Nascita della
fisica quantistica:
Vorrei qui riassumere la nascita e la storia della fisica
quantistica, che ci dà delle preziose indicazioni.
Questa
affascinante branca della fisica, che tenta di investigare sulla
struttura microscopica della materia per comprendere le leggi
dell’universo, non è stata creata da quelli che poi divennero i
fisici quantistici “ortodossi” , come il danese Nils
Bohr ed il tedesco Werner
Heisenberg, riuniti nella cosiddetta
“scuola di Copenaghen” dominata dalla figura del grande fisico
danese.
Il primo ad
introdurre il concetto di “quanto” nell’anno 1900 fu in realtà
il grande fisico tedesco Max Planck
che, studiando le emissioni energetiche del cosiddetto “corpo
nero”, si era accorto che per far tornare i calcoli doveva supporre
che l’energia fosse scambiata per minime quantità discrete (ovvero
dei veri e propri atomi di energia) che egli chiamò “quanti”.
Cinque anni dopo un giovane e sconosciuto fisico tedesco trasferitosi
in Svizzera, Albert Einstein,
in una memoria riguardante l’effetto fotoelettrico, ovvero la
capacità delle onde luminose di adeguata frequenza di estrarre gli
elettroni dai metalli, spiegò che in quel caso i quanti erano dei
veri atomi energetici di energia luminosa che il grande fisico
ribattezzò “fotoni”
(dalla parola greca antica “fos” che significa “luce”) che
agivano sulla materia come dei piccoli proiettili. Per questo studio
(e non per la teoria della relatività !) Einstein vinse il premio
Nobel.
Planck ed
Einstein devono quindi essere considerati i veri fondatori della
fisica quantistica, contro cui si schierò inizialmente Bohr, salvo
poi a divenirne il massimo interprete con la sua interpretazione
“ortodossa” (ancora oggi di moda e generalmente accettata dai
fisici). Einstein, insieme ad altri fisici di prima grandezza,
contestò a lungo l’interpretazione di Bohr-Heisenberg, come ci
ripromettiamo di illustrare in seguito.
Lo scontro
diretto tra Einstein e Bohr è stato illustrato in modo romanzato, ma
preciso, in un libro di fantasia scritto dalla fisica e scrittrice
Gabriela Greison (“L’incredibile cena dei fisici quantistici”,
ed. Salani) in cui si ricorda la famosa cena di gala dell’ottobre
del 1927 seguita al famoso convegno Solvay di Bruxelles in cui si
confrontarono i 27 fisici più famosi dell’epoca (tra cui 17 premi
Nobel).
Il dilemma
onda-particella:
Nel 1924
un’ardita teoria fu esposta in una tesi di laurea di un brillante
fisico francese, Louis De Broglie,
secondo cui la materia si presenta contemporaneamente sotto forma di
particelle e di onde. Questa teoria era certamente in accordo con lo
studio di Einstein che aveva dimostrato che la luce si presenta
contemporaneamente come onda e come particella energetica (fotone),
ma estendeva questa teoria a tutta la materia.
La validità
della teoria di De Broglie è incontestabile ed è dimostrata
dall’esperienza della “doppia
fenditura”, considerata in genere
come l’esperienza fondamentale della fisica quantistica (vedi ad
es. il libro di divulgazione scientifica del fisico statunitense
Feynman,
“sei pezzi facili”, ed. Adelphi).
Questa esperienza
era stata attuata già all’inizio del 1800 dal fisico e medico
inglese Thomas Young per
dimostrare che la luce era un’onda. Se si fa passare attraverso due
piccole fenditure un fascio di luce, che così si divide in due, su
un secondo schermo si formeranno delle tipiche “figure di
interferenza” che si formano solo nel caso che il fascio di luce
sia un’onda e si sia diviso in due onde.
Se si ripete la
stessa esperienza con un fascio di elettroni, si hanno le stesse
figure di interferenza, fatto che dimostra che gli elettroni si
comportano come onde. Ma se si tenta di registrare l’arrivo degli
elettroni con un contatore Geiger o si illuminano le traiettorie per
individuarle, gli elettroni non danno più il fenomeno di
interferenza e si comportano come particelle.
L’interpretazione
di Bohr e dei suoi seguaci è che il verificarsi del fenomeno, nel
mondo microscopico in cui la misura interferisce in modo
significativo con la realtà, è dovuto all’azione
dell’osservatore-sperimentatore. Ogni tipo di esperienza ci dà una
risposta diversa (ad es. o registriamo un’onda, o registriamo una
particella). Nulla si può dire, né è opportuno dire, su cosa
accade all’interno della materia esaminata. Abbiamo solo una serie
di risposte diverse, determinate dall’azione dello
sperimentatore-osservatore, tra loro “complementari” ma non
sovrapponibili o confluenti in una sintesi unitaria (“principio
di complementarità”).
Con una serie di
forzature filosofiche la realtà oggettiva diventa quindi qualcosa di
evanescente su cui non si può dire nulla. Conta solo il fenomeno
registrato.
Questo principio
ha in realtà numerosi antecedenti filosofici: ad es. la filosofia
settecentesca del vescovo Berkeley (già esaminato nella rubrica
scientifica della Voce) che, partendo da una filosofia empirista
radicale, sfociava nell’idealismo. Il vescovo sosteneva che il
mondo era immateriale e che la realtà era formata solo dalle nostre
sensazioni.
Più recentemente
(fine ‘800, inizio ‘900) si può citare il pensiero
“empirio-criticista” del fisico e filosofo viennese Ernst
Mach, che sosteneva che una legge
fisica è solo un modo di riordinare e sintetizzare i risultati delle
nostre esperienze, e che nulla è lecito dire su una presunta realtà
oggettiva esterna a noi.
Il principio
di indeterminazione:
La posizione di
Bohr era rafforzata dal principio di
indeterminazione elaborato nel 1927
da un giovane e brillante fisico tedesco, Werner
Heisenberg, secondo cui è
impossibile nella fisica microscopica determinare con precisione
contemporaneamente la quantità di moto e la posizione di una
particella.
I fisici della
“scuola di Copenaghen” ne derivavano l’impossibilità di
determinare le reali leggi di comportamento delle onde-particelle
elementari. Di qui il passo è breve verso una posizione, non solo
agnostica, ma addirittura anti-deterministica. Di qui provengono una
serie di affermazioni dei fisici quantistici “ortodossi” tese a
sostenere che ciò che succede nel mondo subatomico è “casuale”
e che il rigoroso principio di causa-effetto va sostituito da un
principio di semplice interralazione tra fenomeni.
Posizioni simili
erano sostenute anche nell’antichità. Abbiamo ricordato nei primi
numeri della rubrica scientifica della Voce, che mentre all’atomista
Democrito
viene attribuita la bellissima frase di stampo determinista: “nulla
avviene nell’universo che non abbia una causa ed una ragione”,
l’allievo di un suo allievo, il filosofo Epicuro,
pur adottando la fisica atomistica, sosteneva che gli atomi potevano
subire delle deviazioni arbitrarie ed ingiustificate (in latino:
“clinamen”).
La stretta
collaborazione tra Bohr ed Heisenberg durò fino alla seconda guerra
mondiale, quando Heisenberg, nominato da Hitler responsabile del
programma atomico del Reich, si recò in Danimarca, che era sotto
occupazione nazista, a chiedere l’aiuto di Bohr, che lo mise alla
porta.
Einstein, che era
determinista, coniò – in polemica con Bohr – la notissima frase:
“Dio non gioca a dadi”,
ovvero la natura procede per leggi precise ed individuabili anche con
“esperimenti mentali” mediante i quali dalle cause si possono
prevedere gli effetti e dagli effetti previsti risalire alle cause.
Einstein dichiarò
anche che, se il comportamento microscopico della materia fosse stato
casuale, allora egli, piuttosto che fare il fisico, avrebbe preferito
fare il croupier.
Ricordiamo che
tutti i grandi scienziati sono stati in genere deterministi,
materialisti ed indagatori della realtà “oggettiva” data per
scontata (vedi Galilei, Newton, Lavoisier, Laplace, Dalton, Faraday,
Maxwell, fino al povero Boltzmann che all’inizio del ‘900 si
suicidò, anche per gli attacchi continui mossigli dagli ambienti
empirio-criticisti).
L’equazione
di Schrodinger:
La polemica tra i
due schieramenti quantistici conobbe un nuovo capitolo quando un
brillante fisico viennese, Erwin
Schrodinger, entusiasta della teoria
delle onde/particelle di De Broglie, elaborò una notissima
equazione,
basata sul comportamento ondulatorio dell’elettrone, che in modo
semplice ed elegante descrive il comportamento dell’onda/particella.
La cosa suscitò
la rabbia di Heisenberg che aveva elaborato un complicato sistema
basato su delle matrici matematiche per ottenere gli stessi
risultati.
L’equazione di
Schrodinger fu però utilizzata a modo loro dai seguaci di Bohr, in
particolare per intervento di Max
Born, massimo esponente della scuola
matematico-fisica di Gottinga in Germania, interpretando le onde
espresse con l’equazione come “onde
di probabilità”, ovvero onde
indicanti la probabilità che una certa percentuale della particella
fosse presente in un punto. Schrodinger non era d’accordo, e
nemmeno lo stesso De Broglie che interpretava le onde come onde
materiali, e non esprimenti probabilità statistiche. I due grandi
fisici (entrambi premi Nobel) erano schierati sostanzialmente dalla
parte di Einstein.
Secondo gli
ortodossi ogni onda rappresentava un certo stato ed una certa
posizione dell’elettrone. Solo l’intervento dello
sperimentatore-osservatore avrebbe determinato il “crollo delle
onde di probabilità” e l’assunzione di uno stato finale da parte
dell’elettrone misurabile sperimentalmente.
Il gatto di
Schrodinger:
In seguito, nel
1935, per prendere in giro il modo di ragionare degli “ortodossi”,
Schrodinger, che era spiritoso come Einstein, elaborò il famoso
paradosso del gatto.
Supponendo che un gatto fosse chiuso in una scatola chiusa
ermeticamente contenente un meccanismo mortale azionabile da un
elettrone proveniente dalla decadenza di un atomo (evento che avrebbe
potuto verificarsi o non verificarsi), si sarebbe determinata la
morte del gatto se la decadenza fosse avvenuta o la permanenza in
vita del gatto se la decadenza non fosse avvenuta. Secondo gli
ortodossi invece il gatto sarebbe stato contemporaneamente vivo e
morto e solo l’osservatore-sperimentatore, aprendo la scatola,
avrebbe determinato la vita o la morte del gatto.
Naturalmente Bohr
rispose con intelligenza e si innescò un dibattito che sarebbe
troppo lungo descrivere. Dopo la seconda guerra mondiale, Bohr fu
invitato a Mosca dai valenti fisici sovietici che contestarono
cortesemente gli aspetti idealistici delle sue impostazioni. Si dice
che Bohr ne sia rimasto piuttosto colpito.
Da parte sua il
quantista “ortodosso” statunitense Richard
Feynman, premio Nobel per i suoi
studi sull’elettrodinamica quantistica (Q.E.D.), coniò il motto:
“zitto e calcola”, che significa che non si devono fare ipotesi
sul comportamento oggettivo della materia a livello microscopico, ma
solo effettuare calcoli su equazioni formali che portano comunque a
risultati in buon accordo con i dati sperimentali (da cui l’indubbio
successo della fisica quantistica e l’apparente momentanea
“sconfitta” ed isolamento di Einstein).
La posizione
dei materialisti dialettici:
Negli interventi
di Ana Neto e di A. Martocchia è stata giustamente ricordata la
polemica di Lenin
contro la filosofia di Mach (“Materialismo
ed Empiriocriticismo”). Lenin
rivendicava la validità di una filosofia materialista, basata sullo
studio di un mondo reale “oggettivo”, che desse senso ad uno
studio scientifico della realtà fenomenica e superasse le pulsioni
idealiste.
E’ stato
ricordato che anche Marx ha espresso concetti simili estendendo
l’indagine scientifica anche al mondo reale della società umana.
In precedenza
Engels, in particolare nella
“Dialettica della natura”,
aveva messo in guardia gli scienziati dal pericolo di non dotarsi di
una robusta filosofia di base (che per lui ovviamente consisteva nel
“materialismo dialettico”), ironizzando su quegli scienziati che
- come il famoso “borghese gentiluomo” di Moliere che faceva
della “prosa” senza saperlo – facevano della cattiva filosofia
alla moda senza saperlo.
Engels invitava
anche gli scienziati ad un continuo approfondimento della conoscenza
della realtà oggettiva, visto come un processo senza fine, data
l’estrema complessità del reale, ma che portava ugualmente
l’umanità a compiere una serie infinita di approfondimenti ed
aggiustamenti delle teorie scientifiche precedenti.
Il grande
pensatore tedesco non aveva dubbi sul fatto che la conoscenza
maturata attraverso l’esperienza fosse il “riflesso” nella
nostra mente di un mondo oggettivo, indipendente dalla nostra
esistenza.
Il termine
“dialettico” viene usato da Engels a proposito del mondo naturale
per sottolineare alcuni principi che si verificano concretamente in
natura determinandone l’evoluzione fatta a salti, come l’accumulo
di quantità che diviene “qualità” (potrebbe pensarsi ad un
passaggio di stato della materia provocato da un aumento progressivo
della temperatura e che scatta in corrispondenza di una soglia
precisa, oppure l’aumento progressivo della frequenza di una
radiazione che, raggiunto un valore preciso, provoca un fenomeno del
tutto nuovo come l’emissione di elettroni nell’effetto
fotoelettrico). Un altro principio dialettico è il verificarsi della
presenza di stati di segno opposto (come ad es. nel caso del binomio
onda-particella) che i quantisti ortodossi risolvono solo con
l’immaginare due esperienze diverse che provocano la separazione
dei due principi indotta dall’intervento
dell’osservatore-sperimentatore, ma che non danno conto della
sintesi in natura dei due principi.
Non è forse
casuale che il manoscritto di Engels sulla “Dialettica della
Natura”, tenuto per decine di anni in un cassetto dal socialista
moderato Bernstein, sia stato pubblicato solo nella prima metà del
‘900 dopo un parere favorevole sulla sua pubblicazione dato da
Einstein, che era di simpatie socialiste.
Come mia
posizione personale raccomanderei a tutti gli amici “materialisti
dialettici” di non far diventare la filosofia di Engels una nuova
forma di dogmatismo, ma applicarla concretamente, tenendo conto dei
grandi risultati degli scienziati “classici” (come Galilei,
Newton, Darwin, Einstein), dai filosofi materialisti, come Democrito
o Hobbes (non mi piace l’espressione “materialismo volgare”),
ed anche di ciò che di meglio sia ricavabile dalla grande scuola
empirista di Locke, Hume, Condillac, scartandone gli esiti più
paradossali che ci riportano a forme di idealismo.
Solo così il
“materialismo dialettico” rimarrà una filosofia viva, depurata
da ogni residuo idealistico di hegeliana memoria.
Roma 24.5.2017,
Vincenzo Brandi
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