciono;
oppure un lavoro creativo, invidiabilissimo, in continuo progresso
esistenziale. Ma in ogni caso tu sei più in alto: ricordatene, e
guarda i tuoi giorni da quel punto di vista Qadosh, che tante persone
dimenticano di essere.In più, nel racconto della Creazione, il settimo
giorno è il momento in cui Noè si accorge del cosiddetto Diluvio e
comincia a scoprire un mondo nuovo. E in questo senso, il terzo
comandamento significa: «Impara che il mondo che conosci non è tutto;
è solo il limite a cui ci si ferma di solito. È bene che quel mondo
sia superato spesso; ricordatene! E qualunque orizzonte tu scopra più
in là, andrà superato presto anche quello: perché tu cresci
continuamente, e l’universo cresce insieme a te».

QUARTO COMANDAMENTO viene insegnato solitamente in forma
abbreviata: «Onora il padre e la madre». E nel corso dei millenni è
servito a far sentire in colpa miliardi di adolescenti, per i
sentimenti complicati che provavano verso i genitori. E se papà e
mamma sono due mafiosi e tu no? Se si sono arricchiti sfruttando la
miseria altrui? Li si deve «onorare» lo stesso? Perché, precisamente?
Perché secondo alcune religioni la famiglia è più importante
dell’individuo? Sicuramente non è così per la religione da cui viene
questo comandamento. Se sfogliate la Genesi, l’Esodo e anche i
Vangeli, trovate alcune critiche potentissime all’istituzione della
famiglia: dai quarant’anni nel deserto (che servirono a eliminare i
genitori) fino a frasi di Gesù come «Se uno viene da me e non odia suo
padre e sua madre… non può essere mio discepolo» (Luca 14,26). E
infatti il quarto comandamento, nella sua forma autentica, ha un senso
diverso da quello a cui siamo abituati; è «Dà peso a tuo padre e tua
madre, perché siano lunghi i TUOI giorni sulla terra». Cioè:
«Comprendi bene chi sono i tuoi genitori, considera attentamente
l’influsso che hanno avuto su di te, altrimenti i tuoi giorni non
saranno mai veramente tuoi». Il che vale sia per i genitori, sia più
in generale per il passato. Solo se si comincia a capirlo – invece di
«onorarlo» e basta – si diventa padroni del proprio presente.

QUINTO COMANDAMENTO - Di solito è tradotto: «Non uccidere» e, a prima vista, è abbastanza
tranquillizzante. Il lettore può infatti pensare: «Be’, io non ho
ammazzato nessuno e non ne ho intenzione. Almeno in questo, Dio non ha
motivo di criticarmi». Ma proviamo a guardarlo meglio. Nel testo
ebraico è scritto: «Non ammazzerai» e non precisa chi. Non è «non
ammazzerai uomini». È «non ammazzerai» e basta: nemmeno animali,
insetti, pesci, piante, uova. E se considerate che, ai tempi di Mosè,
pressoché tutti i destinatari dei comandamenti erano pastori,
agricoltori o soldati, vi accorgete che nell’interpretazione
tradizionale di questo comandamento c’è qualcosa che non va – a meno
di non pensare che fosse scritto apposta per far sentire in colpa
chiunque.In realtà, la chiave è nel verbo usato qui. In ebraico è
RaZaKH, che oggi vuol dire «assassinare». Ma in ebraico antico (che è
una lingua molto speciale, geroglifica) RaZaKH voleva dire
all’incirca: «deviare-verso-l’aridità». Cioè lasciarsi attirare da
cose come sconforto, angoscia, servitù, conformismo, inerzia e altre
desertificazioni, che certamente «ammazzano» i talenti, gli impulsi
autentici, i migliori desideri degli individui. In pratica, il Quinto
Comandamento era l’invito a non ammazzarsi. Ma torna utilissimo anche
ai nostri giorni: non ne conoscete anche voi, di persone che invece di
vivere si inaridiscono? E magari non se ne accorgono nemmeno – anche
perché nessuna religione attuale comanda loro di non farlo.

SESTO COMANDAMENTO - Intanto, già che ci siamo, proseguo con il mio piccolo discorso sui
comandamenti, sperando di non irritare troppo qualcuno. Il SESTO
COMANDAMENTO è quello che qualche tempo fa veniva tradotto «Non
commettere atti impuri», e suonava perciò molto intimo; oggi lo si
traduce (sia tra cristiani sia tra ebrei) «Non commettere adulterio»,
e viene quasi a coincidere con il decimo, che tradizionalmente vieta
di desiderare coniugi altrui. In entrambi i casi, questo comandamento
risulta essere un divieto di provare sentimenti (anche la curiosità
verso certi «atti» sessuali è un sentimento) e contribuisce perciò ad
aggravare nella gente il senso di colpa. In ciò è lontanissimo dal
testo ebraico antico, che è: Lo TiNe’aF, cioè «Non ti prostituirai» o,
più letteralmente, «non userai la sessualità come un oggetto», come
uno strumento per raggiungere qualche obiettivo. Insomma: quando fai
l’amore, fa’ l’amore; accorgiti che il sesso è importante di per sé.
Ma in questa forma, il comandamento sarebbe entrato in conflitto con
tutta una serie di tecniche di dominio di se stessi, e di dominio
della donna – alla quale varie religioni amano insegnare che, se fa
l’amore, deve essere soltanto in nome della procreazione. Che tremenda
quantità di amarezza è derivata da questa idea! Eppure il testo era
tanto chiaro: un’esortazione a non prostituirti mai, in nessun modo, a
cominciare dal modo in cui onori il tuo vigore sessuale.

SETTIMO COMANDAMENTO - Facile obiettare: «Certo che non bisogna rubare! Ma c’era bisogno che
lo dicesse un Dio?» Ed è vero: non c’era nessun bisogno; il furto era
un tabù già prima di Mosè, e tutti sapevano perfettamente come si fa a
non rubare. Tuttavia, nell’antica lingua in cui è scritto, quel
comandamento mette in guardia anche da un altro delitto, a cui
pochissimi prestano attenzione, e che nelle traduzioni non compare
mai. Il termine usato per «rubare» è, qui, GaNaB. A quei tempi, chi
sapeva leggere era abituato a far caso non soltanto alle parole, ma
anche alle lettere che le compongono: GaN in ebraico antico era
«recinto», «luogo chiuso»; e la lettera B simboleggiava la capacità di
creare. Racchiusa nella formula «Non ruberai» vi era dunque anche
l’esortazione a non porre ostacoli al talento – né al tuo, né a quello
di altri, per esempio dei figli, dei filosofi, degli scienziati o di
chiunque senta che quel che si conosce già è un GaN troppo stretto. In
tal modo, il settimo comandamento sembra proprio fatto apposta per
innervosire i religiosi più tradizionalisti - che di solito replicano:
«Non me ne importa! A me hanno insegnato i comandamenti in un un altro
modo, e non voglio sapere altro!» Buon per loro. Intanto, come augurio
di capodanno, vorrei usare proprio queste parole: Lo’ Ti-GhNaB (si
scrive così), «non mettere limiti alle novità che senti nascere in
te!».

OTTAVO COMANDAMENTO in ebraico: «Non farai falsa
testimonianza contro chi è tuo compagno». È troppo libero, troppo
anarchico agli occhi dell’Occidente. Esorta infatti a non usare la
menzogna per danneggiare un amico. Dunque, non vieta di usare la
menzogna contro un nemico, e nemmeno di mentire per aiutare un amico
(se no, avrebbe detto soltanto «non testimoniare il falso»). In tal
modo, dà l’idea che nei luoghi in cui si deve prestare testimonianza –
i tribunali – la sincerità non sia indispensabile. Dice, in pratica:
«Non fatevi illusioni: non è lì, che va cercata la verità. È
altrove!».
Dove? Voi che ne pensate?
Secondo me, è dappertutto. Provate a trovare qualcosa di non vero,
guardandovi intorno: le strade, gli alberi, il cielo?.. E qui l’ottavo
comandamento esce dalle aule dei tribunali e riguarda chiunque, in
qualsiasi occasione. Non-verità può essere soltanto ciò che noi
diciamo o pensiamo del mondo – magari con le migliori intenzioni
(quante volte ci è già capitato di accorgerci che qualche nostra
convinzione che credevamo verissima era solo uno sbaglio?) In questa
prospettiva, l’ottavo comandamento diventa: «Tu non hai la verità in
tasca. Perciò è normale che tu menta. Impara a cercare la verità
giorno dopo giorno. E ogni volta che scopri qualche cosa di falso in
te, lasciala perdere: non impuntarti, come fanno le persone in
tribunale. Se no, quella tua falsità andrà sicuramente a danno di
qualcuno a cui vuoi bene».

NONO COMANDAMENTO è intensissimo. «Non desiderare la donna di
un tuo compagno» (Deuteronomio 5,18): tradotto così, sembrerebbe
un’esortazione a non provocare guai di gelosia tra la tua gente. Ma
nel testo ebraico c’è molto altro: tanto che converrà suddividere
l’argomento in due o tre puntate.
 «NON DESIDERARE…» Innanzitutto, il verbo usato nel penultimo
comandamento non è l’equivalente del nostro «desiderare».
«Desiderare», in italiano, è un atto bellissimo, viene dalla parola
sidera, «stelle», e significa letteralmente: accorgersi che nel tuo
cuore c’è qualcosa di più di quel che, per ora, le stelle stanno
concedendo all’umanità. Questo accorgersi non è mai volontario: è un
impulso come la fame o il sonno o la creatività; reprimerlo (cioè
sforzarsi di non accorgersi) non può che essere dannoso; e in tal
senso, «non desiderare la donna di un tuo compagno» suona davvero come
un comando frustrante. È come dire: «fa’ violenza a te stesso, non
fidarti del tuo cuore, dominalo!» Torna utile a quelle religioni che
si alleano volentieri a qualche potere politico oppressivo, e perciò
temono i cuori della gente.
Il verbo ebraico invece è KhaMaD. Viene da KhaM: «passione»,
«slancio», «fervore». Così, nel testo antico il comandamento diventa
il contrario di una frustrazione; intende infatti: «In te c’èKhaM. È
bene che tu usi questo KhaM, nell’amore, nella passione e in ogni
altro ambito adeguato. Abbi il coraggio di usarlo pienamente! In
amore, evita le situazioni in cui occorrano menzogne, furbizie,
cautele, limitazioni… Sta’ alla larga dai cosiddetti amori infelici.
Se ci caschi, è altissima la probabilità che sia soltanto perché hai
paura del tuo KhaM, e vuoi tenerlo in qualche modo in gabbia. Forse
perché ti preoccupa l’idea di quanto il tuo KhaM potrebbe cambiarti la
vita?»   Ma a guardar bene, non suona strano anche a voi? «Non
desiderare la donna di un tuo compagno». In pratica dice: tu, non
importa se coniugato o celibe, farai meglio a non innamorarti di una
donna sposata. Di conseguenza, a prenderlo proprio alla lettera, agli
uomini coniugati la Torah non vieterebbe di innamorarsi di donne non
sposate. Possibile? E perché questo comandamento è così maschilista?
Non prende in considerazione i sentimenti delle donne, le vede
soltanto come oggetti – e non come soggetti – di desiderio. Il che è
tanto più problematico, in quanto nella cultura ebraica e in quella
egizia era molto forte la componente matriarcale. Decisamente qui
qualcosa non torna, se con «donna» si vogliono intendere semplicemente
le donne. Occorre adottare un altro livello di comprensione, un
pochino più profondo: la parola ebraica tradotta con «donna» è ’eSheT.
E in ebraico geroglifico, ’eSheT significa: «la capacità (’) di
conoscere (Sh) il fine, il senso delle cose (T)». Oggi diremmo:
l’intuizione. E il comandamento, a questo livello ulteriore, diventa:
«Non voler copiare l’intuizione di qualcun altro. Impara ad adoperare
sempre la tua intuizione, quando vuoi capire il senso di qualcosa». È
la forma più elevata di libertà interiore: è la chiave della purezza e
del genio. Corrisponde pienamente a quel che si legge nei Vangeli:
«Non chiamate nessuno maestro» (Matteo 23,8). Va contro un paio di
grandi religioni, ma a me pare un pensiero magnifico.


DECIMO COMANDAMENTO è semplice: «Non desiderare la casa del tuo
prossimo». «Casa» in ebraico è BeYT; a leggerlo come un geroglifico
significa: «il produrre (B) modi di vedere (Y) e prospettive (T)».
Dunque in pratica il comandamento significa: «Impara a non desiderare
quello che hanno realizzato e quel che desiderano gli altri». Impara a
desiderare quello che desideri tu. Proprio il contrario di ciò che ti
insegna la pubblicità. E di ciò a cui ti spinge il tuo senso di
inferiorità, o la tua paura di essere diverso. Sei sicuramente diverso
da tutti, perché ognuno lo è. Impara a esserlo anche nei tuoi
desideri. E poi il testo (Esodo 20,17) prosegue: «Non desiderare il
suo schiavo e la sua serva» – e «schiavo» in ebraico si scrive come
«lavorare» (‘BD), e «serva» come «verità» (’MT). E ancora: «né il suo
bue, né il suo asino» – e vengono in mente il bue e l’asino del
presepe, che rappresentavano i numi tutelari dell’iniziazione egizia,
Hathor e Sheth, la prima donatrice di fortuna, il secondo produttore
di ogni utile ostacolo. Insomma: non farti influenzare dai modi
altrui, né nella scelta del lavoro, né nella tua ricerca della verità,
e nemmeno nelle tappe della tua crescita spirituale. È talmente
semplice! Per quanti vostri conoscenti è stato invece impossibile? E
perché?

Igor Sibaldi




L'intelligenza della risata... secondo Osho



Domanda: Non è ridicolo e divertente che, in un mondo dominato dall'odio e dai conflitti, dalla tristezza e dalla sofferenza, tu sia il solo messaggero d'amore e di risate?

Risposta di Osho: «✿»
Lo è. Ma qualcuno deve pur iniziare.
Noi vogliamo che il mondo sia meno serio e più sensibile alla
vita; certo, deve essere sincero,ma non serio.
Noi vogliamo che il mondo impari che il senso dell'umorismo è una
delle qualità fondamentali di un uomo religioso. ..
Se non ridi, ti lasci sfuggire moltissimi misteri della vita: la risata
ti rende un bambino innocente e ti collega all'esistenza;ti unisce al
fragore dell'oceano, al silenzio delle stelle.
La risata, fa dell'uomo l'unico essere intelligente del mondo,perché
solo chi è intelligente può ridere.
Ma l'intelligenza va stimolata,va usata,altrimenti si impigrisce e muore.
Accade a qualsiasi parte del corpo:se non usi le gambe per anni,si
atrofizzano... non riuscirai più a camminare.
Se tenessi gli occhi chiusi per tre anni,perderesti il senso della vista.
Guarda gli ebrei: il senso dell'umorismo li ha aiutati a
sopravvivere, ma ha anche raffinato la loro intelligenza: hanno vinto
più Premi Nobel loro, di qualsiasi altra razza!


E le migliori barzellette sono state inventate da loro...
In una sinagoga, conciata molto male,si decise di dar vita a una
lotteria, per raccogliere i fondi necessari alle migliorie.
Il giorno dell'estrazione, l'intera comunità, al colmo
dell'eccitazione, si riunì nella piazza del villaggio: come terzo
premio,venne assegnata una splendida Cadillac... ma quando toccò al
vincitore del secondo premio, si vide consegnare una comune; sebbene
grande e molto decorata, torta alla panna, a due strati. .
'Scherzate?' chiese il vincitore allibito.
'Ma non capisci,' gli spiegarono gli organizzatori. 'Questa torta è
stata fatta dalla moglie del rabbino!'
Al colmo dell'ira, il vincitore esplose furibondo: 'In culo alla
moglie del rabbino...!' ..
'Ma quello è il primo premio!'

Solo gli ebrei possono scherzare tanto: questo dimostra intimità, rispetto, amore. In questo modo, il rabbino rimane parte della sua comunità... non c'è nulla di serio. Ma la serietà è sempre stata ritenuta un requisito indispensabile, per avere il rispetto sociale; e questo ha reso tutti seri.

E oggigiorno non si è più seri per un motivo particolare,si è
semplicemente seri: è diventata una seconda natura;la gente ha
scordato che è una malattia... è la morte del senso dell'umorismo.
Eppure la vita,tutt'intorno a noi,è colma di motivi per ridere... se
hai il senso dell'umorismo,ti accorgi che non c'è tempo per essere
tristi; a ogni istante, accade una cosa o l'altra...


Certo, il mio compito è riportare il sorriso all'intera umanità,che lo
ha dimenticato. E quando dimentichi di ridere, ti dimentichi sempre di cantare, di
amare, di danzare... non solo di ridere.

La risata è unita ad altre qualità,così come alla serietà si uniscono
altre cose:se ti dimentichi di ridere, ti dimentichi di amare.
Come fai, con una faccia lugubre, a dire a una donna: 'Ti amo'? Per lo
meno un sorrisino dovrai pur farlo! ..

Con un volto serio,non riuscirai più a dire nulla... e la gente prende
le cose con tale e tanta serietà, che tutto diventa opprimente.

Impara a ridere sempre di più.

La risata, per me, è sacra come lo è la preghiera: è la sola preghiera
possibile.


Tratto da: Vivere, amare, ridere... di Osho Rajneesh