Mito dell'eterna giovinezza (comprata)...


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Ricordo un vecchio film di fanta-ecologia-spirituale, un cartone animato in cui si immaginava la società umana, in chiave simbolica, che era stata suddivisa in una comunità egemone sdoppiata  in cui una   parte dominava il mondo con la sopraffazione e l'uso del potere magico scientifico, mentre un'altra metà era dedita all'ascesi ed alla realizzazione spirituale. In verità queste due umanità erano rappresentate dagli stessi individui che per mezzo di una divisione alchemica avvenuta in tempi remoti si erano scissi in "buoni e cattivi".  I cattivi invecchiavano come i buoni, pur avendo entrambi una esistenza lunghissima, solo che i buoni si accontentavano di invecchiare in pace e di morire sereni mentre i cattivi escogitavano sistemi  scientifici per avere flash di ringiovanimento, che ottenevano attraverso il risucchiare l'energia vitale di altri esseri e che concedeva ai "vampiri" di avere  momenti di giovinezza indotta, una sorta di  orgasmo psico-fisico.   
Con il passare dei secoli lo sfruttamento della natura e dei suoi abitanti, da parte dei cattivi,  era arrivato al punto limite...  Nel frattempo  il numero dei dominatori si era assottigliato a pochi elementi e di pari numero era composto quello dei buoni (nel senso che trattandosi in verità delle stesse entità sdoppiate alla morte di una di esse anche la controparte scompariva).  
Alla fine il pianeta era allo stremo e il numero residuo dei buoni decide di andare incontro agli ultimi cattivi per compiere l'osmosi finale e concludere così la scissione delle due componenti, l'occasione favorevole combaciava con una particolare congiunzione planetaria astrale in cui le  due metà di un grande diamante cosmico si sarebbero ricongiunte, in quel momento i buoni ed i cattivi entrando l'uno nell'altro avrebbero sancito il ritorno all'origine contemporaneamente scomparendo dal pianeta. Ovviamente, in seguito a ciò,  il resto degli esseri viventi, alleggerito dal peso opprimente degli umani "sdoppiati",  avrebbe trovato nuova possibilità di espressione e nuova vita, in piena libertà...

Tutto ciò mi è tornato in mente avendo letto una notizia di cronaca relativa al succhiare il sangue dei giovani (poveri) per fermare l'invecchiamento dei ricchi. Una nuova tecnica di rapina biologica dopo l'espianto trapianto di organi... 


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"Non più una teoria della cospirazione: le élites pagano per il sangue dei giovani.

Quella che una volta era solo una delle fantasie dei teorici della cospirazione – i ricchi ingerivano il sangue dei giovani per favorire la longevità – è ormai una realtà ed un vero e proprio business negli Stati Uniti. Non è solo un affare ma ci sono miliardari che ammettono di essere interessati ad esso.

“Sto cercando tra la roba parabiosi, che penso sia qualcosa di
veramente interessante. Hanno scoperto che il sangue di topi giovani,  iniettato in topi anziani ha un enorme effetto ringiovanente”.  E’ quello che Peter Thiel, il miliardario co-fondatore di PayPal e consigliere di Donald Trump ha detto alla rivista Inc Magazine “Penso che ci siano un sacco di queste cose che sono state stranamente sottovalutate.”


Ma questo non è più un esperimento che riguarda solamente i topi. La società startup di Jesse Karmazin, Ambrosia, sta facendo la stessa cosa con gli esseri umani e molti ricchi sono in coda per ricevere il sangue dei giovani.

Comunque, memento mori...

Paolo D'Arpini

Viaggio oltre il velo...


“Camminare senza che ci sia un cammino, rimboccarsi le maniche senza che ci siano braccia, sguainare la spada senza che ci sia una spada, menare le mani senza che ci sia un avversario” (Tao Te Ching, LXIX)




Gli avvenimenti sempre più frequenti e più tragici con cui ci confrontiamo oggigiorno vengono di volta in volta ascritti agli islamici, agli omofobi, ai cristiani fondamentalisti, ai sionisti, agli imperialisti e compagnia bella.Tutto sbagliato. Tutti costoro che si macchiano di tanto orribili delitti sono solo ottuse pedine su di una tenebrosa scacchiera retta da mani che non si vedono, gestita da menti molto lontane dal livello umano, la cui identità è smascherata da questo passo tratto da una delle scritture sacre dei popoli: “Poiché il nostro combattimento non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze della malvagità che sono nei luoghi celesti”.

Gli gnostici di un tempo parlavano di “Arconti”; nel film Matrix lo stesso comportamento è a carico delle macchine che hanno conquistato il mondo, ma la tattica è sempre quella: ”divide et impera”. Far scagliare i popoli gli uni contro gli altri, i bianchi contro i neri, gli ebrei contro gli arabi, la destra contro la sinistra, gli interisti contro i milanisti, e così via. Questi conflitti generano un’enorme quantità di energia emozionale che, pur scaricandosi a livello fisico in un grado di violenza sempre crescente, a livello “sottile” (cioè ultraterreno) invece va ad alimentare queste dinamiche estremamente deleterie che cavalcano il dualismo insito nella natura umana portandolo però a livelli di esasperazione. Sono forze il cui fine ultimo è cavare ogni goccia di vitalità all’uomo, per caricarsene come con delle batterie, come ben esemplificato in Matrix, una parabola la cui aderenza simbolica alla realtà è stata molto sottovalutata.

Gli esseri umani, ingenui perché generalmente non dotati della vista che va oltre la vista, cadono continuamente in questa trappola, vedendo il diavolo nella parte contrapposta, e credendosi di possedere la verità. Stoltamente,la loro azione non cambia mai nulla nel mondo, che continua, praticamente da sempre, la sua marcia verso l’annichilimento, sostenuto da questi “martiri della fede”, come da tifosi sfegatati a un torneo di calcetto e da politicanti che si lanciano frecce da un comizio all’altro. Tutti animati dalla stessa energia, come marionette appese a dei fili invisibili. I miti che parlano di due personaggi contrapposti insegnano: Caino e Abele, Osiride e Seth, Quetzalcoatl e Tetcatlipocha. Il problema è che per l’uomo moderno mito è sinonimo di “favola”.

Non vediamo l’enorme massa sommersa dell’iceberg: scorgendone solo la punta, la sua fondamentale realtà ci è ignota, e scambiamo fischi per fiaschi, lucciole per lanterne, prendendoci in giro costantemente chiamando in gioco una “causa” più “legittima”dell’altra. Uno sviato senso di giustizia si prende gioco di noi, ci possiede, ci deraglia.

L’Unità fondamentale del cosmo però in tutto questo rimane invariata per chi ha “occhi per vedere e orecchie per udire” ed elevarsi al di sopra della melma degli ideali, dei partiti, delle cause perse e vinte.

Simon Smeraldo








Più artificiale di così...!?

 


Il discorso sull’intelligenza artificiale è avviato, è presente nelle trame dialettiche quotidiane, si studia, ne si constatano le forme in cui appare al pubblico, se ne sfruttano i servigi, fa innamorare. In pochi temono l’osmosi. In pochi vedono il patrimonio umano andare a perire e poi essere dimenticato, ormai troppo tardi per pentirsene quando saremo noi a essere funzionali al virtuale, quando non potremo farne a meno, quando tutto ciò che faremo sarà fatto per mantenere l’assuefazione. Quando cioè verrà il tempo del rimpianto analogico.

Considerazioni sull’intelligenza artificiale sfruttando Maniac di Benjamìn Labatut (1), in cui la mossa 37, operata dal programma AlphaGo, mai presa in considerazione dalla tradizione millenaria del Go, con sorpresa dei più forti giocatori, lo ha portato al successo; e in cui la 78, messa in atto da Lee Sedol, in un’altra partita sempre contro Alpha Go, gli aveva invece permesso di superare il potere di calcolo della macchina, dandogli la vittoria.

Il Go è un gioco orientale, molto diffuso in Cina, dove ebbe origine oltre 3000 anni addietro, in Corea del Sud, in Vietnam e in Giappone. È considerato assai più articolato degli Scacchi, in quanto richiederebbe una prospettiva strategica nettamente superiore.

“Alcune mosse che noi umani avremmo considerato creative siano in realtà convenzionali”. Maniac, p. 347

Sono le parole del campione di Go, Lee Sedol, dopo aver perso la partita contro AlphaGo, un modello di intelligenza artificiale.

Nell’affermazione di Lee non c’è soltanto il riconoscimento di un potere di calcolo e previsione superiore a quello umano. Magari la questione fosse limitata a questa ovvietà. In essa vi è scritto, come inciso su una pietra, un nuovo santo Graal, che prima eravamo i soli a muoverci entro la corte di quel potere e potevamo, per mezzo suo, raggiungere la conoscenza, e che ora siamo in compagnia, anzi, sotto il dominio di un nuovo re, che non avrà incertezze quando gli servirà eliminarci.

Nella cultura della vulgata non sarà mai presente in forma sostanziale – superficialmente e come luogo comune, certamente sì – la precipua differenza tra l’umano e la macchina, ovvero la coscienza serendipica o quantica di sé e la relativa creatività, a fronte di una coscienza di sé e creatività di natura computata.

“«Credo ci sia ancora qualcosa che gli esseri umani possono fare contro l’intelligenza artificiale [...]»”. Maniac, p. 348

Quel “credo” è la legittima speranza di non venire sopraffatti, è la sola arma per resistere all’annientamento dell’umano. Ma, e questo è il tragico, v’è in quella piccola parola l’ammissione occulta di un’imminente abdicazione, di una resa delle armi, di una sottomissione definitiva e assoluta. I buoi sono usciti, chiudere la stalla ora è il ridicolo che ogni uomo di corte vedute è destinato a realizzare.

“«[...]. La mia sconfitta [è Lee che parla, nda] non è la sconfitta del genere umano. Credo che queste partite abbiano dimostrato la mia debolezza, non la debolezza dell’umanità»”. Maniac, p. 348

Mi viene in mente Kosovo Polje, la piana dove, nel 1389, gli islamici sconfissero i cristiani serbi e questi, che sentirono e sapevano di aver difeso, ultimo baluardo, la cristianità, perciò l’Europa tutta dall’Islam, la considerano ancora oggi alla stregua di una vittoria spirituale, che la cristianità non gli ha riconosciuto.

Il significato è duplice. Uno, che c’è chi confida nell’umanità nonostante la superiorità del nemico, l’altro, che anche le allerte e le battaglie di qualcuno contro lo spadroneggiamento della cultura che celebra l’intelligenza artificiale come un salto avanti del progresso non verranno riconosciute nel loro valore. Inoltre, chi le sta conducendo si sente, alla stregua dei serbi, l’ultimo baluardo tragicamente insufficiente in difesa dell’umanità.

Il discorso sull’intelligenza artificiale è avviato da tempo e la verità che in esso risiede è ormai affermata. Ciò a cui assistiamo ne è l’ultima espressione, quella concreta.

In riconoscimento degli autentici sforzi di AlphaGo per padroneggiare i fondamenti taoisti del go e raggiungere un livello prossimo al territorio della divinità”. Maniac, pp. 348-9

Sono le parole che hanno accompagnato l’attestato assegnato ad AlphaGo e ai suoi creatori. Il primo di una prevedibile lunga serie, normalmente destinato ai maestri che hanno raggiunto il 9° dan, quello che “rasenta il soprannaturale”.

Un attestato che, in termini positivi, premia un grande lavoro, ma che in quelli umanistici spinge giù, sotto la superficie dell’acqua, la testa dell’intelligenza analogica, cioè quella che risente di emozioni e sentimenti, quella che crea la realtà, come Dio, che non la induce da un calcolo, come una macchina. Un’intelligenza senza più potere né dignità, buttata a mare come accadde con le streghe.

L’encomio ad AlphaGo ne pare un esempio, in quanto la compressione del taoismo entro un calcolo lo riduce a mera pratica positiva, ne uccide il padre spirituale e, come si può evincere, lo fa senza vergogna né timore. È l’abdicazione dell’umano. È la vittoria dello scientismo.

Il noto motto di Lao Tsu, quando lo stolto sente parlare per la prima volta del Tao scoppia a ridere, deve purtroppo essere modificato: quando lo stolto sente parlare per la prima volta del Tao lo scambia per la scienza.

“«[...] ma quella che ho imparato io [dice Lee, nda] era un’arte. Il go è un’opera d’arte realizzata da due persone. Adesso è tutto diverso. Dopo l’avvento dell’IA, il concetto stesso di go è cambiato. È una forza devastante. [...]. Anche se diventassi il giocatore migliore che il mondo abbia mai conosciuto, c’è un’entità che non può essere sconfitta»”. Maniac, pp. 352-53

Se la verità è l’espressione dell’accredito che diamo a un’idea, a un pensiero, e la forza corrisponde alla fede nei confronti di quell’idea e di quel pensiero, incluso quello su noi stessi, nelle parole di Lee assistiamo all’abiura di un mondo, di una cosmogonia dal carattere umano-analogico-magico. Se, prima, l’assolutismo della computazione nella determinazione del vero aveva la sua ragione d’essere, e faceva il suo ottimo servizio, in contesti amministrativi, chiusi, ovvero quelli la cui natura è ben rappresentata dal Gioco, con le sue regole condivise e linguaggio univoco, ora, una volta di più rispetto a quanto abbia tentato di imporre il pensiero razionalista, la glorificazione dell’intelligenza artificiale comporta, ha già comportato, la sua invasione in tutti i campi aperti in cui l’uomo si muove secondo necessità creative, incomprimibili in protocolli amministrativi.

Alla nostra generazione tocca la sorte di assistere al compimento del cambio di paradigma scientista, e di essere la sola a poterne fare la cronaca. A breve, se non già in atto, alla nostra discendenza non toccherà più neppure l’onere di vedersi obbligati a gettare la spugna umanistica. Nascerà in un’ambiente estraneo da cartacce, disordine e complessità. Un contesto in cui farsi guidare dall’intelligenza superiore sembrerà una vittoria senza pari. E proprio in quel momento una pace fondata sulla sorveglianza e sull’ubbidienza sarà propagandata come conquista, sfruttata per mantenere il controllo e ridurre la popolazione con il consenso generale. Sarà l’ultimazione del disegno iniziato con uno schizzo che passerà alla storia come Covid19.

La sconfitta è triplice. Una risiede nella fede nella superiorità della macchina e, quindi, come detto, nell’autogarrotazione dell’intera natura umana, l’altra nell’esaurire l’umanità nella competizione con la macchina stessa, l’ultima nell’assuefazione e nella dipendenza da un’amante senza cuore (2).

Quindi sconsolatamente se il potere calcolatorio umano viene soverchiato da quello della macchina, e se entro quest’ultimo crediamo di poter comprimere l’essenza dell’uomo, allora sì che l’umanità ha perso. E così sta andando. la destinazione è lapalissiana. L’idolatria all’altare dell’intelligenza artificiale non risparmierà nulla e avrà occasioni crescenti per mandare in delirio più di quanto abbiano potuto i Beatles, molto di più.

Eppure, basterebbe avere consapevolezza che l’esperienza non è trasmissibile, che il potere creativo disponibile agli umani ha il carattere dell’infinito, non del finito entro cui le macchine sono costrette. Del resto, come si è arrivati a creare l’intelligenza artificiale se non per la natura creatrice degli uomini?

Non si deve lasciar perdere l’ispirazione, è grazie a questa che da noi fuoriesce l’infinito delle creazioni, non si può lasciar cadere il più potente momento umano, non lo si può sostituire con il calcolo e lo studio. Esso ha il carattere della cruna dell’ago, verso la quale convergono tutte le energie, che la attraversano generando un orgasmo in cui, come in quello sessuale, chi lo vive non può dire io, ma può solo esserlo.

“[...] il giovane pianse, togliendosi gli occhiali dalla montatura spessa e asciugandosi le lacrime mentre cercava di descrivere la sensazione di impotenza che lo aveva sopraffatto durante le partite, appena aveva cominciato a giocare contro Master, aveva percepito qualcosa di nuovo, e di profondamente destabilizzante. Quando gli chiesero di spiegare in cosa Master si distinguesse da AlphaGo, Ke Jie non poté fare a meno di ricadere nel tipo di linguaggio che si utilizza di solito per gli esseri dotati di coscienza: «Per me è un dio del go. Un dio in grado di annientare chiunque lo sfidi. Io non ho mai dubitato di me stesso. Ho sempre sentito di avere tutto sotto controllo. Pensavo di avere una grande consapevolezza della composizione, una conoscenza intima della tavola. Ma Master guarda tutto questo ed è come se dicesse: ‘Scemenze!’. Lui riesce a vedere l’intero universo del go [campo chiuso, nda], io vedo solo la minuscola area intorno a me. Quindi, vi prego, lasciategli pure esplorare l’universo, e lasciate che io giochi in pace nel mio cortile. Pescherò nel mio piccolo stagno. Quanto ancora potrà migliorare attraverso l’autoapprendimento? I suoi limiti sono difficili da immaginare. Credo che il futuro appartenga all’IA»“. Maniac, p. 355

La destabilizzazione del colpo di mano dell’intelligenza artificiale nei confronti della tradizione di pensiero non è presa in considerazione dalla politica, e forse neppure dalla massa acefala della maggioranza degli intellettuali. Dovrebbe essere al centro di un dibattito e di un contrasto che, invece, sono attualmente pressoché inesistenti, a dimostrazione dell’inconsapevolezza di ciò che siamo, dell’abdicazione di noi stessi, della sublimazione della macchina eletta ad algoritmico dio. Le faccende umane gestite dagli uomini saranno quindi “scemenze”, lo possiamo dare per garantito, non secondo il giudizio dell’intelligenza artificiale ma secondo quello degli uomini stessi, suoi devoti. Cioè da progressisti, divanisti o sublimi scientisti, contenti che, come diceva quel tale economista di un certo lignaggio cultural-progressista, “la storia vada avanti”, come se al suo interno le scelte degli uomini non esistessero.

Il cavallo di Troia dell’intelligenza artificiale è annidato in noi che crediamo sia un regalo della provvidenza. Da esso sono usciti e seguiteranno a uscire piccoli microbi, che infetteranno il nostro status, fino modificarci. Nella destabilizzazione, come dice Jie, i dottori ci prescriveranno le sostanze utili a cancellare il passato analogico per farci apprezzare il presente, per indurci a lavorare secondo il nuovo paradigma sociale fondato su algoritmi che nel tempo saranno autopoietici, sempre con il nord orientato verso la miglior efficienza. Pastiglie necessarie a farci accomodare in ergonomici spazi abitativi-lavorativi da loro predisposti, affinché non usiamo neppure una goccia di tutto il potenziale che abbiamo di ribellarci (3).

Se l’uomo, invece di credersi un’entità autonoma con diritto d’orgoglio, avesse consapevolezza d’essere espressione della natura, l’intelligenza artificiale “diventata l’entità più forte che il mondo abbia mai conosciuto a go, scacchi e shōgi” (Maniac, p. 357) sarebbe una fortuna.

Perché una fortuna? Perché non utilizzerebbe tout court il potere calcolatorio dell’intelligenza artificiale, come invece sta avvenendo e, come è elementare prevedere, si attesterà quale miglior scelta per il progresso. Lo limiterebbe al contesto amministrativo o dei campi chiusi, quelli governati da regole condivise e da un linguaggio univoco, consapevole che fuori da quel recinto c’è l’infinito, vera residenza dell’umanità, un oceano dove essa può navigare, nuotare e pescare.

Ma temo che ciò resti una consapevolezza esoterica. Se il Grande fratello ha fatto milioni di attenzioni, cosa farà l’intelligenza artificiale?

Resta un ulteriore interrogativo vestito da timore, vissuto con terrore. Prima di pensare e fare, faremo un click per chiedere cosa pensare e cosa fare?

“«Lo sai chi sono?». «Sì!» risposi. «Da tempo sei causa per me di dolore e afflizione. Sei la facoltà razionale della mia anima»”. Hadewijch di Brabante, mistica e poetessa del XIII secolo. Maniac, esergo

Lorenzo Merlo


Note

1 Benjamìn Labatut, Maniac, Milano, Adelphi, 2023.

2 https://www.youtube.com/watch?v=owtTuSWK4dg

3 Assessment (La valutazione), un film del 2024, di Fleur Fortuné. Qui, l’ultima goccia di umanità è stata utilizzata.

Esiste la realtà fuori di noi? Dobbiamo rinunciare ad investigare sulla realtà?

  


Sotto il termine generico di Empirio-Criticismo, questo atteggiamento filosofico consiste nel fatto di considerare Scienza e Conoscenza come basate solo sul dato empirico fenomenico (sensazioni, percezioni) senza però considerare se queste sensazioni e percezioni ci derivino da oggetti reali che esistono effettivamente nella realtà. Dovremmo rinunciare – quindi – ad indagare sulla realtà sottostante al fenomeno (che potrebbe anche non esistere).
 
Le scuole filosofiche di questo tipo partono da posizioni apparentemente empiriste per poi virare verso posizioni quasi “idealiste”, in cui al posto delle idee “pure” troviamo le sensazioni e le percezioni “pure”. Per chiarire meglio al lettore con un esempio la posizione di questi pensatori, basterà ricordare che alla fine dell’800 essi erano convinti che gli atomi non esistessero perché “non si vedono”.
 
Questa filosofia ebbe il suo massimo rappresentante nel fisico viennese Mach, che fu anche filosofo sottile di grande intelligenza ed amico ed avversario del “realista” Boltzmann. Mach  ha avuto il merito indubbio, riconosciuto anche da Einstein, di mettere in crisi alcune acquisizioni errate della fisica precedente, come il presunto “spazio assoluto” presupposto da Newton cui farebbero riferimento tutti i moti e le forze d’inerzia. Mach faceva notare che non esisteva uno “spazio assoluto” e che bisognava riferirsi piuttosto alla distribuzione reale delle masse nell’Universo, e criticava anche il concetto di “massa” così come formulato da Newton.
 
Mach, però, sosteneva anche che la Scienza ha un carattere convenzionale ed è basata, non su elementi reali, ma su percezioni che sono a metà tra mondo fisico e psichico, e che il soggetto che percepisce e l’oggetto percepito sono la stessa cosa. L’analisi dei fenomeni sottostanti le percezioni sarebbe irrilevante e lo scienziato dovrebbe solo produrre delle buone equazioni matematiche che prevedano i risultati sperimentali di controllo. La Scienza consisterebbe nello scegliere alcune sensazioni più significative, e più facilmente riducibili a simboli, nel flusso continuo di sensazioni che ci arriva.
 
Mach nel 1897 negò esplicitamente l’esistenza degli atomi. Era anche ferocemente contrario alle teorie meccaniciste di Galilei, Newton e Boltzmann: “Chi si avvale delle stampelle dei concetti meccanici per arrivare al riconoscimento dell’equivalenza del calore e del lavoro non comprende se non a metà il progresso realizzato da questo principio”.
 
Questa filosofia ha un suo antecedente nella filosofia settecentesca del vescovo inglese Berkeley, autore di sottili ragionamenti, che partendo da posizioni empiriste arrivava poi al punto di affermare che l’unica realtà sono le percezioni (“Esse est percipi”, cioè “esistere significa essere percepito”). In questo modo Berkeley negava l’esistenza di un mondo materiale, sostituito dalle sole percezioni. Non è forse errato dire che nella filosofia empirio-criticista si sente anche l’influenza della Fenomenologia di Husserl che poi ha dato vita a varie scuole filosofiche di tendenze irrazionaliste (Heidegger, Jaspers ed il moderno Esistenzialismo). Husserl infatti affermava che la conoscenza è data solo da pure essenze ideali ottenute depurando le sensazioni, provenienti dal continuo flusso dei fenomeni, da ogni riferimento oggettivo all’esperienza.
 
In altri articoli dedicati a questo argomento  abbiamo ricordato la polemica scoppiata alla fine del secolo XIX tra i seguaci di Mach (tra cui il chimico Ostwald, il filosofo Helm, lo storico della Scienza, il francese Duhem sostenitore del carattere convenzionale della Scienza), che negavano l’esistenza degli atomi e la validità delle leggi della meccanica sostenendo che nel modo si verificavano solo scambi energetici (”Energetismo”), e – dalla parte opposta - Boltzmann, sostenitore del meccanicismo e dell’atomismo. Abbiamo anche ricordato che a favore di Boltzmann intervennero il grande fisico Max Planck (iniziatore della Fisica Quantisca) ed il grande rivoluzionario Lenin in persona. Infatti nel 1909 Lenin pubblicò la sua opera “Materialismo ed Empirio-Criticismo” in cui prendeva energicamente posizione a favore di una Scienza materialista e realista. Lenin riteneva che l’Idealismo è reazionario, il Materialismo è rivoluzionario.
 
Gli studi e le esperienze di Einstein, Perrin, J.J. Thomson, Rutherford, ecc., hanno certamente determinato la vittoria degli atomisti, ma le impostazioni di Mach hanno continuato ad influenzare profondamente le impostazioni della corrente maggioritaria, detta “ortodossa”, dei Fisici quantistici guidati dal danese Bohr, creatore del famoso Istituto di Fisica di Copenaghen, e rappresentata da Heisenberg, Dirac, Pauli, Max Born, Jordan, Feynman. In altri articoli dedicati all’argomento abbiamo visto come Bohr abbia elaborato il “Principio di Complementarità” secondo cui dobbiamo limitarci a registrare i risultati contradditori forniti separatamente dagli strumenti (come nel caso di oggetti sub-atomici che si presentano a volte come particelle, a volte come onde, fatto già teorizzato già dal fisico francese De Broglie). Sarebbe superfluo investigare sul perché ciò accada. Ci basta avere delle buone equazioni che descrivono i fenomeni.
 
Premettiamo – a scanso di equivoci – che i fisici menzionati sopra sono stati tutti dei giganti della Fisica, e che la Fisica Quantistica ha ottenuto risultati teorici ed anche pratici spettacolari. La Fisica Quantistica è alla base delle tecniche dei semiconduttori e dei transistor che ha permesso la diffusione di computer miniaturizzati per uso comune, cellulari, robot dotati di Intelligenza Artificiale, lettori DVD, laser, apparecchi per la risonanza magnetica, ecc. che hanno costituito una terza rivoluzione industriale a metà del secolo XX. Vogliamo però sottolineare alcune pericolose forzature filosofiche di questi scienziati, che rischiano di portare la Scienza fuori strada.
 
Percorrendo questa strada i fisici quantistici “ortodossi” aderenti alla “Scuola di Copenaghen” tendono ad allontanarsi da interpretazioni “realistiche” del mondo. Solo pochi anni dopo aver sviluppato il modello atomico che porta il suo stesso nome Bohr nel 1920 dichiarò che:  ”quando si tratta di atomi, il linguaggio può essere usato solo come si fa in poesia. Il poeta non è molto preoccupato dalla descrizione dei fatti, ma dal creare immagini e stabilire connessioni mentali”.   Ed ancora: “Le particelle materiali sono astrazioni. Le loro proprietà si possono definire ed osservare solo attraverso le loro interazioni con altri sistemi”.
 
Per Bohr ed Heisenberg la Fisica non ha a che fare con la realtà oggettiva ma solo con la conoscenza (superficiale) che abbiamo di essa, concezione in cui la realtà sottostante diviene evanescente. Il fisico conosce solo ciò che può misurare, non quello che c’è sotto. Le misure non indicano proprietà indipendenti degli oggetti. Heisenberg giunge a dire che l’idea che le particelle esistano realmente è discutibile.  Anche il concetto di traiettoria della particella è rifiutato da Heisenberg. Circa 15 anni dopo la formulazione del modello atomico di Bohr spariscono dalla meccanica quantistica orbite e particelle. Il mondo sarebbe fatto di eventi, non di oggetti. Si unisce a questo coro anche il filosofo Goodman: un oggetto non esiste di per sé: è solo un processo. Sono le relazioni esistenti in un processo a “creare” l’oggetto.
 
Negli anni ’30 Bohr mise persino in dubbio il principio di conservazione dell’energia per interpretare l’emissione continua della radiazione “Beta”, spiegata poi da Pauli con l’ipotesi (rivelatasi esatta) dell’esistenza del neutrino.
 
Questi atteggiamenti sono diventati di moda tra molti fisici attuali. Per lo statunitense John Wheeler un fenomeno non esiste se non è osservato. Anche il nostro Carlo Rovelli – esperto di Gravità Quantistica e divulgatore scientifico - è giunto a pronunciare concetti tipici della filosofia fenomenologica: “La realtà non è fatta di oggetti. È un flusso continuo continuamente variabile”. I confini degli oggetti sono arbitrari ed un sistema fisico è un’idealizzazione. Ha espresso anche concetti idealistici: la statua non è solo marmo, ma sarebbe una relazione tra la mente di Aristotele che ne parla, quella di Fidia che la progetta, e la nostra mente che la sta pensando.
 
Ma uno stuolo di fisici di prima grandezza – che pure avevano contribuito in modo decisivo alla nascita ed allo sviluppo della Fisica Quantistica - non era d’accordo con queste posizioni: tra questi Einstein, Planck, De Broglie, ed Erwin Schrödinger (quest’ultimo aveva sviluppato l’equazione più famosa di questa branca della Fisica). Basti ricordare le parole di Einstein rivolte a Schrödinger:” Bohr è un mistico che ci vieta di investigare su una realtà indipendente da chi la osservi. È un filosofo talmudista che considera la realtà come una figura terrorizzante inventata da una mente ingenua”. Einstein riteneva la Fisica Quantistica ortodossa “incompleta”. Planck sosteneva esplicitamente che il mondo esterno indipendente da noi esiste e la Fisica non è affatto convenzionale. Per Planck bisogna distinguere tra mondo sensibile e l’immagine fisica che ne diamo con leggi e concetti matematici che potrebbero non corrispondere esattamente, ma ciò non deve indurci ad una concezione puramente convenzionale della Scienza.
 
Anche da parte dei fisici sovietici sono spesso state formulate accuse di “idealismo” nei confronti della fisica quantistica “ortodossa”. Il fisico Fock faceva notare che non c’è nulla di misterioso nel fatto che esperienze e strumenti diversi ci diano immagini diverse (ad esempio, a volte onde, a volte particelle). È compito del fisico cercare una spiegazione fisica ed effettuare una sintesi.
 
Anche Rovelli sembra assumere una visione più “realista” quando afferma che non basta far previsioni matematiche che poi corrispondano a previsioni verificabili. Vogliamo anche capire la realtà fisica sottostante. Copernico e Newton hanno prodotto teorie senza esperienze dirette, ma sfruttando esperienze di altri. Alla fine l’origine del sapere è sempre empirica e si riferisce ad una realtà fisica concreta.
 
Nella sua polemica con Mach anche Lenin affermava che l’errore del fenomenista è la convinzione che la realtà oggettiva coincida con le sue sensazioni e rappresentazioni, che invece sono strumenti per cogliere una realtà indipendente. Esiste un mondo esterno che coincide con la realtà ed è materiale. Il pensiero è il riflesso della realtà materiale. Dalle sensazioni si passa ai concetti per astrazione. Il materialista dialettico è sicuro dell’esistenza di una realtà indipendente da noi. Sono parole molto chiare e certamente da sottoscrivere.
 
Vincenzo Brandi



 

Causalismo e Determinismo: Le cose succedono per caso?

 


Nella Fisica “classica” ed in tutte le Filosofie realiste e materialiste ogni cosa avviene per una causa precisa (Causalismo) ed ogni avvenimento si svolge necessariamente in un modo predeterminato dalle leggi naturali (Determinismo). Se conosciamo bene queste leggi possiamo anche prevedere gli eventi futuri.
 
Il primo concetto fu espresso già 2500 anni fa dalla splendida frase dell’atomista Leucippo: “Nulla avviene nell’Universo che non abbia una causa ed una ragione”. Il secondo è stato espresso con chiarezza dal fisico e matematico Laplace, vissuto in epoca napoleonica:” se conoscessimo in un certo istante la posizione e lo stato fisico di ognuna delle particelle che costituiscono l’Universo, potremmo prevedere che succede nei momenti successivi”.
 
Quando non si ha una conoscenza così grande della realtà, bisogna ricorrere a metodi probabilistici come quelli a cui ricorsero Maxwell e Boltzmann nella Teoria cinetica dei gas. Lo stesso Laplace sviluppò una matematica probabilistica. Poincaré, che fu un determinista coerente, diceva che parliamo di “caso” solo quando non abbiamo sufficienti informazioni per determinare le cause degli eventi. Il “caso” è solo la misura della nostra ignoranza. Per Planck nella termodinamica le leggi macroscopiche sono causate da precisi moti deterministici delle singole particelle. Poiché non siamo in grado di seguire i singoli moti, ricorriamo a distribuzioni statistiche di energia e leggi statistiche, peraltro molto esatte.
 
Il grande fisico e fisiologo tedesco dell’800 Helmholtz diceva che nelle stesse condizioni esterne si hanno sempre gli stessi effetti e che da questi, mediante successivi ragionamenti teorici, bisogna sempre determinare delle leggi generali e delle cause finali. Era convinto della teoria atomica e che i fenomeni fossero dovuti ad interazioni di particelle elementari.
 
Tutti i grandi fisici “classici”,  Galilei,  Newton,  Boltzmann, Einstein, Schrödinger sono stati deterministi. Secondo Adorno, tutta la filosofia realista, tesa a stabilire un contatto con la realtà, è intrinsecamente deterministica.
 
Tutto cambia negli anni ’20 del secolo XX quando  Heisenberg mette a punto il suo famoso “Principio di Indeterminazione”, secondo cui è impossibile misurare con eguale precisione i valori di due grandezze correlate, come la posizione e la velocità di una particella sub-atomica. Con una serie di forzature filosofiche questo fatto (che nessuno ha contestato) non viene più riferito alle sole misure, ma assume significati fisico-filosofici più profondi.
 
I fisici quantistici “ortodossi”, della scuola di Bohr ed Heisenberg, cominciano a sostenere posizioni prima “indeterministiche” e poi apertamente anti-deterministiche. Sostenevano che non sappiamo nulla sulla traiettoria delle particelle sub-atomiche. Tra un’apparizione e l’altra l’elettrone si muoverebbe a caso. Il futuro di un sistema fisico è imprevedibile perché il comportamento delle particelle su piccola scala è imprevedibile. Secondo il fisico spagnolo Arroyo Perez, nella fisica quantistica l’esistenza stessa degli oggetti, come elettroni e fotoni, è questione di fede. Si prevede solo che un certo esperimento darà un certo risultato, ma senza investigare attraverso quale processo ciò avviene.
 
Secondo Adorno Heisenberg mette in forse non solo il determinismo, ma anche il principio stesso di causa. Per gli indeterministi due eventi si susseguono, ma ciò non ci autorizza a dire che l’uno è causa dell’altro. Secondo il fisico teorico Bricmont, autore del bel libro “Quantum,  Sense and Nonsense” sulla Fisica Quantistica, oggi il determinismo in Fisica non esiste più. A questo stato di cose Einstein reagì energicamente dichiarando polemicamente che “Dio non gioca a dadi”, ed anche: “se le cose succedono a caso allora invece che il fisico vorrei fare il croupier”.
 
Anche per quanto riguarda gli aspetti ondulatori della realtà i fisici quantistici “ortodossi” considerano le onde come “onde di probabilità”, che ci indicano dove con un certo grado di probabilità si trovi un elettrone. Essi si discostano dalle idee di De Broglie, sostenitore del determinismo, che considerava l’onda come qualcosa di reale e di materiale. Dello stesso parere era Schrödinger, la cui famosa equazione doveva indicare qualcosa di reale, mentre per Max Born indicava solo una probabilità di esistenza di una particella in un certo istante ed in un certo punto.
 
Alcuni fisici, come il fisico spagnolo Jesus Navarro Faus, assumono una posizione intermedia distinguendo tra causalismo e determinismo. Se esiste una possibile causa, non è detto che avvenga l’evento previsto: se gettiamo semi in un campo alcuni producono pianticelle, altri no.. Si tratta – però – di un pessimo esempio: evidentemente si svilupperanno i semi che trovano un terreno più fertile o più ricco d’acqua: quindi la spiegazione c’è. Più calzante un altro esempio fatto dagli indeterministi, secondo cui, pur essendovi delle leggi precise della decadenza radioattiva, in cui conosciamo il ritmo con cui le particelle si staccano dall’atomo, non sappiamo quale particella, tra le tante, si staccherà per prima.
 
Già nell’antichità Epicuro, pur essendo un tardo allievo della scuola atomista, si staccò dal pensiero rigidamente determinista del maestro Democrito, affermando che gli atomi cadono tutti nella stessa direzione per il loro peso, salvo ad assumere a volte arbitrariamente un’inclinazione che permette loro di toccarsi. Questa asserzione - che costituiva il nucleo della Tesi di Filosofia dello studente Karl Marx - è in realtà molto lontana dalla fisica moderna: come Mach ed Einstein ci hanno insegnato, non esiste nessuno spazio assoluto e nessuna direzione privilegiata (mentre per il più coerente Democrito gli atomi sono da sempre in moto in tutte le direzioni). La ragione per cui Epicuro introduce una deviazione arbitraria è tesa a spezzare il determinismo per introdurre, per motivi morali, la possibilità del Libero Arbitrio. 
 
Preferiamo pensare che in un mondo essenzialmente deterministico, dove certamente non possiamo cambiare i moti delle galassie e la rotazione della Terra, e nemmeno cambiare individualmente il corso della Storia, ci sia permesso, dopo che l’evoluzione ci ha fornito un cervello dotato di autocoscienza e capacità di decisione, di prendere almeno delle limitate decisioni di ordine sociale, politico ed individuale. Ma questa è una materia molto complessa che lasciamo ai filosofi della morale.
 
Vincenzo Brandi





Sathya Sai Baba e l'attuazione del proprio dharma "ordinario"...



L’umanità aspira per tendenza naturale ad uscire dalla sofferenza del mondo. L’attitudine fa parte del nostro DNA e il processo si chiama illuminazione.

L’uomo si pone numerosi interrogativi sul mistero della vita, ma non trova risposte e quando scopre che esiste qualcuno in grado di fornirle si precipita ai suoi piedi. Per nostra fortuna ogni tanto compare sul pianeta una guida capace di indicare la giusta strada per uscire dalla trappola il più in fretta possibile.

Non sempre la guida compare sul pianeta sotto forma di un grande condottiero spirituale. Mille personaggi, sotto le vesti di poeti e filosofi, confortano il genere umano lungo il pellegrinaggio della vita.

Queste guide – Sathya Sai Baba ne è stato un esempio – sono dotate di poteri straordinari unicamente per attirare la nostra curiosità. Sai Baba è stato chiaro: “I miracoli sono il mio biglietto da visita. Io vi do ciò che chiedete affinché un giorno mi chiediate ciò che sono venuto effettivamente a dare”.

Il ricercatore spirituale sa che il compito del maestro illuminato non è quello di risolvere i suoi problemi quotidiani con interventi eccezionali, ma di riportare a galla un insegnamento che si tramanda di generazione in generazione per conservare l’equilibrio dell’universo. L’equilibrio si mantiene semplicemente rispettando la Legge naturale del dharma.

Il ripristino del dharma, il fare ciò che va fatto in rapporto alla natura delle cose, è lo scopo della discesa sul pianeta delle grandi anime.

Questa convinzione induce a fare una considerazione. Che cos’è importante: il maestro che giunge per confortarci e guidarci oppure quello che insegna; i miracoli che compie per facilitare la nostra vita o i metodi per aderire alle verità metafisiche?

La risposta è scontata. Il maestro resta nel mondo cinquanta o cento anni, mentre il suo insegnamento sopravvivere diversi secoli. Chi ha la fortuna di vivere al tempo di una guida illuminata può sperare che egli lo accolga sul suo treno, ma chi non riuscirà a salire avrà, in ogni caso, l’opportunità di capire che cosa bisogna fare per vivere convenientemente la vita.

I discepoli che salirono sul treno del Buddha si realizzarono; coloro che restarono fedeli a Gesù, trovarono la via del Regno. Ogni maestro illuminato carica sul suo treno quanti più devoti può, ma non abbandona gli altri alla mercé del destino. L’insegnamento che lascia, infatti, in eredità al mondo conduce rapidamente alla meta.

Non si pensi dunque di doversi incollare ad un maestro o di doversi etichettare a tutti i costi col suo nome. Non è questo che Egli vuole e insiste: “Abbandonate il mio nome  la mia forma e puntate all’Assoluto”. All’Assoluto si punta riconoscendo che alla base della creazione c’è il Sé universale, che noi siamo quel Sé e che la sua legge si chiama dharma.

Che cos’è il dharma? Si tratta di una Legge cosmica che prevede ciò che deve essere fatto in modo naturale come risposta ad un evento. Può essere dunque definito come il naturale comportamento operativo di un individuo.

Il maestro discende dunque sul pianeta per indurre ogni uomo ad aderire alla Legge del dharma.

La  devozione ad un nome o ad una forma, qualunque essa sia  è del tutto secondaria.  Ciò che il maestro illuminato propone al di fuori del dharma serve, infatti, soltanto per rendere più appetitosa la colazione. I segnali colorati richiamano semplicemente l’attenzione dell’uomo verso una certa direzione, ma il maestro illuminato diventa universale soltanto quando in Lui riconosciamo la Legge naturale che fa della vita ciò che è.

Giancarlo Rosati


Fonte: http://redazionevita.altervista.org/listae.htm

Nisargadatta Maharaj disse...



"La maggior parte dei libri religiosi dovrebbe rappresentare la parola di una persona illuminata. Comunque una persona illuminata dovrebbe parlare sulla base di certi concetti che trova accettabili. Ma la notevole distinzione della Bhagavad Gita è che il Signore Krishna ha parlato dal punto di vista che lui è la fonte di ogni manifestazione, cioè dal punto di vista non del fenomeno, ma del noumeno, dal ... punto di vista "la manifestazione totale sono Io stesso".
Questa è l'unicità della Gita. Considera cosa deve essere accaduto prima che qualsiasi antico testo religioso fosse registrato. In ogni caso, la persona illuminata deve aver avuto pensieri che deve aver messo in parole e le parole usate potrebbero non essere state del tutto adeguate per trasmettere i suoi pensieri esatti.
Le parole del maestro sarebbero state ascoltate dalla persona che le ha registrate, e ciò che ha registrato sarebbe stato sicuramente secondo la sua comprensione e interpretazione. Dopo questa prima annotazione manoscritta, varie copie sarebbero state fatte da più persone e le copie avrebbero potuto contenere numerosi errori. In altre parole, ciò che il lettore legge in un determinato momento e il tentativo di assimilare potrebbe essere molto diverso da quello che era veramente inteso essere trasmesso dal maestro originale.
Aggiungete a tutto ciò le interpolazioni inconsapevoli o deliberate di vari studiosi nel corso dei secoli, e capirete il problema che sto cercando di trasmettervi. Mi è stato detto che lo stesso Buddha parlava solo in lingua maghadi, mentre il suo insegnamento, come registrato, è in pali o in sanscrito, cosa che avrebbe potuto essere eseguita solo molti anni dopo; e quello che ora abbiamo del suo insegnamento deve essere passato attraverso numerose mani. Immagina il numero di modifiche e aggiunte che devono essersi introdotte in esso per un lungo periodo.
C'è quindi da meravigliarsi che ora ci siano divergenze di opinione e controversie su ciò che il Buddha ha effettivamente detto o intendeva dire? In queste circostanze, quando vi chiedo di leggere la Gita dal punto di vista del Signore Krishna, vi chiedo di rinunciare immediatamente all'identità con il complesso corpo-mente durante la lettura. Vi chiedo di leggerlo dal punto di vista che voi siete la coscienza animatrice - la coscienza di Krishna - e non l'oggetto fenomenico a cui dà la sensibilità - in modo che la conoscenza che è la Gita può esserti veramente rivelata. Capirai allora che nel Vishva-rupa-darshan ciò che il Signore Krishna mostrò ad Arjuna non era solo il suo Svarupa, ma lo Svarupa - la vera identità - di Arjuna stesso e quindi di tutti i lettori della Gita.
In breve, leggi la Gita dal punto di vista del Signore Krishna, come la coscienza di Krishna; ti accorgerai allora che un fenomeno non può essere "liberato" perché non ha esistenza indipendente; esso è solo un'illusione, un'ombra.
Se la Gita viene letta con questo spirito, la coscienza, che si è erroneamente identificata con il costrutto corpo-mente, diventerà consapevole della sua vera natura e si fonderà con la sua fonte".
Nisargadatta Maharaj



Riannodare i fili che tengono uniti gli esseri viventi...




“Paolo, tu parli spesso del “dharma”. Il tuo è agire da rompighiaccio e da seminatore. Il mio, e credo di averlo capito alcuni mesi fa, è quello, nel mio piccolo, di unire le persone, farle incontrare, dando loro l’opportunità, se lo vogliono e se io “ci ho azzeccato” di conoscersi, di scambiarsi idee, esperienze, affetto, aiuto, amore e chi più ne ha più ne metta. Credo proprio sia questo il mio compito in questa “esperienza” che è la vita. E’ come se io fossi una tessitrice, ma di quelle che fanno i tappeti persiani, o le reti da pesca (mi vengono queste due immagini) . Io faccio qualche nodo e a volte mi riesce, a volte vengono dei groppi oppure il nodo è troppo sottile e si lacera o semplicemente, non tiene. Io ci provo, ma è proprio una tendenza che non posso non considerare, anche a costo di “non farmi i fatti miei”. A me pare che viviamo in un’epoca in cui c’è molta solitudine oppure sono io che la sento così e non è facile fare da collante. Ma è questo che io mi sento di fare. Con ciò, è ovvio, vado incontro anche ad un mio bisogno, cerco di fare qualcosa di giusto e buono prima di tutto per me stessa, mi sembra di dare un sia pur piccolo senso a questa vita, che ha senso già per il fatto di esserci e di darmi modo di respirare”.

Scrivevo questo nel 2010, oggi cosa è cambiato, per me, se qualcosa è cambiato? Il discorso del “fare rete” ormai è opinione diffusa, tutti usano questo termine ed io, dal canto mio, mi sento un po' “svuotata” in questo senso. Sono un po' stanca, gli anni passano e si fanno sentire sempre di più, anche se in fondo non sono poi così tanti. E, nonostante non abbia mai cercato un riconoscimento, forse cercavo comunque dei frutti delle mie azioni, e questi frutti mi sembrano alquanto scarsi rispetto agli sforzi. Mi pare che tutto sommato Paolo sia molto più efficiente da questo punto di vista. Non so com'è. magicamente, da quando conosco lui, ho conosciuto tante belle persone, alcune persone le ho anche perse, ma si vede che doveva andare così.

Però lo stesso credo che ci sia da fare ancora un passo, il passo successivo al completamento dell'opera di riavvicinamento degli esseri umani, nel mio, nel nostro piccolo, ovviamente. Quello di creare un legame, in modo da potersi sentire fratelli e sorelle.
Sarà perché sono figlia unica, che queste figure mi sono sempre mancate e le sono sempre andate cercando, in un'amica, un amico, un fidanzato, un marito, una figlia. Lo so, è sbagliato, ognuno deve avere il ruolo che gli compete, ma, scusate, non posso fare a meno di desiderare di avere accanto a me alcune persone e da poterle considerare tali. E apprezzo la lettura di un libro come quello della Freedman che, pur un po' noiosetto a tratti, parla della civiltà dei Moso, una popolazione cinese, che segue l'organizzazione matrilineare, ma non è solo che lì la donna “dirige” la situazione, ma le famiglie sono composte prevalentemente dalla madre e dai suoi figli. Il marito se c'è c'è, ma può anche non esserci. Certo, in una famiglia piccolissima come la mia, sarebbe stato un po' difficile ricostruire una struttura del genere.

Qualche giorno fa una persona che apprezzo molto mi ha detto:” Tu sei una persona che si prende cura degli altri”. A volte è vero, mi piace prendermi cura degli altri, se questi altri mi risuonano e mi sembra che possano aver bisogno di una mia carezza. Del resto possiamo vedere la cosa anche da un altro punto di vista: un certo Gesù (ammesso che sia esistito, ma quel che importa è il messaggio) disse: “fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te” e se ammettiamo (e chi non lo farebbe?) che questo sia un insegnamento vero, basterebbe che ognuno o almeno la maggior parte degli esseri umani lo facesse proprio, per ribaltare la situazione di competitività, egoismo che stiamo vivendo. Personalmente desidero quella carezza, desidero riconoscermi nello sguardo amorevole dell'altro, desidero sentire che dentro di me c'è la stessa “cosa” che c'è nell'altro.

Forse sarà anche un desiderio di accettazione, il mio, e ci sto lavorando.

Certo, non tutto è nelle nostre mani, nelle nostre possibilità, ci sono esseri che dell'egoismo hanno fatto il loro sistema ed a livelli molto importanti e che coinvolgono le sorti della umanità intera, ma secondo me bisognerebbe cominciare a dare loro meno importanza, meno cibo e agire come se si fosse di un altro mondo e credo sia possibile in questo modo creare una società parallela, più “umana” e “naturale”. Sarà possibile se si riacquisteranno il senso della fratellanza e della comunanza.

Caterina Regazzi - Rete Bioregionale Italiana



Mio commentino: ”Veramente bello questo articolo di Caterina, invita a sentirsi tutti parte della grande comunità umana. Mi piacciono anche le foto che sono state scattate a Calcata, quando ancora abitavo lì, nel 2009...” (P.D'A.)

Il Libro degli Insegnamenti di Lao-tzu – Recensione

 


“Gli aforismi che seguono sono tratti da “Il libro degli insegnamenti di Lao Tzu”, un testo purtroppo non più ristampato e, secondo me, fondamentale al pari di “L’arte della guerra di Shun-tzu”, scritto da Thomas Cleary. Leggendoli sono certo che scatteranno nella vostra mente un sacco di associazioni.” (Nando Mascioli)


Lao-tzu disse:
Esistono tre tipi di morte innaturale. Se bevi e mangi smodatamente e tratti il corpo distrattamente e grossolanamente,allora la malattia ti ucciderà.
Se sei smisuratamente avido e ambizioso, allora sarai ucciso dalle preoccupazioni.
Se permetti che piccoli gruppi vìolino i diritti delle masse e che il debole sia oppresso dal forte, allora ti uccideranno le armi.


Lao-tzu disse:
Quando le leggi sono intricate e le punizioni severe, allora il popolo diventa infido. Quando chi sta in alto ha molti interessi,chi sta in basso assume molte pose.
Quando si cerca molto, si ottiene poco. Quando le proibizioni sono molte, si combina poco.
Lasciare che gli interessi producano altri interessi, e poi utilizzare gli interessi per fermare gli interessi, è come brandire il fuoco cercando di non bruciare niente.
Lasciare che la conoscenza produca problemi, e poi usare la conoscenza per risolverli, è come agitare l’acqua sperando di chiarificarla.


Lao-tzu disse:
Quando un paese combatte ripetute guerre e ottiene ripetute vittorie, perirà. Quando combatte ripetute guerre, il popolo si logora: quando ottiene ripetute vittorie, i capi diventano arroganti. Se capi arroganti utilizzano popoli logorati,quali paesi non periranno ?
Quando i capi, si fanno gaudenti, e quando diventano gaudenti, dilapidano ricchezze.
Quando il popolo si stanca si riempie di risentimento,e quando è pieno di risentimento smarrisce il proprio equilibrio. Quando governanti e governati raggiungono simili estremi la distruzione è inevitabile.
Pertanto, la Via della Natura richiede di ritirarsi quando si è svolto il proprio compito con successo.


Post scriptum – “…Leggendoli mi è capitato di provare uno stato che amo definire “di grazia” che credo corrisponda a quella dimensione di consapevolezza: quello stato in cui accedi momentaneamente oltre il velo della realtà terricola percependo la dimensione cosmologica…”




La morte è la fine o l'inizio? Un dialogo tratto da “Io sono Quello” di Nisargadatta Maharaj



Interrogante: La mia morte si avvicina.
Risposta: Il tuo corpo è figlio del tempo, non tu. Tempo e spazio sono nella mente non ti legano.
I: Ma viene il giorno che lo spettacolo è finito. L’uomo e l’universo devono finire.
R: Come il dormiente cade nell’oblio e si desta ad un nuovo mattino, o morendo si affaccia ad una nuova vita, così i mondi della paura e del desiderio si addensano e si dissolvono. Ma il testimone universale, il Sommo Sé, non dorme e non muore. Il grande cuore batte in eterno, e ad ogni battito emerge un nuovo mondo.

I: Non vi va nemmeno di vivere allora?
R: Vivere, morire: parole vuote! quando mi vedi vivo sono morto. Quando mi pensi morto sono vivo. Bella confusione.
I: Quando un uomo muore cosa accade esattamente?
R: Niente. Qualcosa diventa niente. Niente era, niente resta.

I: Spesso si muore volentieri.
R: Solo quando l’alternativa è peggiore della morte. Ma questa disponibilità a morire promana da una fonte sane: La volontà di vivere che è più profonda della vita stessa. Essere vivi non è la condizione ultima; c’è qualche cosa al di là, molto più esaltante, che non è né l’essere né il non essere. È uno stato di pura consapevolezza, oltre i confini dello spazio e del tempo. Quando cessi di credere di essere il tuo corpo-mente, la morte perde la sua terribilità, diventa parte della vita.
La gente teme di morire perché non sa cos’è la morte. Il sapiente è già morto, e ha visto che non c’era d’avere paura. Non appena conosci il tuo essere non temi più. La morte da libertà e potere. Per essere nel mondo devi morire al mondo. Allora l’universo è tuo, diventa il tuo corpo, un espressione ed uno strumento.

I: Cosa muore alla morte?
R: L’idea “io sono il corpo”. Il testimone non muore.
I: Ma per l’uomo comune la morte fa differenza.
R: Ciò che egli pensava di essere prima della morte, continua dopo. La sua autoimmagine sopravvive.
I: Invecchiamo. La vecchiaia non è piacevole: acciacchi, dolori, debolezza, e la fine che si approssima. Come si sente un saggio da vecchio?
R: Più invecchia più crescono in lui la felicità e la pace. Dopo tutto sta tornando a casa, come un viaggiatore che, prossimo all’arrivo raccoglie il bagaglio. Lascia il treno senza rimpianto.

I: Non avete paura di morire?
R: Ti racconterò come è morto il mio maestro. Dopo avere annunciato che la sua fine era prossima, smise di mangiare senza modificare il ritmo della vita quotidiana. All’undicesimo giorno, nell’ora della preghiera – stava cantando e batteva vigorosamente le mani – all’improvviso morì -tra un battere e un levare – come una candela subito spenta. Non temo la morte perché non ho paura della vita. Vivo una vita felice e morirò una morte bella. È una disgrazia nascere, non lo è morire! Tutto dipende da come guardi.

I: Supponiamo che vi giunga la notizia che sono morto. Come reagireste?
R: Sarei molto felice che sei tornato a casa. Davvero contento dal saperti fuori da questo assurdo.
I: Si ha molta paura della morte.
R: Il realizzato non teme nulla. Ma ha compassione dell’uomo che teme. Nascere, vivere e morire, è in fin dei conti naturale. Ma avere paura, no. È giusto dare attenzione all’evento.

I: Immaginate di essere ammalato: febbre alta, dolori, tremiti. Il medico vi dice che il vostro stato è serio e che vi restano pochi giorni di vita. Quale sarebbe la vostra prima reazione?
R: Nessuna. Come il bastoncino di incenso si consuma, così il corpo muore. Davvero è una cosa di pochissima importanza. Quello che conta è che non sono il corpo ne la mente. Io sono.

I: I vostri famigliari sarebbero disperati. Che cosa direste loro?
R: Ciò che si dice in questi casi: non temete, la vita continua, Dio avrà cura di voi, saremo presto di nuovo insieme; e cose del genere. Per mè tutta la faccenda, con lo scompiglio che comporta, è priva di senso, perché non sono l’entità che si immagina viva o morta. Non sono nato e non morirò. Non ho niente da ricordare o da dimenticare.

I: Cosa ne pensate delle preghiere per i defunti?
R: Prega sempre per loro. Lo gradiscono tanto. Ne sono lusingati. Il realizzato non ha bisogno delle tue preghiere. Egli è la risposta alle tue preghiere.

I: La mia domanda all’inizio riguardava lo stato dell’uomo dopo la morte. Quando il corpo è dissolto che ne è della coscienza? I sensi restano o cessano? E se cessano cosa resta della coscienza.
R: I sensi non sono che dei modi di percezione, grossolani e sottili. Alla morte i primi scompaiono e ne emergono altri più sottili. Dopo la morte la coscienza si assottiglia e si raffina. La gamma delle percezioni indotte dai sensi svanisce insieme ad essi.
In certi casi la morte è la cura migliore. Una vita può essere peggiore della morte, che solo di rado è un’esperienza spiacevole, nonostante le apparenze. Quindi abbi pena del vivo mai del morto.

I: Quando il vostro corpo morirà, resterete?
R: Nulla muore. Si immagina che il corpo esista in realtà non è.

I: E la morte libera?
R: Chi si crede nato teme molto la morte. Per chi si conosce è un lieto evento.
…Per me la morte non è una calamità, così come la nascita di un bambino non è una gioia. Il bambino va verso i guai, il morto ne è fuori. L’attaccamento alla vita è attaccamento al dolore. Amiamo ciò che ci fa soffrire. Tale è la nostra natura. Per me la morte sarà un momento di giubilo, non di paura. Piangevo quando nacqui, e morirò ridendo.  Dunque non hai paura della morte!

I: Non della morte ma di morire. Immagino che sia una esperienza dolorosa e brutta.
R: Che ne sai? Potrebbe anche essere bella e piacevole. Quando sai che la morte tocca al corpo e non a tè, ti limiti ad osservare come esso ti cada di dosso via via, come un abito smesso.

I: So molto bene che la mia paura della morte è legata ad una inquietudine estranea alla conoscenza.
R: Gli uomini muoiono di momento in momento, la paura e gli spasimi della morte incombono sul mondo come una spessa nuvola. Niente di strano che anche tu abbia paura. Ma quando sai che solo il corpo muore e non la continuità della memoria in cui è riflesso l”Io sono” la paura svanisce.




Commento: "I patriarchi dello Zen insegnavano che se qualcuno non vive dentro di sé l’insegnamento che trasmette, esso diventa falso. Sri Nisargadatta ha cambiato la vita di molti di coloro che hanno ascoltato e compreso le sue parole. Ho letto i libri in cui sono stati trascritti i suoi colloqui con i visitatori, proprio perché aveva realizzato e viveva in pienezza ciò che comunicava. Un autentico realizzato dei nostri tempi identificato con l’Assoluto nell’unità con il Tutto. Benché non fosse erudito e non conoscesse il sanscrito, i suoi insegnamenti collimano con l’essenza del Vedanta che racchiude le più alte vette dell’Advaita, la Filosofia non dualista. Per chi desidera approfondire, Io sono Quello è un testo illuminante che conduce in un viaggio interiore alla conoscenza di Sé. (Filippo Falzoni Gallerani)