Unità d'Italia rivisitata e distruzione morale economica e politica del centro-sud



Il 5 maggio del 1860, un'accozzaglia di 1162 straccioni, al comando di
Giuseppe Garibaldi, che Cavour aveva coinvolto al solo scopo di
disfarsene, s'imbarca, senza munizioni né polvere da sparo, sui vapori
Piemonte e Lombardo alla volta di Marsala, dove sbarcano l'11 di
maggio. All'alba di questo infausto giorno, sarebbero bastate due
"palle" di cannone e, noi non saremmo qui a discutere, mentre i Savoia
avrebbero "pianto" i 1089 straccioni in rosso (se ne erano persi
alcuni strada facendo). Mercé i tradimenti e le inettitudini
dell'esercito borbonico e dei suoi ufficiali, senza tirarla per le
lunghe, il futuro eroe dei due mondi, il giorno 7 settembre 1861 fa il
suo "trionfale" ingresso in Napoli. Mette conto, vista la solennità
dell'evento, lasciare la parola a ben più erudite e geniali menti:
Era la sera del 27 giugno del 1860, Don Liborio mi fece uscire dal
gabbio e mi disse: - Tore, fra giorni qui a Napoli arriverà Giuseppe
Galibardo, deve trovare una città pulita ed ordinata. Io vi metto a
libertà e vi nomino responsabile della pubblica sicurezza. Voi dovete
ripulire la città dai delinquenti. Ve la sentite? - Io risposi di si,
mi misi una coccarda tricolore sul cappello e cominciai il mio nuovo
lavoro. Con Iossa, Capuano e Mele facemmo piazza pulita. Facemmo
fuori, a pugnalate, Peppe Aversano, quello era un fetentone, un infame
spia del direttore della polizia Michele Ajossa, si meritava quello e
pure altro. Quindi ce facettemo all' ispettore della Polizia Perrelli.


Veramente non fui io, ma Ferdinando Mele che gli tirò qualche
coltellate mentre l'ispettore si trovava semi svenuto su una carretta.
Infine, facemmo 'na bella mazziata all' ispettore Cioffi, che a stento
salvò la pelle. La cosa più bella, però, fu la mazziata che si buscò
l'ambasciatore francese, un certo Anatole Brenier. Neh, quello si
atteggiò pure: sono l'ambasciatore francese. Ah, si e tiè. Due colpi
di bastone in testa e la mmommora si aprì in due parti. Se non era per
Ciccio Carfora, 'o cucchiere, che lo portò in salvo, faceva 'na brutta
fine. Poi conquistammo tutti i commissariati e la gente ci dava tanti
soldi, ci pagava. Ci dovevano pagare, se no significava che erano
nemici della patria italiana, quindi mazzate e poi in galera. Il 7
settembre di quell'anno, zi' Peppe entrò in Napoli, me lo ricordo come
se fosse adesso, erano più o meno l'una. Ci fu una carovana di
carrozze. Il corteo era guidato da Michele <<'o chiazziere>>, che era
uno che ritirava le tangenti dagli ambulanti della piazza e da <<o
schiavuttiello>>. Galibardo stava sulla prima carrozza con Demetrio
Salazaro, il frate francescano Giovanni Pantaleo, Agostino Bertani e
il conte Giuseppe Ricciardi; sulla seconda c'eravamo io, il
commissario Iossa, Capuano e Mele; sulla terza mia cugina Marianna,
detta 'a Sangiuvannara, tutta agghindata come un albero di Natale, … e
poi c'erano "Rosa 'a pazza", "Luisella 'a luma 'ggiorno" e
"Nannarella 'e quatte rane" . Si può dire che abbiamo tenuto a
battesimo l'Italia, o no?.


Questo eccezionale cronista era "nientepopodimenoche" Salvatore De
Crescenzo, detto Tore 'e Criscienzo, il più grande e sanguinario
camorrista dell'epoca, che un governo frettoloso ed irresponsabile
aveva posto, quale responsabile, nei palazzi della Pubblica Sicurezza
di Napoli. Fautore di cotante scelte fu tale Liborio Romano da Patù.
Il suo curriculum: nel 1820 destituito dall'insegnamento di Diritto
Civile e Commerciale all'Università Federico II; sempre nel 1820 in
esilio all'estero; nel 1848 tornò a Napoli e lottò per la concessione
della costituzione da parte del re Ferdinando II di Borbone; poi
arrestato e rispedito al confino; nel 1860 venne nominato dal re
Francesco II prefetto di Polizia; nel luglio dello stesso anno venne
nominato ministro di polizia ma, nel frattempo, era anche
collaboratore di Cavour; nel 1861 ministro degli interni nel
provvisorio regno di Napoli perché aveva dato aiuto a Garibaldi e,
quindi, il suo contributo allo sterminio di migliaia di cittadini
napoletani; fu deputato del Regno d'Italia dal 1861 al 1865. Quando si
dice la coerenza!


Purtroppo, però, per il nostro Tore, a Napoli arrivò Silvio Spaventa e
per la camorra furono giorni duri che culminarono in uno sciopero
generale dei camorristi, esattamente il 26 aprile del 1861. A Silvio
Spaventa subentrò Filippo De Blasio, un avvocato di Guardia
Sanframondi. Divenne anche direttore del ministero degli interni di
Cialdini. Sotto Farini era già stato prefetto di polizia. Già il
governo Farini - Minghetti aveva dichiarato guerra aperta alla camorra
e, tramite Aveta, furono arrestati più di trecento camorristi. Sulla
base di questi arresti, il generale La Marmora, scrisse una lettera al
governo, nella quale sollecitava l'adozione di misure speciali per
combattere la piaga della camorra. Tra le altre cose, chiedeva la
creazione di carceri speciali e possibilmente lontano dalla città, in
Sardegna. Precedendo, in questo, di oltre un secolo la norma del 41
bis. Un anno dopo, il 15 agosto del 1863 fu approvata la legge Pica.
Di fatto, con i nove articoli di questa legge, venne introdotto il
criterio del sospetto ed il libero arbitrio, in base al quale bastava
una semplice delazione, semmai dovuta a rancori personali, per
provocare un arresto. Infatti la legge, all'articolo 5, così recitava
"Il Governo avrà inoltre la facoltà di assegnare per un tempo non
maggiore di un anno un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabodi, alle
persone sospette, secondo la designazione del Codice penale, non che
ai camorristi, e sospetti manutengoli, dietro parere di Giunta
composta dal Prefetto del Tribunale, del Procuratore del Re e di due
consiglieri provinciali"

Comunque, nel gennaio del 1861 l'Italia, parafrasando Cavour, era
"fatta". Ma era stata cosa buona e giusta? Garibaldi così si confida,
in una sua lettera ad Adelaide Cairoli, nel 1868:
"Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono
incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante
ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di
essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e
suscitato solo odio".

Ne'l libro "L'ordine nuovo" di Antonio Gramsci, del 1920, si legge che
: " Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a
ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando,
seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono
d'infamare col marchio di briganti." Potremmo liquidarla così. Ma non
sarebbe giusto. La cosa è un tantino più complessa. Non voglio
elencare qui le lodi o le infamie che, tanti storici, si sono
scomodati a tessere ora a favore dell'uno, ora dell'altro
schieramento. Briganti contro piemontesi e viceversa. Dov'è la
tragedia? La tragedia è nel mezzo. Il popolo del Sud. Gli agricoltori,
i coloni, i piccoli artigiani ed i diseredati. Ecco la tragedia. Un
popolo che era incudine del martello piemontese se aiutava i briganti
e incudine del martello dei briganti se aiutava i piemontesi. Ecco il
bollettino di guerra:

8.964 fucilati, 10.604 feriti, 6.112 prigionieri, 64 sacerdoti uccisi,
22 frati uccisi, 60 ragazzi uccisi, 50 donne uccise, 13.529 arrestati,
918 case incendiate, 6 paesi dati a fuoco, 3.000 famiglie perquisite,
12 chiese saccheggiate e 1.428 comuni sollevati. Giova ricordare che
il brigantaggio non era un fenomeno post unitario, ma trovava le sue
radici già nel periodo napoleonico, all'epoca di Murat e delle
repressioni del colonnello francese Manhès. Seguirono, poi, quelle di
Ferdinando I, per mano del generale inglese Church, all'indomani della
restaurazione e che videro la cattura, e la conseguente eliminazione,
di Ciro Annichiarico, detto Papa Ciro o Papa Ggiru, fucilato il 7
febbraio del 1817 a Francavilla d'Otranto. Chi erano veramente Carmine
Crocco, Vincenzo Petruzziello, Pasquale Romano, Michele Caruso e
tantissimi altri? Patrioti o squallidi delinquenti? Senza scomodare
illustri studiosi e storici, io taglio corto e dico: squallidi
delinquenti che approfittando di sentimenti patriottici, miravano al
potere ed all'arricchimento personale, incuranti delle migliaia di
vittime, tra contadini e popolani che si lasciavano alle spalle.
Questa povera gente, da secoli asservita ai ricchi proprietari
terrieri, periva in modo esponenziale o perché amici delle truppe del
generale Cialdini, e quindi trucidati dai briganti, o perché amici di
Crocco e quindi massacrati da Enrico Cialdini. Vale la pena, però
soffermarci un attimo su uno di questi personaggi: Carmine Crocco,
detto Donatelli. Per descrivere fisicamente il Crocco, ci affidiamo
allo studio del professore Pasquale Penta dell'Università di Napoli
che, nelle riviste mensili di psichiatria forense (numeri 8 e 9
dell'agosto e settembre 1901), disse ciò sul brigante:

"Alto della persona 1,75 cm, robusto, svelto, con occhio indagatore,
sospettoso, attento. Non vi è nel suo corpo di straordinario che la
grandezza e la sporgenza dei seni frontali e delle arcate orbitali, e
un cranio rispetto alla statura non molto grande (55 cm di
circonferenza massima). La circonferenza toracica è di 92 cm, la
persona è ancora dritta e resistente, dopo una vita agitata, piena di
stenti, di sofferenze, di timori e di pericoli; è una intelligenza non
ricca al certo, nè libera da superstizioni (porta il rosario al collo,
amuleti), ma chiara, ordinata e sicura. Non è andato a scuola, ma
nella sua vita di pastore, un po' da sé, un po' aiutato, imparò a
leggere e scrivere, in tal modo da poter esprimere i suoi pensieri
sulla carta e facendosi comprendere molto bene "

Carmine Crocco, detto Donatelli, nacque il 5 giugno 1830 a Rionero in
Vulture. Dalla sua attività di bracciante, in brevissimo tempo divenne
il capo e comandante incontrastato di un esercito che contava oltre
duemila uomini. Il suo valore e la sua spregiudicatezza gli avvalsero
il titolo di Generale dei briganti. Combattè, dapprima al fianco di
Giuseppe Galibardi e poi contro l'esercito sabaudo ed al fianco della
resistenza borbonica ed alla fine per se stesso. Le sue azioni di
guerriglia e scorribande durarono per oltre quarant'anni. Nell'agosto
1862, il delegato di Pubblica Sicurezza di Rionero, Vespasiano De
Luca, volle aprire una trattativa di resa con Crocco e Caruso. De Luca
promise ai briganti di evitare la condanna a morte se giudicati da un
tribunale civile, mentre per Crocco si prospettava il confino in
un'isola stabilita dal governo sabaudo. L'esito dell'accordo si rivelò
negativo. Nel marzo 1863 le sue bande (tra cui quelle di Ninco Nanco,
Caruso, Caporal Teodoro, Sacchetiello e Malacarne), attaccarono un
gruppo di cavalleggeri di Saluzzo, guidato dal capitano Bianchi, e 15
di loro furono picchiati ed uccisi. Crocco fu sconfitto sull'Ofanto
dall'esercito e dalla Guardia Nazionale inviati dal governo regio. Nei
giorno successivi tutti i paesi insorti e occupati furono
riconquistati, ristabilendo l'autorità sabauda.

Crocco e la sua banda vissero nei boschi sperando in un provvedimento
di clemenza. La sua egemonia era ormai svanita e del suo vasto
esercito ne rimase solo una manciata di uomini. Con l'arresto di
Crocco, molti uomini sotto il suo comando come Caporal Teodoro, Donato
"Tortora" Fortuna, Vincenzo "Totaro" Di Gianni e Michele "Il Guercio"
Volonnino furono giustiziati o costretti ad arrendersi, decretando la
fine del brigantaggio nel Vulture-Melfese. Carmine fu trasferito in
galera a Marsiglia, poi spostato a Paliano, a Caserta, a Avellino per
poi finire a Potenza. La sua fama era tale che, durante i suoi
passaggi da una prigione all'altra, numerose persone accorrevano per
poter vederlo di persona. Durante il processo tenuto presso la Corte
d'Assise di Potenza, il Procuratore generale Camillo Borelli accusò
Crocco dei seguenti reati: 62 omicidi consumati, 13 tentati omicidi,
1.200.000 lire di danni bellici e altri crimini come grassazioni ed
estorsioni. Carmine Crocco venne condannato a morte l'11 settembre
1872 ma la pena fu poi commutata nei lavori forzati a vita. Venne
prima assegnato al bagno penale di Santo Stefano, ove iniziò a
scrivere le sue memorie il 27 marzo 1889 (raccolte in seguito nel
libro "Come Divenni Brigante") e poi nel carcere di Portoferraio, in
provincia di Livorno, ove passò il resto della sua vita fino al 18
giugno 1905, data della sua morte.

E qui ritorna prepotente il coinvolgimento, in positivo ed in negativo
del popolo meridionale. Ecco, il popolo, quel popolo che va
rivalutato, quel povero popolo che ancora una volta pagava sua misera
condizione di povertà ed ignoranza. Gramsci, Salvemini, Pisacane e lo
stesso Cattaneo, hanno sprecato fiumi d'inchiostro sulla non
partecipazione delle masse al processo unitario. Tutto quello che è
accaduto si è svolto nella quasi totale ignoranza dei contadini, i
quali erano, artatamente, mossi ora dagli intellettuali del
Risorgimento, ora dai brigati ed in ultimo, ma non ultimo, l'intimo
convincimento che l'unità avrebbe apportato ricchezza e benessere e
non già lacrime e sangue. Il popolo del Sud, popolo di un Dio minore
che fece di tutte le pene, del martoriato Meridione, un sol fardello
che, ancora oggi, porta sulle spalle a guisa di soma. E non è detto
che questa soma debba essere sinonimo di somaro. Ma tali ci ritengono
gli "italiani". Ma quali italiani? Quelli del regno di Sardegna, del
regno sabaudo di Toscana, Emilia e Romagna? Forse quelli che Cavour
diceva di voler fare? Quali? Quale coscienza etnica? Forse quella che
fu enunciata nella dichiarazione Universale dei Diritti Collettivi dei
Popoli tenuta a Barcellona, il 27 maggio del 1990, nella quale si
affermava che "Ogni collettività umana avente un riferimento comune ad
una propria cultura e una propria tradizione storica, sviluppate su un
territorio geograficamente determinato [...] costituisce un popolo.
Ogni popolo ha il diritto di identificarsi in quanto tale.

Ogni popolo ha il diritto ad affermarsi come nazione. "? No, questa
coscienza la nostra Italia non l'ha mai avuta. Gli eccidi dei
piemontesi, le scorribande di Carmine Crocco, gli studi antropologici
di Cesare Lombroso (ridicola la sua perizia sul brigante Vilella), non
fecero altro che alimentare odio da una parte e disprezzo dall'altra.
L'antropologo e criminologo veronese ma di origini ebraiche, Marco
Ezechia Lombroso detto Cesare, era assertore della tesi dell'uomo
delinquente nato o atavico. Influenzato dalla fisiognomica (disciplina
pseudoscientifica che pretende di dedurre i caratteri psicologici e
morali di una persona dal suo aspetto fisico, soprattutto dai
lineamenti e dalle espressioni del volto) e da Darwin, era convinto
che tutti i delinquenti presentavano caratteristiche fisiche vicine ai
primati infraumani (scimmie). Sezionò e studiò molti corpi di briganti
del Sud e moltissimi crani sono conservati nel museo, a lui
intitolato, a Torino. Se ne deduce che per il dottor Cesare gran parte
dei meridionali sarebbero stati più a loro agio nelle savane africane
piuttosto che nella civilissima ed erudita pianura padana. Molti la
pensavano così, infatti, il macellaio di stato, il generale Enrico
Cialdini, parlando del meridione e dei suoi abitanti, così si
esprimeva: " Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a riscontro
di questi cafoni, sono latte e miele."

I vari governi che si succedettero provvidero, con solerzia e
diligenza, al saccheggio ed all'esproprio coatto di tutte le ricchezze
del defunto Regno borbonico. Basti pensare che all'indomani
dell'unità, l'erario del Regno delle due Sicilie contava un saldo
attivo di oltre 443 milioni, il resto d'Italia (Roma compresa) appena
225 milioni. Il nuovo governo provvide, tempestivamente,
all'unificazione del debito pubblico. Riguardo a ciò, Francesco
Saverio Nitti osservò che, mentre il Regno delle Due Sicilie presentò
un debito di circa 35 milioni, il Piemonte, molto più piccolo per
superficie e per popolazione, sia per le spese di guerra che per gli
investimenti pubblici del Cavour, ne aveva circa 61 milioni di lire,
ovvero aveva un debito che, calcolato pro-capite, era circa quattro
volte maggiore di quello del Regno delle Due Sicilie; inoltre, il 65%
di tutta la moneta circolante in Italia era del Sud. Questa gran massa
di danaro, naturalmente, sotto forma di cartolarizzazioni e nuove
imposte si trasferì al nord, con conseguente impoverimento del Sud.
Cosa restava a questo popolo martorizzato se non l'emigrazione verso
lontani lidi? Gran parte dei giovani tra i meridionali, tra i 21 ed i
50 anni, dopo essere stati deportati al nord, vennero coscritti per
lungo tempo dall'esercito piemontese, ai contadini furono negate
perfino le sementi. La fame, la miseria e l'indigenza regnavano
sovrane in quelle terre che erano state l'orgoglio di un Regno.
Scappare, emigrare, fuggire lontano, questo era il Verbo, abbandonare
la terra natia, la patria, la nazione.

Cosa intende per nazione, signor Ministro? È una massa di infelici?
Piantiamo grano ma non mangiamo pane bianco. Coltiviamo la vite, ma
non beviamo il vino. Alleviamo animali, ma non mangiamo carne. Ciò
nonostante voi ci consigliate di non abbandonare la nostra Patria? Ma
è una Patria la terra dove non si riesce a vivere del proprio lavoro?
(Anonimo del XIX sec.)
Ma, se Atene piange, Sparta non ride. Anche la città di Napoli,
capitale di un Regno, culla di civiltà, teatro dell'illuminato Stupor
mundi, palcoscenico di arti drammatiche, visive e musicali; terra
natia di musicisti, intellettuali ed uomini di scienza. Terra nella
quale si suonava il violino mentre altrove si praticava la
transumanza. Le industrie del napoletano prosperavano, così come il
"made in Naples". L'alta moda era ad appannaggio dei napoletani, così
come l'architettura e l'ingegneria, la tecnologia e la cantieristica.
Napoli capitale delle culture divenne suburbio della coltura.

Intellighenzie somme hanno studiato la questione meridionale e le
cause della sua arretratezza , ora con imparzialità ora con
preconcette idee.

Giuseppe Massari e Stefano Castagnola, a capo di una commissione
parlamentare istituita tra il 1862 ed il 1863 evidenziarono, come
cause del brigantaggio, la povertà e l'indigenza, nonchè l'invasione
piemontese fossero concause dei disordini e degli eccidi. Stefano e
Leopoldo Jacini (zio e nipote) evidenziarono la necessità di creare
infrastrutture e il bisogno di creare e formare una classe di picoli
proprietari terrieri; Franchetti, in uno con Sonnino e Cavalieri, nel
1876 posero l'accento sull'ignoranza e la corruzione evidenziando,
però, l'urgenza di una riforma agraria. Gaetano Salvemini ne attribuì
le cause all'arretratezza storica; Antonio Gramsci lesse il ritardo
del sud attraverso il prisma della lotta di classe. Studiò i
meccanismi in corso nelle rivolte contadine dalla fine dell'Ottocento
fino agli anni venti, spiegò come la classe operaia fosse stata divisa
dai braccianti agricoli attraverso misure protezionistiche prese sotto
il fascismo, e come lo stato avesse artificialmente inventato una
classe media nel sud attraverso l'impiego pubblico. Auspicava la
maturazione politica dei contadini attraverso l'abbandono della
rivolta fine a se stessa per assumere una posizione rivendicativa e
propositiva, e sperava una svolta più radicale da parte dei proletari
urbani che dovevano includere le campagne nelle loro lotte. Giustino
Fortunato effettuò vari studi in materia, e pubblicò nel 1879 il più
conosciuto di essi, in cui esponeva gli svantaggi fisici e geografici
del sud, i problemi legati alla proprietà della terra, e il ruolo
della conquista nella nascita del brigantaggio.

Era decisamente ostile ad ogni tipo di federalismo, e sebbene
difendesse la necessità di redistribuire la terra e di finanziare
servizi indispensabili come scuole e ospedali, fu ritenuto da alcuni
interpreti pessimista per la sfiducia che mostrava nei confronti delle
classi dirigenti del paese nell'affrontare la questione meridionale.
Benedetto Croce rivide in chiave storiografica le vicende del
Mezzogiorno dall'Unità fino al Novecento, mettendo l'accento
sull'imparzialità delle fonti. Il suo pensiero divergeva parzialmente
da quello del suo amico Giustino Fortunato riguardo all'importanza da
attribuire alle condizioni naturali in riferimento ai problemi del
Mezzogiorno. Riteneva infatti fondamentali le vicende etico-politiche
che avevano condotto a quella situazione. Entrambi ritenevano
fondamentale la capacità delle classi politiche ed economiche,
nazionali e locali, per affrontare e risolvere la questione. La sua
Storia del Regno di Napoli, del 1923, rimane il punto di riferimento
essenziale per la storiografia posteriore, sia per i discepoli che per
i critici. Guido Dorso rivendicò la dignità della cultura meridionale,
denunciando i torti commessi dal nord ed in particolare dai partiti
politici. Effettuò esaurienti studi sull'evoluzione dell'economia del
Mezzogiorno dall'Unità fino agli anni trenta e difese la necessità
dell'emergenza di una classe dirigente locale. Rosario Romeo si oppose
alle tesi rivoluzionarie ed evidenziò le differenze esistenti, prima e
dopo il Risorgimento, fra la Sicilia ed il resto del sud. Attribuì i
problemi del Mezzogiorno a tratti culturali, caratterizzati
dell'individualismo e lo scarso senso civico, piuttosto che a ragioni
storiche o strutturali. Paolo Sylos Labini riprese tesi che vedevano
nell'assenza di sviluppo civile e culturale le origini del divario
economico. Considerò la corruzione e la criminalità come endemiche
della società meridionale, e vide l'assistenzialismo come principale
ostacolo allo sviluppo. Ma tutte queste eccelsi storici e pensatori
non alleviarono le pene degli uomini del Sud. Questi uomini, figli di
una terra teatro d'incontro di culture normanne, sveve, angioine ed
aragonesi, andavano al massacro,a guisa di masochistici schiavi, in
terre straniere, dove venivano disprezzati ed evitati come le peggiori
bestie, come reietti indegni di esistere. Questo marchio indelebile è
ancora tatuato sulla nostra pelle, così come avvenne un secolo dopo
con la martoriata popolazione ebraica.

Arbeit macht frei, questo era l'ironico messaggio che accoglieva i
deportati nei campi di concentramento nazisti durante la seconda
guerra mondiale ed è ancora questo vogliono incidere, col fuoco, sulla
pelle della stragrande maggioranza delle popolazioni del Sud. Quelle
popolazioni che col sudore del lavoro ripagano il sangue del Figlio.
Uomini che, in nome di una patria che non li vuole, anzi peggio li
detesta, si sono immolati alla libertà ed alla terra. Camorra,
Ndrangheta, Sacra corona unita, Mafia, sono figli di uno Stato
assente, anzi mai esistito. Per decenni hanno chiuso gli occhi, hanno
fatto finta di non vedere. Faceva loro comodo.

Ma, l'erba cattiva attecchisce velocemente, non ha bisogno né di
concime né di acqua, si autoalimenta, prospera e le sue propaggini si
sono estese sulle terre floride dell'inesistente padania. Ora brucia,
anche se è foriera d'ulteriore ricchezza per i figli del signore di
Giussano. I luoghi comuni assurgono a ruolo di dogma; sud,
meridionalismo e napoletano hanno conquistato il Guinnes dei sinonimi
negativi. Eè triste, ma è così. Quindi, a dispetto del conte Camillo,
l'Italia sarà pure stata fatta, ma gli italiani no e, di questo passo,
non si formeranno mai. Ed allora? Ok, se siamo indesiderati ospiti,
andiamo via. Si, andiamo via ma restituiteci il mal tolto. Cogliamo
l'occasione dei 150 anni di falsa unità per stilare un bilancio
socio-economico che dia a Cesare quel che è di Cesare, dopodiché
tornate pure alla transumanza, bestemmiatori dal rutto libero,
adoratori di un Dio inesistente al quale ogni anno santificate
ridicole ampolle d'acqua; millantatori e creatori di una terra che non
esiste, voi che praticate ostracismo e disprezzo verso le genti
meridionali. Voi indegni che, dopo aver prosciugato la vostra fonte di
ricchezza, pretendete di cambiarne il nome da Eldorado in Postribolo.

Alessandro Pellino


Fonte: http://www.segretidipulcinella.it/sdp33/temp_04.htm

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