“La Luce della Notte” di Pietro Citati - Recensione

 


E’ proprio vero, la dimensione dell’irrazionale e dell’insolito che uno credeva di essersi lasciato alle spalle, immerso nella concitazione della vita quotidiana o nella voglia di rilassarsi e lasciar tutto alle spalle, ecco che, quando meno te l’aspetti, rientra da quella finestra dell’anima mai rimasta completamente chiusa. Magari in una domenica estiva, fatta di vagabondaggio a cavallo della propria moto tra le fresche valli del Reatino, sin su tra le nude cime del Terminillo e poi giù tra vallate oscure e silenziose, che lasciano, d’improvviso, spazio ad uno dei tanti splendidi borghi dell’Italia Centrale, Leonessa. 
Fermare la moto, vagolare tra le vie della deliziosa cittadina, fermarsi in piazza e buttare l’occhio lì, tra quelle bancarelle dove, alla rinfusa tra altri libri, ammassati a guisa di scarti di spazio-tempo, in attesa di esser penetrati dall’umana curiosità, ne giace uno, che sembra lì esser stato gettato per caso dal Fato e che attira subito la mia attenzione. Una breve trattativa e lo faccio mio, coprendolo con cura in una busta ed infilandolo nel mio immancabile zainetto da viaggio. 
Pietro Citati con il suo “La Luce della Notte”, è uno di quei rari autori dotato del dono di saper intrecciare filosofia, metafisica e narrazione in un insieme talmente agile e scorrevole da catturare la tua attenzione e da trascinarti nel vortice di una narrazione, che parte da una dimensione spazio temporale dilatata quasi all’infinito, in grado di far toccare sino a confondere, i confini tra l’atemporalità del mito e la storia, quale quella rappresentata dalla steppa degli Sciti e dai loro misteriosi Kurgan, sino alla microcosmica dimensione della umana schizofrenia che chiude un libro, che altro non è che una corsa. 
Una folle corsa attraverso immagini, storie, uomini, tutti accomunati da una spasmodica apertura all’irrazionale, a quella dimensione mitopoietica che involge, avvolge, coinvolge i protagonisti tutti, in una continua tensione esistenziale, in cui il mito sembra entrare e catturare le menti dei vari protagonisti, salvo poi abbandonarli repentinamente al loro tragico destino ed infine rientrare per lasciare nuovamente una indelebile traccia di sé…. Ma questo libro è anche, e principalmente, un affastellarsi di sensazioni e di emozioni. 
E’ lo “stupor” del Re di Persia dinnanzi alla sua impotenza davanti alla sfuggente indomabilità scitica. E’ la “melancholia” di Saturno che sembra lasciare, silenziosa, le proprie tracce nell’animo umano. E’ la virtù ed il multiforme ingegno di Odisseo, figlio di Hermes, dio dei ladri e padre putativo di tutti gli iniziati. E’ la comica vanità di Apuleio, tramutato in Asino, salvato e reso iniziato da Iside in persona. E’ la sbigottita descrizione dello gnostico Valentino di un Dio, di un Uno, che tale “non è”, perché talmente abissale e lontano da noi da non poter Essere se non, per l’appunto, Abisso. E’ l’irrompere del Cristianesimo paolino e della sua predicazione fatta di una secca intransigenza, tra le pieghe della tranquilla armonia neoplatonica. E’ la “Commedia” di Dante con la finale esperienza di contatto con quella Luce, con quella luminosa sorgente principiale, per la quale non si riescono a trovare parole sufficienti, a rendere una descrizione. 
Ma è anche l’assurda aderenza degli ultimi monarchi amerindi alle indicazioni di un mito, che porterà al compimento di un tragico destino. E’ la versione non ortodossa della Bibbia da parte degli islamici, che non contrasta affatto con il fiabesco mondo delle “Mille e una Notte”, la cui dimensione sembra intersecarsi con la dimensione del reale in un inestricabile e misterioso Tutto. 
E’ il giuoco di luci e di ombre del Tao cinese, che passa dalla tranquilla ed estatica immersione in una dimensione edenica fatta di giardini, palazzi incantati, sentimenti delicati e soffusi, alla desolazione, all’abbandono ed alla morte, che seguono al repentino abbandono di un mondo, da parte della dimensione “altra”. E’ quel magico flauto mozartiano, che proietta lo spettatore nella dimensione mitica ed iniziatica dell’Egitto Isideo, in un misterioso intersecarsi di vicende umane e divine. E’ la ricerca della Shekinah, delle tracce di quella Luce, che, a detta dell’Ebraismo eterodosso della cabalistica, qua e là fanno la loro comparsa in un mondo corrotto dalla materia. E’ la leopardiana ricerca di un contatto immediato, con l’Infinito, che, a guisa di un vero e proprio “Satori”, sappia immedesimare l’animo umano, con il continuo fluire di quell’onnipresente Apeiron/Infinito, che contrasta in modo stridente e dolce allo stesso tempo, con la caducità delle umane cose e del mondo che sta loro attorno. E’ la malattia mentale, la schizofrenia nella fattispecie, vista quale stadio di proiezione dell’animo umano verso dimensioni “altre”, proprio a causa della frantumatoria rifrazione dell’ IO cartesiano, che ne sta alla base. 
E’ la Gnosi che di sé permea l’intera narrazione di Citati, la cui magica abilità sta nel portare esempi e vicende tra loro apparentemente lontane e scollegate,nel tempo come nello svolgimento, ma tutte egualmente accomunate dal continuo intersecarsi con una realtà “altra” che esce ed entra nelle umane cose a piacimento, esaltando e mortificando, lasciando intravedere e celando, spalancando prospettive e chiudendosi in sé, lasciando nello sgomento protagonisti e spettatori. L’unica possibilità che, a questo punto, a detta del Citati, rimane all’uomo, è quella di Egli farsi narratore di quegli eventi. Ulisse, Apuleio, Plutarco, Sant’Agostino, Dante, Cristobàl de La Casa, Mozart, Leopardi e tutti gli altri, attraverso la narrazione, si fanno interpreti di quella heideggeriana esigenza di aprire l’uomo alla dimensione dell’Essere, facendone il “pastore” di quest’ultimo. 
E così se, due modalità di pensiero tanto lontane e differenti, quali quella Gnostica, disperatamente dualista ed emanazionista “par excellence”, da un lato, e dall’altro, quella heideggeriana, antimetafisica ed immanentista, sia pur in un ambito “neo parmenideo”, qui trovano un comune terreno su cui andare a collimare; in un altro ambito, quello della metastoria, la dimensione del mito e dell’insolito viene qui a coincidere ed intersecarsi con quella della Storia e della vita vissuta, senza soluzione di continuità. Ed in quel suo stesso manifestarsi quale narratore e “pastore” dell’Essere, l’individuo vede riunirsi in sé l’ ”archè” della dimensione mitica, in Occidente inaugurata da Ulisse il narratore ed il viaggiatore, quale figlio di quell’Hermes/Mercurio, nel ruolo di 
Colui che fa dell’uomo un essere dal “multiforme ingegno”, e quella dimensione meramente filosofica, rappresentata dal proiettarsi verso la dimensione di quel nietzschiano “Oltreuomo/Superuomo”, aperto alle dimensioni di un Essere che nella sua Molteplice natura di Tutto è Uno e viceversa, perfettamente rappresentato e condensato in quell’ “En Kài Pan”, a cui tanti filosofi, da Herder, Fichte, Hegel e tanti altri ancora, si sono richiamati. Così, per mano di uno scrittore, l’Occidente finisce, ancora una volta, per rivelarsi a noi in tutta la sua peculiare contradditorietà di “magnum misterium” e di inestricabile ed affascinante “coincidentia oppositorum”.
Umberto Bianchi 



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