Già negli anni ’20 del secolo scorso il fisico sovietico Friedmann, il fisico belga Lemaître , e l’astronomo inglese Edwin Powel Hubble (1889-1953), fondatore dell’Istituto di Astrofisica di Cambridge, e ancor prima già nel 1916 l’olandese De Sitter, avevano parlato di un Universo non statico. Anche Lemaître ed Hubble avevano sostenuto che l’Universo fosse in espansione invocando anche come prova sperimentale il già citato effetto studiato dal fisico austriaco C. A. Doppler intorno al 1842 (N. 73) che faceva deviare verso il rosso la luce delle stelle più lontane. Nel 1949 la teoria espansionista fu chiamata con fini ironici dal grande astrofisico inglese Fred Hoyle (1915-2001), “Teoria del Big-Bang”, nome che però ha fatto fortuna ed è rimasto. L’origine di questa espansione è stata calcolata in circa 14 miliardi di anni(2). Notiamo che il fatto che le stelle cosiddette “fisse” in realtà si muovevano, era stato compreso già dal grande astronomo del ‘600 Halley e nel ‘700 da William Herschel (1738-1822) che – utilizzando i perfezionati telescopi a specchio da lui stesso costruiti - ne aveva fatto anche una prima classificazione (1).
Queste teorie innescarono ovviamente anche una serie di dibattiti ideologici. Il papa Pio XII affermò che il Big-Bang confermava la tesi cristiana della Creazione Divina. È estremamente significativo che una smentita alle tesi del papa venne dallo stesso Lemaître , che era anche un prete gesuita, e che poi divenne professore all’Università Cattolica di Lovanio in Belgio(2)(5). Una prova decisiva della teoria di un’evoluzione dell’Universo a partire da un nucleo originario molto denso venne dalla scoperta della “radiazione cosmica di fondo”, radiazione che risalirebbe ai primi istanti del Big-Bang, che fruttò il premio Nobel nel 1978 ad Arno Allam Panzias e Robert Woodrow Wilson, che ne avevano sperimentato l’esistenza già negli anni ’60. In effetti già in precedenza due allievi e collaboratori dell’ex sovietico fuoriuscito Gamow, Ralph Alpher (1921-2007) e Robert Hermann (1914-1997), entrambi ebrei di origine russa, ne avevano scritto fornendo anche alcune misure, ma il loro lavoro non era stato riconosciuto(3).Questi dibattiti favorirono ricerche sulla nascita, la struttura e l’evoluzione delle stelle, condotte da astrofisici a livello teorico, ma sempre sulla base di dati sperimentali iniziali. Già quando parlammo dell’opera di Kant e di quella di Laplace tra la fine del secolo XVIII e l’inizio dell’800 (NN. 65-66) vedemmo come questi due pensatori avessero avanzato l’ipotesi che il sistema solare si fosse formato a partire da una nebulosa originaria.Le moderne teorie sulla formazione stellare confermano che i vari tipi di stelle si sono formati a partire da gigantesche nebulose originarie, estese almeno 100 anni-luce e con una massa un milione di volte maggiore di quella del nostro Sole, fatte essenzialmente di Idrogeno, l’elemento più leggero. Si formano degli oggetti intermedi detti “protostelle”, che possono avere evoluzioni diverse a seconda dell’entità della massa (che può arrivare fino a 20/30 volte quella del nostro Sole). Se la massa è molto piccola (meno di un decimo di quella del nostro Sole) si formano delle piccole stelle “nane marroni”. Per masse maggiori si possono formare, con il crescere della massa, “nane rosse” che si suppongono molto longeve (centinaia di miliardi di anni). Per masse ancora maggiori si formano stelle come il nostro Sole, che sono di gran lunga le più comuni – circa il 97% del totale – e che dovrebbero durare 10 miliardi di anni (il nostro Sole è circa a metà del suo ciclo vitale). Infine per masse che vanno da circa una volta e mezzo quella del Sole fino a 30 volte, si formano stelle giganti e supergiganti, fino alle “supergiganti azzurre”, con una vita “breve” di pochi milioni di anni.Nelle stelle avviene normalmente una fondamentale reazione termonucleare di “fusione” degli atomi di idrogeno (con un solo protone nel nucleo) che formano atomi di Elio (con due protoni e due neutroni nel nucleo). La reazione avviene con forte emissione di energia che, giungendo sulla Terra sotto forma di radiazioni termiche e luminose, è quella che permette la vita. Essa crea una pressione interna che equilibra il peso verso il centro dovuto alla gravità, mantenendo la stella in equilibrio.La reazione nucleare di “fusione” dell’Idrogeno, già ipotizzata dal grande astronomo Arthur Eddington (N. 103) nel 1925, e da Gamow negli anni ’30, fu poi spiegata in modo completo e soddisfacente dal fisico tedesco Hans Albrecht Bethe (1906-2005), anch’egli emigrato negli USA. Bethe dimostrò che esistevano sia processi (detti “p-p”) in cui i protoni del nucleo di Idrogeno si aggregano direttamente per formare Elio, sia – specialmente nelle stelle più massicce - processi più complessi (detti “C-N-O”) in cui il Carbonio (C) ed anche atomi di Azoto (N) e Ossigeno (O) agiscono da catalizzatori. Infatti l’Idrogeno e l’Elio degli strati intermedi si possono fondere – specialmente nelle stelle più grandi - formando atomi ancora più pesanti, come il Carbonio, che a sua volta può partecipare alle reazioni formando anche atomi ancora più pesanti, come il Ferro.Quando l’Idrogeno posto al centro si esaurisce le stelle medio-piccole più comuni (paragonabili al Sole) consumano anche l’Elio e diventano poi “nane bianche” (in pratica si “spengono” come una candela che si è consumata). Le nane-bianche non collassano ulteriormente – come fu spiegato dal fisico teorico indiano Chandrasekhar(4) - perché sono sostenute dalla cosiddetta “pressione di Fermi”, dovuta al carattere “fermionico” degli elettroni, che impedisce loro a livello quantistico di compattarsi ulteriormente occupando lo stesso livello energetico.Chandrasekhar già nel 1935 – sulla base di un esame relativistico delle nane bianche – dimostrò anche che le stelle massicce con una massa superiore ad 1,4 volte quella del Sole (detto “limite di Chandrashekar”) sono invece inevitabilmente destinate, o perdere parte della materia, prima di diventare nane-bianche, o a collassare completamente se sono più grandi. Questa previsione causò una più che decennale e nota polemica con il più famoso astrofisico Eddington che era di parere contrario. Solo nel 1983 fu riconosciuto ufficialmente, con il conferimento del Nobel, che il fisico indiano aveva ragione.Chandrasekhar, divenuto cittadino statunitense, si trasferì poi all’osservatorio Yernes dell’Università di Chicago dove continuò ad interessarsi di vari argomenti teorici come l’idromagnetodinamica delle stelle sottoposte a campi magnetici, il trasferimento radiativo e la polarizzazione della luce, ed infine la teoria matematica dei buchi neri.Le stelle di massa più grande del limite di Chandrasekhar, destinate a perdere materia, formano delle “giganti rosse” che a fine vita possono degenerare in una nebulosa che circonda un’anima compatta formata da una “nana bianca” concentrata. Quelle più grandi possono “esplodere” in una “supernova”, una stella particolarmente luminosa. Una supernova fu chiaramente individuata nel secondo secolo a.C. dal grande astronomo ellenistico Ipparco (N. 20), mentre due secoli d.C. un’altra supernova fu individuata dagli astronomi cinesi. Le supernove possono degenerare in “stelle di neutroni”, formate da una massa di neutroni concentratissima, in cui i neutroni esercitano un’azione di sostegno, simile a quella esercitata anche dagli elettroni nelle nane-bianche, in quanto sia neutroni che elettroni – essendo dei Fermioni - obbediscono al “principio di esclusione di Pauli” (N. 104) e non possono occupare gli stessi “spazi” e concentrarsi oltre un certo limite.Un limite simile a quello di Chandrasekhar (pari a due volte il Sole) fu trovato per le stelle di neutroni da Landau, Oppenheimer e Volkhoff (ciò significa che le stelle più massicce di questo limite devono perdere materia prima di trasformarsi in stelle di neutroni). Alla fine anche supernove e stelle di neutroni possono collassare definitivamente formando “buchi neri” dove le masse sono così concentrate e la gravità così alta da impedire l’uscita di qualsiasi radiazione o particella. Le supergiganti molto massicce possono collassare direttamente formando buchi neri senza passare da fasi intermedie, come supernove o stelle di neutroni.Bethe, spiegò da un punto di vista nucleare (già a partire dal 1938) anche la formazione delle supernove, il loro raffreddamento centrale ed il collasso finale con formazione di stelle di neutroni ed emissione di neutrini ed anti-neutrini, con possibile formazione dei buchi neri. Ottenne per questi studi il Nobel nel 1967. L’altro fisico tedesco Von Weizsäcker, che pure aveva sviluppato studi simili, essendo rimasto nella Germania nazista, non ottenne alcun riconoscimento. Un grande apporto allo studio dei meccanismi di formazione degli atomi più pesanti nelle fasi intermedie delle stelle fu dato da Hoyle - supportato da Fowler e dai coniugi Burbridge negli anni ’50 - che avanzò anche l’ipotesi di una produzione continua di materia originaria per spiegare l’espansione dello spazio. La tesi che gli atomi pesanti si fossero formati all’inizio del Big-Bang fu invece sostenuta da Gamow, Alpher ed Hermann, ma con scarso successo(1).Nell’articolo dedicato alla “fissione” nucleare (N. 110) già abbiamo visto come le reazioni di “fusione” siano state adoperate tra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’50 per la produzione delle terribili bombe termonucleari all’Idrogeno il cui primo esemplare fu fatto esplodere sull’atollo di Enewetak nel 1951. Il padre di queste bombe fu il fisico di origine ebrea-ungherese Edward Teller, noto per le sue posizioni politiche di “falco”, testimone d’accusa nel processo maccartista contro il collega Oppenheimer negli anni ’50, e poi collaboratore del Presidente Reagan nel progetto “Guerre Stellari” negli anni ’80. Abbiamo anche visto come la ricerca non sia riuscita finora ad indicare un metodo sicuro di utilizzo dell’enorme energia della reazione termonucleare per usi civili pacifici.All’inizio degli anni ’90 del secolo scorso si riteneva che la gravità avrebbe portato all’inizio di una contrazione dell’Universo, mentre invece nel 1998 si è visto che l’espansione accelera. Si è già visto che è stata teorizzata per questo l’esistenza di una misteriosa Energia oscura che da sola rappresenterebbe ben il 68% dell’intero complesso energia-materia, mentre, a causa di alcuni effetti gravitazionali particolari (sul moto delle stelle nelle galassie, sulle deviazioni inspiegabili della luce, ecc.) si è teorizzata l’esistenza di una Materia Oscura che rappresenterebbe il 27% circa. Si è supposto che questa materia sia formata da “aloni” di particelle “massicce” di tipo “barionico” (termine con cui si indicano protoni e neutroni) debolmente interagenti, indicate con l’acronimo inglese MACHO’S; o più probabilmente, da nubi di particelle piccolissime (assioni, neutrini, neutralini) indicate con l’acronimo WIMP’S. Finora, però, nessuna conferma sperimentale si è avuta, a testimonianza che molto c’è ancora da scoprire rispetto a quel meno del 5% di materia-energia che ci è noto attualmente. Torneremo sull’argomento nelle conclusioni.
Vincenzo Brandi
(1) C. Singer, “Breve Storia del Pensiero scientifico”, Einaudi, 1961(2) C. Rovelli, “La Realtà non è come ci appare”, R. Cortina ed. 2014(3) RBA, “Grandi Idee della Scienza – Gamow”(4) RBA, “Grandi Idee della Scienza – Chandrasekhar”(5) S. Weinberg, “I primi tre minuti”, Mondadori, 1977
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