Dipinto di Franco Farina
Anche se parlare di solitudine, per la coscienza, non ha un vero e proprio significato, il concetto che essa richiama apre tuttavia lo spazio figurativo della mente proprio alla stessa situazione, poiché noi veniamo al mondo circondati di solitudine.
E da questa solitudine sviluppiamo poi i primi approcci col multiforme. Nei nove mesi che abbiamo passato nel grembo materno, prigionieri del liquido placentare, la nostra coscienza ha obbligatoriamente conosciuto solo se stessa; nel silenzio più totale e senza alcun riferimento esterno siamo stati coscienti solo di noi stessi, senza rendercene neppure conto, perché non potevamo avere altra conoscenza che quel “nulla” in cui eravamo immersi. Quando siamo venuti alla luce essa è stata il primo impatto col "fuori di noi", la prima conoscenza duale. Da quel momento in poi la nostra coscienza si è divisa, frantumata in innumerevoli conoscenze, ma quell'unico punto embrionale è rimasto in noi come base, come espressione potenziale, come l'ignota unica realtà.
E quella coscienza-origine risulta essere la prima manifestazione del Puro-Essere che, sorgendo dal Nulla Cosmico, per la forza potenziale della sua stessa Natura oltreché condizionato dalla spinta karmica, viene proiettato nello stato di esistenza e interrelato con tutti gli altri fenomeni, anche se purtroppo provvisto di una Ignoranza Primordiale, causa della falsa e illusoria concezione di un senso di separazione e individualità. Dato che, a livello mentale, non vi è ancora differenza di coscienza con lo stato di non-essere precedente alla nascita, essendo le porte dei sensi non ancora funzionanti al meglio, la mente soggiace in un ovattato torpore che non ha il potere di scuoterla, di agitarla, di farle prendere atto della sua esistenza, e quindi si mantiene in uno stato di calma piatta, appena appena increspata dal movimento vitale della formazione degli organi e del corpo. Quando poi, con la meditazione costante, ci riportiamo nello stato conosciuto come Samadhi, noi ritorniamo in quello Stato di Coscienza nonnata, torniamo nell'utero del vuoto, nel silenzio della solitudine. Ma con una differenza: questa volta noi sappiamo, sappiamo di essere in quella condizione, sappiamo di essere ‘Quello Stato’. Noi, in realtà, percepiamo di essere realmente soltanto quella Coscienza.
Il grande illuminato dell’Advaita, Nisargadatta, ammoniva i discepoli che gli chiedevano il mezzo per la Liberazione e il modo per superare le illusioni samsariche, dicendo loro che essi dovevano ritrovare in sé stessi quello stato originario, lo stato in cui erano prima del concepimento. E, nello Zen, si legge che uno dei principali Kung-an (Koan) è quello di chiedersi come era il nostro volto prima della nascita dei nostri genitori. Questo per far capire che proprio quel senso di Essere (che si prova vivendo) è diretta discendenza dello stato di Non-Essere e che lo stato di Pura Coscienza non conosce, come elementi conoscibili, né l’Essere né il Non-Essere, in quanto non ancora generati come concettualità.
Purtuttavia la Consapevolezza-non-manifesta dello Stato Vuoto, priva di cognizioni dualistiche, ci riporta direttamente, ma senza operazioni mentali di pensiero, nello stato di solitudine coscenziale di quando eravamo nel ventre di nostra madre. Ciò avviene ogni volta che, semplicemente non afferrando ogni singolo pensiero, né bloccando lo scorrere naturale della mente, la mente stessa si adagia lentamente e spontaneamente come acqua immobile. Allora si riconosce (senza sforzo né alcuna volontà) la Coscienza Sola e Silenziosa e, quanto più questo spontaneo stato di coscienza dura, più si conosce e si intuisce la profondità della Non-Mente di cui si parla nel Chan (Zen) di Hui-Neng e Huang-Po, e quindi in modo naturale avviene la trasformazione: ci poniamo nello stato mentale silenzioso anche vivendo nel frenetico mondo di oggi, anche nei rapporti interpersonali della nostra vita quotidiana.
Potrebbe altresì crearsi l’apparente situazione di una doppia capacità di coscienza (si fa per dire) in cui si è contemporaneamente coscienti del "relativo" mondo fenomenico e dell' "assoluto" noumenico, anche se in realtà non c'è divisione né separazione tra le supposte "due coscienze", così come in alcuni particolari stati di sogno in cui, pur avendo diretta sensazione degli avvenimenti immaginati dalla mente, e quindi in qualche modo vivendoli, nondimeno di base c'è una profonda sensazione di distacco, di non partecipazione, testimoniata dal fatto che, spesso al mattino, quasi non rammentiamo quegli eventuali sogni. Così il vero Saggio vive la sua vita umana, con un occhio interno che non partecipa, con una mente che non si attacca, non aderisce a ciò che avviene. Egli è presente sulla scena ma è come se non ci fosse, tutto scorre davanti a lui come in un film, ed egli vi si muove dentro, ma totalmente distaccato, costantemente immerso nella profonda solitudine della coscienza, in cui è perfettamente riconoscibile la Realtà delle cose così come sono nella loro verità, non mediate dalla mente individuale, sensibile e condizionata da esperienze e pregiudizi personali.
Questo stato silenzioso della coscienza si può definire come lo Stato Assoluto che si rivela in noi in modo non afferrabile e non tangibile. Infatti, se ci si accorge di esso e si tenta di renderlo logico e razionale questo stato scompare e ne perdiamo le tracce ricadendo, nostro malgrado, nella ordinaria coscienza mentale del sé illusorio, separato e dualistico. Questo stato è conosciuto nelle diverse tradizioni sapienziali ed indicato con vari nomi: Mahatattva o Atmabrahman, nell' Advaita- Vedanta; Mahamudra o Maha-Ati, nel Buddhismo tantrico; Wu-hsin o Mu-shin, nel Buddhismo zen. Infatti, al di là di qualche marginale sfumatura interpretativa, questi nomi stanno sempre a significare lo Stato Puro immutabile e non-nato della Realtà Suprema e della Natura di Buddha, che è non turbato, che tutti possediamo, e che, quando è integrato e insediato spontaneamente senza interruzioni, rivela lo Stato dell'illuminazione in cui dimorano gli Esseri Realizzati.
È pur vero che qualunque appellativo non si addice ad identificare quello stato di coscienza che, anzi, nelle predette tradizioni è più spesso semplicemente chiamato "Quello" "Sé-Reale" oppure il "Senza-Nome", proprio per ribadire l'impossibilità di poterlo conoscere con la mente razionale e concettuale. Ma poiché chi lo conosce sa veramente di cosa si tratta, è opportuno non dare importanza ad eventuali descrizioni (d'altra parte puramente approssimative e simboliche), quanto al significato, proprio per poter in qualche modo onorarne la gloria e riconoscerne la grandiosità; così come è insegnato che non si deve dare importanza al dito che indica la Luna, bensì l'attenzione deve essere focalizzata verso lo splendore stesso dell' argenteo astro nell'oscuro cielo notturno.
Alberto Mengoni
(PARAMITA n. 49 del Gennaio 1994)
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