TUBI A VUOTO E RAGGI CATODICI, LA SCOPERTA DELL’ELETTRONE ED IL PRIMO MODELLO ATOMICO

 


Una delle tecniche di ricerca fisica che si dimostrò tra le più ricche di risultati nella seconda metà dell’800 fu quella dei “tubi a vuoto”, sviluppata già nel 1854 dal tecnico e fisico tedesco Johann Heinrich Wilhelm Geissler (1814-1879), e poi da altri due fisici tedeschi: Julius Plucker (1801-1868) e Johann Wilhelm Hittorf (1824-1914)(1).

Alle estremità dei tubi, in cui era stato fatto il vuoto, erano posti due elettrodi, uno positivo, cioè a potenziale elettrico più alto (“Anodo”), ed uno negativo, a potenziale più basso (“Catodo”), tra cui si poteva avere una scarica elettrica (come nei moderni tubi al Neon). Fu notata presso il catodo una particolare fluorescenza. Il fisico inglese Cromwell Varley (1828-1883) interpretò correttamente (nel 1871) questo fenomeno come emissione di particelle cariche elettricamente dal catodo. Un altro fisico tedesco, Eugen Goldstein (1850-1930) sostenne, invece, (nel 1876) che si trattava di radiazioni, cui fu dato il nome di “Raggi Catodici”, termine improprio che poi è rimasto. Infine un altro fisico inglese, William Crookes (1832-1919), dimostrò definitivamente che si trattava di emissioni di natura corpuscolare.

Negli anni 1890-97 anche il valente fisico francese Jean Perrin (1870-1942) – futuro premio Nobel di cui ci occuperemo anche nel prossimo numero su Einstein – studiò i raggi catodici. Infine, nel 1897, l’intelligente ingegnere e fisico inglese Joseph John Thomson (1856-1940), premio Nobel nel 1906 (da non confondersi con l’omonimo William Thomson - Lord Kelvin), dimostrò che i raggi erano in realtà formati da particelle elementari dotate di una piccola massa, in quanto capaci anche di girare meccanicamente una paletta. Inoltre le particelle erano cariche elettricamente (di elettricità “negativa”) in quanto potevano essere deviate da un campo magnetico. Su suggerimento del fisico irlandese George Stoney (1826-1911) fu dato loro il nome di “Elettroni”.

La scoperta di Thomson dette un grande contributo alla teoria atomica che era stata contestata in quegli anni da Mach, Ostwald, e da tutta la corrente “energetista” ed “empirio-criticista” (ne abbiamo parlato al numero precedente a proposito delle polemiche tra Mach, Boltzmann e Lenin). Si poteva infatti intuire che gli elettroni erano elementi fondamentali della struttura atomica, e che gli “atomi” moderni di Dalton e Mendeleev (vedi NN. 69 e 89) – definibili come la più piccola quantità possibile di un elemento chimico - erano divisibili in particelle più piccole, a differenza degli antichi atomi di Leucippo e Democrito (senza che ciò inficiasse il principio dell’indivisibilità della materia all’infinito, principio – ora - da stabilirsi su scala non più atomica, ma subatomica).

Questi sviluppi portarono alla formulazione del primo modello atomico della storia dovuto a Thomson. Egli ipotizzò che gli elettroni fossero inseriti nel più vasto nucleo atomico come le uvette sono inserite nella pasta del panettone, da cui il suo modello fu definito scherzosamente “Modello Panettone”. Nel 1911 un altro grande ricercatore, il neo-zelandese Rutherford, allievo di Thomson, dimostrerà che la maggior parte dell’atomo è vuota e che gli elettroni si muovono all’estrema periferia dell’atomo, a grande distanza dal nucleo.

Thomson inventò anche un importante apparecchiatura di misura, atta ad individuare diverse sostanze: lo “Spettrometro di Massa”. Lo strumento, ben noto a chimici e fisici, utilizza campi magnetici per separare molecole “ionizzate” con flussi di elettroni (cioè caricate elettricamente), sfruttando il diverso rapporto tra massa e carica elettrica caratteristico di ogni sostanza. Il figlio di Thomson, George Paget, ottenne a sua volta il Nobel nel 1937 per aver dimostrato che gli elettroni si comportano anche come onde.

La scoperta degli elettroni portò anche alla spiegazione di vari fenomeni elettrici consistenti nella formazione di correnti elettriche a partire da metalli sollecitati termicamente o mediante fasci di radiazioni (luminose e non). Il primo è l’effetto “Termoionico”, che avviene scaldando un metallo oltre un certo limite, scoperto nel 1879 dall’inventore statunitense Thomas Alva Edison (1847-1931). Edison produsse anche la prima lampadina a filamento di Carbonio incandescente, come già abbiamo visto al N. 93.

L’altro effetto è quello “Fotoelettrico”, scoperto da vari fisici tra il 1887 ed il 1890, in cui il metallo emette elettroni se illuminato da una radiazione di energia sufficiente. Quest’ultimo fenomeno fu poi oggetto di una celebre memoria di Einstein nel 1905, che gli valse il premio Nobel. Ne riparleremo a proposito della nascita della fisica quantistica.

Per completare il discorso sugli studi con tubi a vuoto, si può ricordare che essi permisero la produzione anche di altre particelle diverse dagli elettroni. Nel 1886 il già citato fisico tedesco Eugen Goldstein ottenne in un tubo a vuoto dotato di un catodo forato anche delle particelle cariche positivamente (ovvero degli “ioni” positivi, termine usato in fisica, chimica ed elettrochimica per particelle elettricamente cariche). Goldstein aveva ottenuto dei protoni, particelle molto più pesanti degli elettroni (circa 1800 volte più pesanti) che però solo circa trenta anni dopo furono individuati da Rutherford come componenti essenziali dei nuclei atomici(2).

Vincenzo Brandi


(1) Geymonat, “Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico”, Garzanti 1970 e seg.

(2) RBA, “Le grandi Idee della Scienza – Rutherford”

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