Fin dal 1600 era stata ipotizzata una natura ondulatoria della luce, in analogia, ad esempio, con le onde sonore che si propagano nell’aria e le onde che si propagano nei liquidi che hanno subito una perturbazione (come quando ad esempio si butta un sasso in uno stagno, o il vento, o un terremoto provocano le onde del mare). Principale artefice di questa teoria era stato il grande fisico olandese Huygens, mentre Newton, pur non negando la possibilità di natura ondulatoria della luce, ne aveva sottolineato soprattutto il carattere corpuscolare. Inoltre, fin dall’antichità si era supposto che la luce si diffondesse con una certa velocità, che però era stato impossibile misurare per l’inadeguatezza dei mezzi tecnici dell’epoca. Il primo a misurare la velocità della luce in circa 225.000 km al secondo era stato il danese Rømer, anch’egli nel 1600, seguito da Huygens che aveva calcolato un valore più esatto di circa 300.000 Km al secondo(1).
All’inizio del 1800 si riteneva che, analogamente a quanto succedeva per gli altri tipi di onde, le onde luminose si propagassero con il supporto di un mezzo materiale invisibile chiamato “etere luminifero”. Anche il grande fisico francese Fresnel (N. 70), che aveva definitivamente messo a punto le equazioni caratteristiche delle onde luminose, era d’accordo con questa teoria. Si riteneva assurdo che le onde si potessero propagare nel vuoto.
Il fisico americano Albert Abraham Michelson (1852-1931) decise di effettuare nel 1881 un esperimento in merito, sfruttando un’apparecchiatura di grande precisione da lui messa a punto chiamata “interferometro”. L’esperimento si basava sulla creazione di due raggi di luce ricavati da un raggio inizialmente unico. I raggi, dopo essere stati separati ed aver percorso tratti uguali, ma di diversa direzione (il primo nella stessa direzione di spostamento della Terra ed il secondo in direzione perpendicolare), erano poi nuovamente riuniti. Essi proiettavano su uno schermo delle figure caratteristiche dette di interferenza, nate dall’interazione tra i due raggi ormai sfasati tra loro per aver percorso tratti in direzioni diverse rispetto ad sistema in movimento. Se, come si pensava, la Terra si stava muovendo alla velocità di 30.000 Km al secondo all’interno dell’etere, considerato come riferimento fisso, allora ruotando lo strumento in varie direzioni rispetto alla direzione di spostamento della Terra, la velocità della luce sarebbe cambiata in accordo con le “trasformazioni galileiane” (equazioni che servono a convertire le grandezze fisiche meccaniche da un sistema di riferimento ad un altro sistema che si muova rispetto al primo di moto rettilineo ed uniforme), proprio come la velocità di un passeggero su un treno in corsa varia rispetto ad un sistema di riferimento esterno fisso a seconda che il passeggero si muova nello stesso senso del treno o in senso opposto. Di conseguenza si sarebbero dovute avere figure di interferenza diverse(2).
L’esperimento dette invece un risultato completamente negativo. Esso fu ripetuto nel 1886 dallo stesso Michelson in collaborazione con Edward Williams Morley (1838-1923) in condizioni molto più affidabili, sfruttando una lastra di pietra galleggiante su un bagno di mercurio liquido per evitare vibrazioni, ma il risultato fu lo stesso. Se ne poteva dedurre che, o il presunto etere si muoveva insieme alla Terra, o non esisteva nessun etere fisso, rispetto al quale costituire un sistema di riferimento fisso universale (coincidente con lo “spazio assoluto” di Newton)(3).
Negli anni precedenti altri fenomeni relativi alle radiazioni luminose avevano creato problemi di interpretazione ai fisici. Nel 1852 il francese Hyppolite Fizeau (1819-1896) aveva constatato che la velocità della luce in una corrente d’acqua in movimento era intermedia tra la velocità nel vuoto e quella nell’acqua, fatto risultato inspiegabile. Si era poi constatato che le note quattro equazioni dell’elettromagnetismo di Maxwell (N. 81) – basate sulla propagazione di onde elettromagnetiche, di cui le onde luminose sono solo un caso particolare – non obbedivano - neanch’esse - alle semplici “trasformazioni galileiane”.
E’ merito del grande fisico olandese Hendrik Antoon Lorentz (1851-1901) aver dato una prima risposta ai sorprendenti fenomeni illustrati in precedenza.
Lorentz si era già distinto per aver aggiunto una quinta equazione alle quattro equazioni di Maxwell che non aveva previsto il caso di una carica elettrica concentrata e discreta che traversasse il campo elettromagnetico. Lorentz, tenendo conto sia del tipo di fisica sviluppato da Maxwell (che è una fisica del “continuo”), sia del modello fisico sviluppato dall’allievo e collaboratore del grande Gauss, Wilhelm Edward Weber (N. 72-81), che è basato su flussi di cariche concentrate che agiscono a distanza, affermò che la forza che si esercita su una carica che traversi un campo elettromagnetico alla velocità “v” è data dall’espressione: F = q(E + vxB), dove “q” è la carica, ed E e B sono rispettivamente i valori del campo elettrico e di quello magnetico (intesi come campi “vettoriali”, cioè dotati di senso e direzione). F è detta “Forza di Lorentz” ed è sempre associata alle equazioni di Maxwell per descrivere il campo elettromagnetico.
Tornando alla questione della velocità della luce nel vuoto, il grande fisico olandese già nel 1892 aveva elaborato delle equazioni definite poi nel 1904 dal grande matematico francese Poincarè “Trasformazioni di Lorentz”. Lo stesso Poincarè poi le ampliò e generalizzo nel 1905-1906. Queste trasformazioni modificavano le precedenti analoghe “Trasformazioni Galileiane” in modo tale da renderle compatibili con le equazioni di Maxwell, e le esperienze di Michelson e di Fizeau. Lorentz (come poi anche Einstein e Poincarè, con cui fu in continuo contatto) dimostrò che, se la differenza di velocità tra due sistemi di riferimento non era trascurabile rispetto alla velocità della luce, bisognava introdurre dei fattori correttivi che tenevano conto della velocità (costante) della luce. In questo modo le famose equazioni di Maxwell (N. 81), che variano rispetto alle trasformazioni di Galilei, diventavano “invarianti” rispetto alle trasformazioni di Lorentz. Ancora oggi i campi elettromagnetici o gravitazionali che rispettano le trasformazioni di Lorentz sono detti campi “covarianti”. Nelle sue trasformazioni (che possono essere interpretate matematicamente anche come rotazioni in uno spazio a 4 dimensioni) Lorentz ipotizzò che le dimensioni degli oggetti variassero, accorciandosi nel senso del moto (poi Einstein dimostrerà che anche il tempo scorre diversamente per i due osservatori posti in sistemi di riferimento diversi). In caso di piccole differenze di velocità rispetto alla velocità della luce (cioè in tutti i casi che si verificano nella nostra vita di tutti i giorni) questi effetti sono trascurabili, e rimangono valide con buona approssimazione le trasformazioni di Galilei.
Molte delle considerazioni fatte da Lorentz si trovano anche nei lavori di un ricercatore inglese, Oliver Heaviside (1850-1925) e di due ricercatori irlandesi: Joseph Larmor (1857-1942) e George Francis Fitzgerald (1851-1901).
Infine tutta la materia fu sintetizzata da Einstein nella Teoria della Relatività Ristretta (o “speciale”) che è stata - giustamente – attribuita ad Einstein perché il grande fisico tedesco, in particolare nello scritto “Sulla Dinamica dei Corpi in Movimento” del 1905, seppe trasformare le equazioni di Lorentz e Poincarè in una teoria fisica coerente, come meglio vedremo quando ci interesseremo della sua opera. Più tardi Einstein, pur non avendo voluto mai riconoscere pienamente il contributo decisivo dato dall’esperimento di Michelson e Morley per lo sviluppo delle sue teorie (preferendo piuttosto riferirsi alle equazioni di Maxwell), ne interpretò il risultato nel senso che la luce aveva la stessa velocità nel vuoto qualsiasi fosse la sua direzione ed il sistema di riferimento scelto(3). Questa asserzione è alla base della teoria della relatività ristretta, profondamente innovatrice nei riguardi della fisica tradizionale di Galilei e Newton.
L’importanza rivoluzionaria dell’esperimento è stata comunque riconosciuta ampiamente dalla comunità scientifica internazionale e ciò fruttò a Michelson il premio Nobel per la fisica, se pur in ritardo, nel 1907. Anche Lorentz fu premio Nobel per la fisica nel 1902 insieme all’altro fisico olandese Zeeman, ma solo per aver scoperto l’Effetto Zeeman, che è la separazione delle linee degli spettri atomici dovuta all’azione dei campi magnetici. Solo in seguito si scoprì che l’effetto è dovuto all’azione del campo magnetico sulla rotazione, o “spin”, degli elettroni presenti nell’atomo, come vedremo in un prossimo numero dedicato ai modelli atomici.
Vincenzo Brandi
L. Geymonat, “Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico”, Garzanti 1970 .
C. Singer, “Breve Storia del Pensiero Scientifico”, Einaudi 1961
J. Bernal, “Storia della Scienza”, Editori Riuniti, Roma 1967
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