Vita e morte nel seme - Intervento di Alberto Meriggi




Ringrazio l’amico Paolo d’Arpini per avermi invitato ancora una volta a partecipare ad una iniziativa del Circolo Vegetariano VV.TT. di Treia. La mia presenza non attiene alla sfera delle competenze nel settore ma è motivata solo dal legame di stima e amicizia con Paolo il quale desidera avere in questi incontri anche una voce che tenti di coniugare le tematiche di volta in volta trattate, con la storia, la memoria e le tradizioni locali. Io nella vita, facendo lo storico per mestiere ed essendo treiese, non ho potuto fare a meno di addentrarmi con i miei studi nel passato della mia città e delle mie zone e qualche volta sono riuscito a farlo diventare storia, cioè conoscenza.

Confidando forse troppo nel mio sapere e nelle mie capacità, proverò ad esporre qualche idea per il dibattito prendendo spunto da ricordi personali e da riscontri offerti da documenti concernenti il nostro passato locale. Il tema di questa giornata è “La Memoria è nel Seme”. 

Ho letto nel blog del Circolo una nota di Paolo d’Arpini dal titolo “La posta in gioco” nella quale egli lamenta il fatto che “da quando l’agricoltura industrializzata si è imposta come modello agricolo vincente, la legislazione europea in materia di semi è diventata sempre più restrittiva dei diritti degli agricoltori e del loro libero accesso ai semi. Allo stesso tempo ha permesso sempre di più ad una manciata di industrie multinazionali di monopolizzare il mercato”. Un aspetto estremamente interessante sul quale si potrà e si dovrà discutere. Qui il seme che cita Paolo è qualcosa di concreto, è l’organo di propagazione per eccellenza che attraverso la fecondazione porta alla pianta e al frutto: il seme della mela, il seme dell’erba, il seme del grano. Ma questo straordinario termine da sempre ha svolto un ruolo da protagonista in tantissimi altri ambiti: nella letteratura, nell’arte, come allegoria, come metafora, spesso avvicinato ad altri termini per indicare il meglio o il peggio di qualcos’altro: il perdono è il seme dell’amore, ma anche l’intolleranza è il seme dell’odio, ecc. Per non parlare della sua presenza e dell’uso nei testi sacri di ogni religione: la Bibbia, il Vangelo, il Corano ed altri, nei quali la parola seme è utilizzata in parabole, allegorie, metafore, proverbi ed esempi. Chi non conosce il Vangelo di Matteo al capitolo 13 in cui sono protagonisti i semi della zizzania e della senape e dove svolge un ruolo fondamentale il seminatore?

Anche il Corano utilizza il termine seme più volte e perfino come metafora della vita e della morte. Nel versetto 95 si legge: “Allah schiude il seme e il nocciolo: dal morto trae il vivo e dal vivo il morto”. Dunque vita e morte nel seme. Ecco un altro interessante spunto su cui discutere. Ma in questo contesto non vorrei addentrarmi più di tanto in questo tipo di riflessioni per privilegiare, invece, ciò che a tutti noi, appassionati della natura, forse più interessa: il seme reale, concreto, visto come origine di ogni forma di vita, soprattutto quella vegetale. Cioè il seme inteso come quell’organo che, gettato nel terreno, avvia un processo che fa sviluppare la vita e rigenera se stesso producendo altri semi. A me a questo punto vien voglia di lanciare una provocazione che sintetizzo in questa mia riflessione su cui potremmo discutere: a me pare che, in agricoltura e nella vita, non è tanto il seme che conta ma il terreno in cui lo si getta. E che ciò possa esser vero è stato testimoniato da tanti esempi tramandatici dalla storia anche delle nostre zone. Se è vero che un cuore duro non può far attecchire il seme dell’amore, è altrettanto vero che un terreno arido e impenetrabile non può accogliere alcun seme e in esso non può attecchire nulla. Il terreno deve essere accogliente per il seme! E qui si apre una pagina di storia millenaria legata al mondo del lavoro e della produzione. Quanta fatica nei secoli per preparare il terreno alla semina! 

La storia del lavoro ci dice che nelle nostre zone, come ovunque, da sempre fino agli inizi del Novecento tutti i lavori agricoli erano svolti con la forza delle braccia di uomini, donne e bambini, aiutati da animali e da attrezzi rudimentali. Da qualche fonte documentaria (contratti di compravendita, locazione, affitto, inventari di aziende) si evince che anche nelle nostre zone prima del Trecento non si riuscì mai ad avere un indice di resa che raggiungesse il 4 per uno: cioè ogni chicco di grano seminato (ma anche di altri cereali più poveri) solo allora riuscì a darne quattro ma, ripeto, solo dal Trecento in poi, prima il rapporto era uno a due e raramente uno a tre e i tre semi prodotti consentivano appena la sopravvivenza, perché uno serviva per seminare ancora, il secondo per mangiare, il terzo per il padrone, se non vi erano carestie che erano sempre in agguato. Il risultato del quattro per uno si ottenne attraverso un’ agricoltura di tipo forzatamente estensivo, cioè aumentando i terreni da coltivare attraverso un forte diboscamento e un sistematico attacco all’incolto. 

Non poteva essere praticata una agricoltura intensiva perché il terreno non si poteva far produrre di più in quanto non c’erano concimi al di fuori di quelli naturali, né macchinari capaci di muovere in profondità il terreno, come invece avverrà dalla fine dell’Ottocento in poi, ma a discapito della genuinità dei prodotti e di un armonico equilibrio naturale. Col passare dei secoli il rapporto tra il seme seminato e quello raccolto migliorò, ma aumentò anche la richiesta di consumo perché l’Europa, compresa l’Italia, vide un forte aumento della popolazione determinato da fattori noti che non sto qui a ripetere. In Italia si passò dai 13 milioni di abitanti del 1700 ai 18 del 1800. Negli stessi anni nello Stato pontificio la popolazione crebbe da 1.950.000 unità a 2.300.000 (più del 20%) e nelle Marche passò da 521.000 a 700.000 (più del 40%). Questa vivace crescita della popolazione accrebbe ovunque in Italia la domanda di cereali e di prodotti agricoli. Si passò in breve ad un esasperato sfruttamento della fertilità naturale dei suoli alla messa a coltura di aree marginali dirupate o argillose. Ciò provocò la riduzione delle rese unitarie e l’erosione degli spazi della proprietà collettiva e dell’allevamento ovino con vistosi fenomeni di dissesto idrologico. Ne conseguirono ovunque l’instabilità dei raccolti e l’intensificarsi delle carestie dopo quella devastante e terribile degli anni 1763-67 che costrinse torme di contadini affamati ad abbandonare i poderi per riversarsi nelle città a chiedere l’elemosina. Ma lo squilibrio tra l’aumento della popolazione e la disponibilità di prodotti agricoli stava creando problemi in tutta Europa. 

Ovunque si cercava di porre rimedio a tali problemi e soprattutto al dilagare della fame con iniziative pratiche e con progetti basati su teorie avanzate da studiosi e pensatori. Tutti conoscete la teoria del pastore protestante inglese Thomas Robert Malthus che ipotizzava un “controllo preventivo” delle nascite basato sulla castità. Secondo Malthus ciò avrebbe impedito l’impoverimento dell’umanità: se si è in meno a mangiare il cibo basta per tutti! Un’altra teoria importante fu quella fisiocratica, una dottrina economica (Francois Quesnay) che si affermò in Francia verso la metà del Settecento. Essa sosteneva che l’agricoltura era la vera base di ogni attività economica e solo essa era in grado di produrre beni, mentre l’industria si limitava a trasformarli e il commercio a distribuirli. Dunque, secondo i fisiocratici, bisognava migliorare l’agricoltura in tutti i suoi settori al fine di avere più produzione. Questa dottrina si diffuse ben presto in tutta Europa e giunse perfino a Treia dove fu abbracciata e applicata dalla locale Accademia Georgica che nel 1778 cominciò ad interessarsi di sperimentazione in agricoltura raggiungendo notevoli risultati. 

Nell’Accademia Georgica di Treia uno dei protagonisti delle sperimentazioni fu proprio il seme. Vi cito soltanto alcuni di quegli studi e alcuni risultati ottenuti. Dico subito che l’Accademia si distinse ben presto per gli studi e i tentativi di estrarre l’olio dai semi. All’epoca l’olio di oliva era costosissimo e poteva essere usato solo dalle classi signorili. Ma l’olio serviva anche come combustibile per le lampade e le luminarie. Consapevoli di tutto ciò gli accademici iniziarono sperimentazioni per ricavare olio da fonti alternative. I loro tentativi furono rivolti ai semi di girasole, di colza, di rapa, di lino e, perfino, delle “perelle delle fratte” o sanguinelle, ma ottennero ottimi risultati attraverso l’estrazione di olio commestibile dalle granelle dell’uva. Quest’ultima sperimentazione, di lì a poco, divenne una vera e propria attività commerciale. Per dimostravi l’importanza che le sperimentazioni degli accademici e i semi ebbero nell’attività agricola locale, vi leggo un brano che ho tratto dalla relazione di Fortunato Benigni, il personaggio più rappresentativo dell’Accademia di quegli anni (fine Settecento). Il Benigni scriveva: “I soci tutti, di lodevole emulazione ripieni, a gara hanno fatto per provvederci di nuovi semi, e di piante esotiche insolite ad allignare fra noi”. E quali sono stati questi semi mai visti nelle nostre zone? Ebbene, furono quei semi ricercati e fatti venire da lontano per impiantare quelle nuove colture fino ad allora non praticate in zona, ma ritenute assolutamente necessarie per migliorare l’agricoltura nel suo complesso. L’Accademia importò soprattutto semi di foraggere sconosciute nelle Marche e nello Stato pontificio, come l’erba medica, la lupinella, il lojetto, la sulla e la verza alta. Queste foraggere importate dall’Accademia treiese divennero poi colture usuali nella zona. Esse non erano conosciute dai contadini locali in quanto esigenze di mercato e il fabbisogno alimentare imponevano nelle campagne la monocoltura granaria, la quale però causava l’esaurimento della fertilità naturale dei terreni, rendendo indispensabile lasciare i campi a maggese, cioè a riposare inutilizzati per il tempo necessario al recupero della fertilità. Con i foraggi, invece, si evitava di lasciare incolti i terreni rendendo più veloce il recupero della fertilità e, nello stesso tempo, si otteneva un abbondante nutrimento per il bestiame, tanto che, come attestano i catasti, dopo la diffusione dei foraggi l’attività zootecnica nelle campagne treiesi e marchigiane ebbe un notevole incremento. Certamente l’introduzione di quei nuovi semi comportò anche una maggiore attenzione alla cura dei terreni e stimolò il rinnovamento e l’adeguamento degli attrezzi agricoli: i proprietari, vedendo i vantaggi arrecati da tali colture, accolsero l’introduzione di aratri in ferro e cominciarono a mettere a disposizione dei contadini attrezzi meno rudimentali, anche se le braccia degli uomini e la forza degli animali rimarranno indispensabili e insostituibili per almeno un altro secolo e mezzo. La sorte del seme, che ha sempre rappresentato la vita e la morte, continuerà a dipendere a lungo dal seminatore che lo getta e dal terreno che lo accoglie. Solo oggi questo processo antico e naturale sembra non essere più frequentato: il terreno è scosso, sconvolto e stimolato da una eccessiva macchinizzazione e, purtroppo, anche alterato assai spesso dalla chimica che moltiplica e abbellisce i semi ma a discapito della loro genuinità. 

Potrei dilungarmi ancora su queste tematiche utilizzando gli stimoli offerti dalla storia e dalle tradizioni locali, ma il tempo a mia disposizione mi obbliga a fermarmi qui. Spero di aver offerto qualche spunto interessante per un dibattito che a mio parere potrebbe prendere avvio dalla considerazione e domanda che mi sono posto all’inizio: non è tanto il seme che conta ma il terreno che lo accoglie! E’ così? Parliamone! 

Intervento di Alberto Meriggi, incontro al Circolo Vegetariano di Treia del 8 dicembre 2013 sul tema "La memoria è nel seme"

Treia - Paolo D'Arpini e Alberto Meriggi nel Circolo Vegetariano VV.TT. 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.