Franco Battiato ed il Bardo Thodol

 


In un'intervista del 1998, Franco Battiato ha dichiarato che a ispirare “L'ombra della luce” dell'album Come un cammello in una grondaia (1991) è stato Il libro tibetano dei morti, uno dei testi che più lo hanno influenzato nella sua formazione umana e spirituale. Il Bardo Thodol – questo il titolo originale – che ci permette non solo di entrare nell'antica civiltà del Tibet ma entra anche nelle profondità dell’anima, conducendoci in un viaggio sugli aspetti sconosciuti del nostro io, un io che ad un tratto non ci appare più tanto solido e sicuro.

Catturato dal Bardo Thodol recitato presso il corpo del morto o del morente, Battiato si avvicina a quella luce, di cui però non si può che scorgere l’ombra; proprio la civetta, uccello che spicca il volo sul far del crepuscolo, lo sa bene. E lo fa con un testo pieno di amore per la vita, una canzone che invita a rendere puro il pensiero per accogliere la spiritualità e comprendere la vita come consapevolezza.

L’ombra della luce

UN SOFFIO, come tutto nella vita, accompagnato da una consapevolezza ulteriore, da un 'occhio interiore', che coglie l’essenziale.  Ci sono versi che risuonano nella nostra testa e si cantano da soli: 'E il mio maestro mi insegnò a cercare l'alba dentro l'imbrunire'; 'L'animale che mi porto dentro, che si prende tutto anche il caffè'; 'E ti vengo a cercare perché sto bene con te'; 'Questo sentimento popolare nasce da meccaniche divine'. Anche se non ce ne rendiamo conto, ci ha fatto cantare versi raffinatissimi di filosofi, Sufi, mistici".

UNA CONCEZIONE profondamente terrena e ascetica della vita in cui il senso di ciò che si è fa i conti con la smisuratezza dell’universo. La musica e la filosofia ci portano a riconoscere l’importanza fondamentale del nostro «sentire» in connessione con l’universo. La musica è il luogo della massima separazione e della più intima vicinanza. Un «oceano di silenzio» che è lo sgorgare di una nuova sorgente, alla ricerca di un vuoto che ci colma e che ci rinvia a noi stessi, di contro a questo tempo che riempie tutto per farci sprofondare in «un vuoto di senso» e in un «senso di vuoto».

DALLA RICERCA DI UNA RADICE comune del sapere sono arrivati a esplorare sonorità e modi di dire e pensare presenti a Oriente come a Occidente. Sono riusciti a creare un pensiero musicale cosciente che sfugge l’inganno della superficialità di un mondo che sempre meno riusciamo a comprendere. È nata così la voce, insieme doppia e unica, di un incontro che li ha consegnati a una verità innegabile. Battiato e Sgalambro hanno saputo vivere la generosità dell’arte che ricompone il tutto misterioso della condizione umana attraverso la musica del pensiero. E ci hanno insegnato a far parte di un volo come quello degli uccelli nello spazio tra le nuvole.

LA DIMENSIONE DEL SOGNO, del viaggio, anche solo del viaggio sognato, dentro l’evanescenza – particelle, atomi sonori in corsa in un intervallo di tempo a disegnare flussi cosmici, lo spazio in cui ancora siamo, pensiamo –; è l’ecosistema in cui si muove Battiato negli anni Settanta, tra Stockhausen, influssi filosofici e letterari, l’affiorare di armoniche improvvise a ottundere i suoni cuneiformi della sperimentazione. È un invito al viaggio; un vagabondaggio negli spazi siderali del cosmo in cui risuonano attriti molecolari, vettori luminosi di un moto browniano che balzano d’era in era, dalle origini rarefatte del mondo a un contemporaneo sospeso, come visto, ascoltato attraverso un filtro smerigliato nell’Ombrello e la macchina da cucire che ravviva la cosmogonia di suoni, elettronica, psichedelia respiro macchinismo universale.

L’INIZIO DEL TEMPO (materia, suono posti in posizione fetale), l’inizio delle cose, è come sognato, immaginato: «l’inconscio ci comunica coi sogni frammenti di verità sepolte». Viene in mente William Blake quando scrive che nulla esiste che prima non sia stato sognato: ecco, Battiato riporta alla luce, a un livello di concretezza smagliante, sonante, la cosa sognata, come se l’origine, l’inizio di tutto non fosse che il sogno di una cosa.

SENZA STORIA: piuttosto mito, al limite ucronia come futurizzazione del mito (ad esempio in Mondi lontanissimi), e poi mitobiografia, cioè racconto di sé attraverso le opere, il pensiero, l’immaginazione già stati, i gradi di una memoria arcana quanto personale, indizi concreti dell’inclinazione dell’uomo a scoprire il mito, a scoprirsi in quanto parte di questa enorme mitopoiesi che è il mondo. È il mito sintetizzato, in Mesopotamia, dove, come testimoni della «prima goccia bianca, che spavento/ e che piacere strano/ e un innamoramento senza senso/ per legge naturale a quell’età»; testimoni di quella stilla iniziatica, la cui fuoriuscita allo stesso tempo si stanzia, feconda la terra e porta lontano, dà vertigine, ti sposta in una dimensione atavica, una via lattea grondante, d’eco. Qui «scocca la sua nota, dolce come rosa» (Gesualdo da Venosa), scocca la prima goccia di Pollution – in una scabra meccanica di note – prima di divenire stillicidio nel capolavoro Sequenze e frequenze, diciassette minuti di deliquio elettronico, di proto-techno all’inizio di Sulle corde di Aries, e poi in Clic, quando No U Turn aprirà la strada alla techno di Proprietà Proibita. Folate d’elettronica, di synth, e il ritmo incalzante, costante delle percussioni, in cui stiamo ancora ballando, con scatti robotici e sinuosi, seriosi e canzonatori, al ritorno dal sogno.



(Su  segnalazione  di Ferdinando Renzetti)

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