Il grande matematico e fisico francese Joules-Henri Poincarè (1824-1912), professore di fisica matematica e calcolo probabilistico e accademico di Francia, fu uno studioso versatile i cui interessi riguardarono vari campi(1)(2)(3)(4). Un primo settore fu quello dell’algebra e delle equazioni differenziali, equazioni molto adatte ad interpretare fenomeni fisici ed usate già dai tempi di Newton. In questo settore mise a punto – sulla scia di Abel ed Hermite e delle funzioni ellittiche (v. N. 86) - un tipo di funzioni dette “automorfe” atte a risolvere equazioni differenziali di tipo molto generale. Sotto l’influenza dell’opera di Michel Chasles – la “Geometria Superiore” – non trascurò nemmeno gli studi di geometria in cui adottava sia il metodo analitico (analisi matematica e metodi algebrici), sia quello grafico basato sull’immaginazione spaziale, lasciando alla logica il compito della dimostrazione. Divenne, così, uno dei più importanti esperti di Topologia (la scienza che studia la continuità e le proprietà delle forme geometriche e le loro trasformazioni) di cui già si erano interessati Riemann e Felix Klein (N. 86) con cui fu in proficuo contatto epistolare. Ben nota è la sua “congettura” (cioè affermazione non dimostrata) del 1904 secondo cui qualsiasi superficie finita a “n” dimensioni che non abbia “buchi e bordi” può essere trasformato in una sfera. Questa congettura è stata dimostrata solo negli anni 2000 da un geniale ed originale matematico russo – Perelman – che ha rifiutato il premio di un milione di dollari offerto dal milionario Clay per la sua risoluzione.
Poincarè aveva raggiunto una grande fama già nel 1889 quando aveva risolto il noto Problema dei tre Corpi, vincendo il primo premio in un concorso sull’argomento messo in palio dal Re di Svezia Oscar II. Il problema era già stato affrontato da Laplace, ma con eccessive semplificazioni che ne mettevano in dubbio il risultato finale. La soluzione aveva una grande importanza per verificare la stabilità del Sistema Solare, in quanto riguardava le traiettorie di tre astri i cui moti si influenzino a vicenda a causa delle forze gravitazionali. Poincarè dedusse che non vi era pericolo imminente di instabilità anche se le traiettorie potevano oscillare erraticamente intorno ad un punto di equilibrio (situazione definita di “caos deterministico”) con possibilità di instabilità in un futuro lontano.
Nel campo della fisica, ed in particolare dell’elettrodinamica, Poincarè si impose come uno dei fondatori della Teoria della Relatività Ristretta (o “Speciale”) insieme allo stesso Einstein ed al grande fisico olandese Hendrik Lorentz (1853-1928). In un precedente articolo abbiamo visto come il grande fisico olandese già nel 1892 aveva elaborato delle equazioni definite poi dallo stesso Poincarè “Trasformazioni di Lorentz” che correggevano le precedenti analoghe “Trasformazioni di Galileo”. Poincarè, tra il 1905 ed il 1906, in particolare con lo scritto “Sulla Dinamica dell’Elettrone”, rielaborò ed ampliò la equazioni di Lorentz, ma già nel 1902, nell’opera “Scienza ed Ipotesi“, aveva criticato i concetti di spazio e tempo assoluti (cioè non relativi) e quello di simultaneità temporale in sistemi diversi, anticipando temi relativistici. La teoria della Relatività Ristretta è stata poi - giustamente – attribuita ad Einstein perché il grande fisico tedesco, in particolare nello scritto “Sulla Dinamica dei Corpi in Movimento” del 1905, seppe trasformare le equazioni di Lorentz e Poincarè in una teoria fisica coerente, come meglio vedremo in seguito.
Poincarè fu anche un valente epistemologo, cioè un filosofo della scienza. Le sue posizioni realiste, che lo caratterizzarono come fiero avversario della deriva spiritualista ed irrazionalista dilagante nella Francia di fine ‘800, lo portarono ad affermare che “l’esperienza è l’unica fonte della verità: solo essa può insegnarci qualcosa di nuovo, solo essa può darci certezza”. Affermava che il fatto bruto è il fenomeno osservato, la scienza è la sua interpretazione. Il linguaggio scientifico è solo più preciso, ma non puramente convenzionale. Fu anche un determinista coerente: diceva che parlare di “caso” è solo la misura della nostra ignoranza. In matematica fu un sostenitore del “convenzionalismo”. Sosteneva – cioè – che la matematica era basata su assiomi iniziali arbitrari, ma fu anche sempre molto critico verso gli eccessi del “logicismo” e del “formalismo” tipici di Hilbert, Frege o Russell, valorizzando anche l’intuizione ed apprezzando il linguaggio matematico in quanto il più adatto a descrivere i fenomeni fisici. Ammetteva che alla base della geometria vi era una grande libertà creativa e contribuì a sviluppare le geometrie non euclidee; ma riteneva che certi sistemi – come quello euclideo – si erano affermati nei secoli perché adatti ad interpretare la realtà, essendo basati su assiomi suggeriti dall’esperienza. Nel caso della matematica numerica era comunque imprescindibile adottare un principio (o assioma) generale non deduttivo, quello di induzione completa secondo cui una proprietà, se può passare da un numero naturale al successivo, e se vale per il numero “1” (o “0”), vale per tutti i numeri.
Su posizioni molto diverse si pose David Hilbert (1862-1943), a lungo professore nella prestigiosa Università di Gottinga, cuore della matematica tedesca insieme a Berlino(1)(2)(3)(5). Hilbert, grande estimatore e sostenitore di Cantor (N. 92), riteneva che la matematica fosse una costruzione logico-formale di tipo deduttivo creata dalla mente umana sulla base di “assiomi” arbitrari e simboli astratti che nulla avevano a che fare con la realtà. Gli assiomi, per essere “veri”, dovevano essere “coerenti”, cioè bastava che non portassero a contraddizioni nei successivi sviluppi logico-deduttivi. Altre caratteristiche degli assiomi dovevano essere la loro reciproca “indipendenza” e la “completezza”, cioè la capacità di poter dimostrare, partendo da essi, qualsiasi teorema matematico. Il suo pensiero si distingueva da quello di altri “logicisti” come Frege e Dedekind (N. 92) che invece ritenevano – in un’ottica di tipo “platonico” - che gli assiomi dovevano essere “veri” di per sé in quanto verità evidenti ed assolute desunte dalla realtà (come già per Euclide, Kant ed Aristotele).
All’inizio Hilbert – dopo aver raggiunto la fama nel 1888 per aver risolto il “problema di Gordan” sulle entità “invarianti” nelle trasformazioni di un polinomio - si interessò degli assiomi della geometria (ridotta a puri simboli privi di significato e di intuizione spaziale) con l’opera “Fondamenti della Geometria” del 1899. Nel 1900 fu il principale relatore del Congresso matematico di Parigi, dove espose i famosi 23 problemi la cui risoluzione avrebbe interessato i matematici del ‘900. Pose al primo posto l’ipotesi della continuità di Cantor, che risulta ancora indimostrata (nel 1938 il logico ceco Gödel – di cui ci interesseremo anche in prossimi numeri – dimostrò che non se ne poteva dimostrare la falsità; ma nel 1963 il matematico statunitense Paul Cohen – 1934/2007 - dimostrò che non se ne poteva nemmeno dimostrare la veridicità). Altro importante problema era la coerenza degli assiomi dell’aritmetica (tuttora irrisolto). Erano presenti anche altre congetture, come quella di Goldbach (N. 58), e l’Ipotesi di Riemann (N. 86), tuttora indimostrate. Nei 20 anni successivi il grande matematico tedesco si interessò di problemi di matematica applicata alla fisica (che cercò di “assiomatizzare” rendendola un sistema logico-deduttivo, a partire da assiomi iniziali), disputando nel 1915 ad Einstein la paternità delle equazioni della Teoria della Relatività Generale. Queste furono attribuite giustamente ad Einstein, che - pur se più scarso in matematica e preso in giro da Hilbert (“anche un ragazzino di strada di Gottinga capirebbe meglio di Einstein le equazioni dello spazio quadridimensionale”, spazio usato nella teoria della relatività) - aveva però una visione più profonda della realtà fisica. In questo periodo Hilbert - partendo dallo studio delle equazioni “integrali” (che sono le equazioni che contengono l’incognita sotto il segno di integrale) - sviluppò anche la cosiddetta “analisi funzionale” (che si interessa delle funzioni la cui variabile è un’altra funzione, ed è connesso all’antico “calcolo delle variazioni”: vedi NN. 58 e 66). Paradossalmente questa sua attività più tradizionale fu quella che si dimostrò più utile in futuro. Il suo allievo Von Neumann (di cui ci interesseremo in prossimi numeri) se ne servì per definire il cosiddetto “spazio di Hilbert”, un sistema matematico comprendente più funzioni, che riuscì – come vedremo - a riunificare due celebri prodotti della Fisica Quantistica: le matrici di Heisemberg con l’equazione di Schrödinger.
Dopo il 1920 Hilbert si dedicò invece completamente alla costruzione del suo astratto sistema assiomatico, tenendo presente anche i risultati del cosiddetto sistema ZF sviluppato da Ernst Zermelo (1871-1953) nel 1919, ed integrato da Abraham Fraenckel (1891-1965), che aveva lo scopo di neutralizzare le contraddizioni sorte nei sistemi di Frege e di Russell-Whitehead (N. 92). Il suo decennale ed intenso lavoro, contenuto nelle opere “Fondamenti matematici di Logica Teoretica” del 1928 – scritto insieme a Wilhelm Ackermann - e “Fondamenti della Matematica” del 1934 – scritto insieme all’allievo Paul Bernays - si infranse nel corso del Congresso di Königsberg del 1930, quando – dopo che Hilbert aveva orgogliosamente dichiarato: “dobbiamo sapere, e sapremo” (motto iscritto anche sulla sua tomba) – un giovane logico ceco ancora sconosciuto (ma poi divenuto famoso), Kurt Gödel (1906-1978), dimostrò che il sistema di Hilbert era “incompleto” (cioè conteneva necessariamente affermazioni indimostrabili). Successivamente Gödel dimostrò (con il suo “secondo teorema”) che non era nemmeno possibile dimostrarne la “coerenza”. Lo stesso Zermelo aveva affermato che l’aritmetica conteneva necessariamente elementi di arbitrarietà (cosiddetto “Problema della Scelta”), mentre anche il matematico polacco Alfred Tarski (1902-1989) aveva dimostrato che una teoria aritmetica coerente del “primo ordine” non poteva esprimere il vero. Questo fallimento ci indica – come abbiamo più volte sottolineato – che la logica esasperata, avulsa dalla realtà, spesso è sterile e contraddittoria. Vale la sarcastica battuta pronunciata da Poincarè qualche anno prima: “la logica non è sterile: produce contraddizioni”. Poincarè riteneva Hilbert un “impostore” perché, nascosta sotto il suo sistema assiomatico astratto, rispuntava in realtà – secondo lui - la vecchia geometria di Euclide.
Vincenzo Brandi
L. Geymonat, “Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico”, Garzanti
C. Singer, “Breve Storia del Pensiero Scientifico”, Einaudi
Adorno, “Storia della Filosofia”
RBA, “Le Grandi Idee della Scienza – Poincarè”
RBA, “Le Grandi Idee della Scienza – Hilbert”
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