Isaac Newton è stato certamente
uno degli scienziati più grandi ed influenti di tutta la storia del pensiero
scientifico. Nato nel 1642 in un villaggio del Lincolnshire da una famiglia di allevatori,
a 10 anni poté dedicarsi agli studi nella King’s School di Grentham grazie
all’eredità lasciatagli dal patrigno. Sfuggendo alle pressioni della madre che
ne voleva fare un allevatore ed agricoltore, nel 1661 riuscì ad iscriversi al
Trinity College dell’Università di Cambridge. Qui, rifiutando di aderire alle
idee aristoteliche ancor in voga i molti ambienti universitari, si dedicò allo
studio delle opere di Copernico, Galilei, Keplero e Cartesio.
I primi successi furono ottenuti
da Newton nel campo matematico per cui il grande scienziato inglese dimostrò
sempre una grande attitudine. Intorno al 1665 mise a punto, tra molti altri
risultati, una formula per il calcolo
delle potenze di qualsiasi ordine del binomio (“teorema del binomio”) e realizzò lo sviluppo approssimato delle
serie armoniche con l’uso di logaritmi. Iniziò anche a porre i fondamenti del “calcolo infinitesimale” (o “differenziale”) relativo alle quantità
infinitamente piccole, un settore della matematica che è risultato decisivo per
lo sviluppo delle scienze moderne.
Progressi in questo campo erano
già stati fatti nell’antichità da Archimede,
ed in tempi recenti dagli italiani Torricelli
e Cavalieri, dagli inglesi Wallis e Barrow (quest’ultimo fu anche insegnante di Newton a Cambridge), e
soprattutto dal francese Fermat
(come vedemmo nel numero a lui in precedenza dedicato). Mentre, però, Fermat
aveva impostato i problemi tipici della nuova analisi matematica (come lo studio dei massimi , dei minimi e delle
tangenti alle curve esprimibili con una funzione matematica, problemi risolvibili
con un’operazione detta “derivazione
della funzione”), ma senza comprenderne le ultime conseguenze, Newton capì
che la “derivata” di una funzione
matematica era un’altra funzione, a sua
volta “derivabile”. Capì inoltre che la “derivazione” era l’operazione inversa
alla “quadratura” di una curva (oggi
nota come “integrazione della funzione”),
cioè di un’operazione che permette il calcolo dell’area sottostante la curva.
Newton, restio a pubblicare i
risultati delle sue ricerche per il suo carattere sospettoso ed ombroso ed il
timore di critiche, pubblicò questi risultati solo nel 1704, fatto che innescò
una violenta polemica con il tedesco Leibniz,
che era giunto a risultati simili per proprio conto e li aveva diffusi prima di
Newton, benché Newton avesse iniziato a studiare l’argomento 10 anni prima di
Leibniz. La “Royal Society”, di cui nel frattempo Newton era divenuto
presidente (alla morte di Hooke), chiamata ad esaminare la questione, dette
ovviamente ragione a Newton con una risoluzione del 1712 provocando l’amaro
risentimento del filosofo e scienziato tedesco.
A partire dal 1670 Newton aveva
iniziato a studiare anche i fenomeni relativi alla luce, dimostrando che luce
naturale “bianca” era data dalla somma di raggi di diverso colore (fatto che
oggi sappiamo dipende dalla “lunghezza
d’onda” del singolo raggio). Sfruttando un prisma trasparente riuscì ad
ottenere la “dispersione” della luce
, cioè una deviazione del raggio luminoso (detta “rifrazione” e dovuta al passaggio tra aria e cristallo) differenziata
però per le varie componenti del raggio complessivo, corrispondenti ai diversi
colori dell’arcobaleno. I raggi di vari colori – separati dal prisma - furono
poi ricomposti con una lente ridando la luce “bianca”.
Sulla base di queste esperienze
Newton progettò un nuovo tipo di telescopio
“a riflessione”, atto ad eliminare la cosiddetta “aberrazione cromatica” (vedi il precedente numero su Huyghens) dovuta
alla dispersione della luce ai bordi delle lenti. Ciò fu ottenuto concentrando
i raggi in arrivo con uno specchio concavo e poi dirigendo – con l’ausilio di
uno secondo specchio piano – i raggi concentrati verso l’oculare del
cannocchiale.
Il grande scienziato inglese, come
abbiamo già sottolineato nei precedenti numeri, avanzò anche l’ipotesi che la
luce fosse formata da una miriade di corpuscoli (teoria “corpuscolare”). Queste idee, espresse nelle opere “Opticks” e poi “Ipotesi sulla luce” del 1675, furono criticate dal collega Robert
Hooke, sostenitore della teoria
“ondulatoria” di Huyghhens (secondo cui la luce era un’onda sferica). Ne
seguì una polemica che durò decenni fino alla morte di Hooke. Come già
sottolineammo nel numero dedicato alle teorie sulla luce, la fisica moderna ha
mostrato che entrambe le teorie sono sostanzialmente valide, essendo ormai dato
per scontato che tutta la materia ha una doppia natura di onda-particella.
Il settore della fisica che ha
dato il maggiore contributo alla gloria di Newton è stata la meccanica cui lo
scienziato si dedicò tra la fine degli anni ’70 e gli anni ‘80. Anche in questo
caso Newton esitò nel pubblicare i risultati delle sue ricerche finché
l’astronomo Halley (scopritore della
famosa cometa che porta il suo nome) lo forzò a pubblicare nel 1687 quello che
è considerato il suo capolavoro, coprendo anche tutte le spese editoriali: “Philosophiae Naturalis Principia
Mathematica” (Principi Matematici della Filosofia Naturale).
Nell’opera il geniale scienziato
inglese, sfruttando la sua formidabile conoscenza matematica, esponeva
innanzitutto in maniera estremamente chiara e rigorosa i tre principi
fondamentali del meccanica:
-il primo principio, o principio di inerzia, era già stato studiato da Galilei e Cartesio:
ogni corpo tende a mantenere il suo stato di quiete o di moto rettilineo ed
uniforme se non interviene una causa esterna a cambiarne il moto.
-Il secondo principio, o principio fondamentale della dinamica,
era stato messo a punto interamente da Newton con l’introduzione dei nuovi
concetti di “massa” e di “forza” : un corpo subisce una
variazione di velocità (o “accelerazione”)
proporzionale alla forza che lo sollecita. Nella formula matematica
corrispondente: F = ma (una delle più famose di tutta la fisica) compaiono la forza
(F), l’accelerazione (a) ed anche una grandezza che Newton riteneva
caratteristica e costante per ogni corpo, la massa (m), che rappresenterebbe la
quantità di materia contenuta nel corpo.
-Infine si deve a Newton anche il
terzo principio: ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.
Il genio di Newton si manifestò soprattutto
nel passo successivo: quello di applicare il principio della dinamica alle
leggi sulla caduta dei corpi pesanti sviluppate da Galilei. Newton suppose che
ciò fosse dovuto ad una forza di reciproca attrazione tra i corpi, la forza di gravità (dal latino “gravitas”
= peso) che si esercitava a distanza anche nel vuoto. Partendo da questa
ipotesi, il grande scienziato, con rigorose dimostrazioni fisico-matematiche,
ricavò le leggi di Keplero sul moto dei pianeti e fece previsioni sui moti
delle comete (come quella di Halley). Newton aveva quindi dimostrato che la semplice
caduta di un sasso, o il moto dei pianeti e delle comete, erano regolati da
un’unica legge generale: la legge di
gravitazione universale, rappresentabile con la semplice formula: FG = GxmxM/r2 , dove
FG è la forza di gravità, m ed M sono le due masse che si attraggono
ed r la distanza a cui si trovano, mentre G è una “costante universale” che fu
poi calcolata esattamente da Cavendish nel
1798. Robert Hooke (il cui contributo Newton non volle mai riconoscere) aveva
intuito il principio di attrazione tra i corpi (inversamente proporzionale al
quadrato della distanza), ma, non avendo la preparazione matematica né la capacità
sintetica di Newton, non era stato in grado di giungere ad un principio
universale. Si ritiene invece che Newton volle riconoscere il contributo
decisivo di Galilei e Keplero quando affermò: “ho visto più lontano, perché mi
trovavo sulle spalle di giganti”.
Nel prossimo numero esamineremo le
idee generali di Newton sullo sviluppo della scienza e l’eredità da lui
lasciata alle successive generazioni di scienziati e filosofi.
Vincenzo Brandi - brandienzo@libero.it
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