La
teoria dei campi
elettromagnetici
– comportanti linee di forza che si espandono nello spazio – sia
stata mirabilmente sviluppata da Faraday,
che però non ne dette un’interpretazione matematica. La teoria dei
campi di Faraday
servì di base per una brillante sintesi fisico-matematica di tutti i
fenomeni elettromagnetici operata dal fisico scozzese James
Clerk Maxwell (1831-1879).
Egli utilizzò i risultati delle ricerche di elettrostatica e sul
magnetismo di Gauss, quelli di Ampere
sugli effetti magnetici delle correnti elettriche, e quelli
dello stesso Faraday
sull’induzione elettromagnetica, dandone una visione unitaria
dinamica in cui le interazioni elettromagnetiche si trasmettevano non
istantaneamente, ma nel tempo mediante flussi continui di onde agenti
lungo le linee di forza alla velocità della luce. Secondo Einstein
ed altri autori le quattro
equazioni di Maxwell,
che dettero il via ad una serie di intense discussioni e profonde
riflessioni in tutto il campo scientifico, assunsero nell’800 la
stessa importanza per i fenomeni elettromagnetici assunta delle
equazioni di Newton nel ‘600 per i fenomeni meccanici e
gravitazionali(1)(2)(3).
Maxwell
fu professore ad Edimburgo e poi anche di fisica sperimentale a
Cambridge (benché fosse essenzialmente un fisico teorico) dove fondò
l’Istituto
Cavendish da
cui uscirono ben 29 premi Nobel. Nelle sue prime opere: “Sulle
linee di Forza di Faraday”
(1856) e “Sulle
Linee fisiche di Forza”
(1861-62), costruì modelli ancora meccanici per spiegare la presenza
dei campi. Nelle opere successive: “Una
Teoria dinamica del Campo Magnetico”
(1865) e “Trattato
di Elettricità e Magnetismo”,
(1873), considerata il suo capolavoro, il fisico scozzese – dopo
aver rinunciato anche alla teoria dell’etere
(un fluido leggerissimo che supporterebbe i campi) – usò sempre
più metodi matematici privi di espliciti modelli fisici. La sua
matematica, molto sofisticata e formale (che suscitò qualche
perplessità tra i ricercatori dell’epoca, anche da parte dello
stesso grande sperimentatore Faraday), si servì di metodi molto
avanzati, derivati da precedenti studi di Lagrange,
Gauss,
ed
altri, e come quello vettoriale derivato da W.
Rowan
Hamilton
(N.
72).
Le
quattro equazioni di Maxwell sono delle equazioni differenziali a
derivate parziali in funzione delle coordinate spaziali e del tempo.
Hanno quindi un valore localistico, cioè relative ad un singolo
punto in un dato istante, ma possono essere anche matematicamente
“integrate” acquistando un valore “globale” che si riferisce
ad una superficie estesa che racchiude un dato volume, o ad un
circuito elettrico chiuso. La prima equazione descrive il campo
elettrostatico dovuto ad una carica elettrica prendendo spunto dagli
studi di Gauss.
La seconda (derivata anch’essa dagli studi di Gauss) indica che un
magnete è sempre costituito da due poli inseparabili e che i flussi
e le linee magnetiche formano sempre dei circuiti chiusi. La terza
descrive il fenomeno dell’induzione magnetica, cioè la creazione
di correnti elettriche dovute ad un campo magnetico variabile,
prendendo spunto dalle ricerche di Faraday.
La quarta tiene conto delle ricerche di Ampere
sulla
creazione di campi magnetici mediante correnti elettriche, con un
integrazione decisiva di Maxwell relativa ai campi elettrici
variabili che crea una simmetria tra campi elettrici e magnetici,
dimostrando che sono due aspetti di una realtà unica. Le equazioni
valgono nel vuoto le cui caratteristiche elettromagnetiche sono
espresse da due costanti, la Permettività
elettrica
e la Permeabilità
magnetica
il cui prodotto è in stretta relazione con la velocità della luce
“c”
secondo una semplice equazione: permettività
x Permeabilità = 1/c2.
Questa
circostanza indusse Maxwell a mettere in relazione le interazioni
elettromagnetiche con le onde luminose, soprattutto dopo che nel 1856
due valenti ricercatori tedeschi, Wilhelm
Weber (1804-1891)
e Rudolf
Kohlrausch (1809-1858)
scoprirono che il rapporto tra unità di misura elettrostatiche ed
unità elettromagnetiche era pari alla velocità della luce. Il fatto
che in realtà tutti i tipi di onda (comprese quelle luminose) siano
elettromagnetici fu poi provato da Rudolf
Hertz,
come vedremo alla fine di questo articolo. Maxwell dette inoltre una
versione generalizzata delle sue equazioni che valesse anche per
mezzi diversi dal vuoto.
Le
equazioni di Maxwell furono viste come un superamento del tipico
“meccanicismo” seicentesco di Newton,
Galilei
e
Cartesio,
ripreso da Laplace,
Helmotz,
Kelvin
e molti altri fisici e chimici moderni. Esse infatti hanno la
caratteristica di riferirsi ad una fisica
del “continuo”,
e non di “azione a distanza” come nella teoria gravitazionale di
Newton o nelle forze di attrazione elettrica di Coulomb
(NN.
50 e 59). Le grandezze elettromagnetiche (campi elettrico e
magnetico) hanno un valore locale e variano anche per minime
variazioni nello spazio e nel tempo. Mentre le equazioni di Newton e
Galilei non variano per due osservatori che si muovano l’uno
rispetto all’altro a velocità costante (cioè per due sistemi
cosiddetti “inerziali” le cui rispettive coordinate sono
ricavabili con le semplici “trasformazioni
galileiane”
messe a punto dal grande fisico pisano), le equazioni di Maxwell non
godono di questa proprietà e non si accordano con le concezioni di
spazio e tempo di ispirazione newtoniana. Questa è la prima breccia
nella fisica tradizionale attraverso cui si farà strada la “Teoria
della Relatività”,
come vedremo in prossimi numeri. Molti autori (per esempio lo storico
della fisica Duhem
e in parte lo stesso Geymonat)
tuttavia dubitano che Maxwell si sia effettivamente posto al di fuori
del meccanicismo. Né si deve dimenticare che la presunta crisi del
meccanicismo tradizionale (sottolineata da Mach
e dallo stesso Engels)
vedrà mezzo secolo dopo una rivincita della fisica del discontinuo
con la prova dell’esistenza di atomi, molecole ed elettroni ad
opera di J.J.
Thomson,
Einstein,
Perrin,
e altri, e nella scoperta dei “Quanti”
ad opera di Planck.
D’altra
parte Maxwell si interessò anche di argomenti tipicamente
meccanicisti. Dopo essersi interessato della resistenza dei materiali
duttili (argomento poi ripreso da Von
Mises)
e dopo aver pubblicato un saggio nel 1859 “Sulla
Stabilità degli Anelli di Saturno”,
il
suo secondo campo di indagine per importanza riguardò la Teoria
Cinetica dei Gas,
già anticipata nel ‘700 da Daniel
Bernoulli
(N. 58) e ripresa da Clausius
(N.
78). Questa teoria ipotizza che l’azione macroscopica di un gas (ad
esempio la sua pressione) sia dovuta ad una miriade di piccoli urti
dovuti al moto caotico delle molecole del gas. Anche il calore
sarebbe un effetto di questi moti caotici. Maxwell scrisse su questi
argomenti il saggio del 1860 “Delucidazioni
sulla Teoria Dinamica dei Gas”;
e successivamente: “Sulla
Teoria Dinamica dei Gas”
(1866), “La
Teoria del Calore”
(1871-77), e “Materia
e Movimento”
(1876). Egli
introdusse
l’importante ipotesi che la distribuzione
statistica della velocità
delle molecole sia una curva a campana, come quella degli errori
sviluppata da Gauss
(N. 72). Anche il fatto che Maxwell abbia introdotto una
distribuzione di tipo statistico e probabilistico (aspetto su cui poi
Boltzmann
costruirà una serie di importanti sviluppi, come vedremo nel numero
a lui dedicato) viene interpretato da vari autori come il superamento
della tipica fisica deterministica tradizionale (da Leucippo
e
Democrito,
fino
a Galilei,
Newton e
Laplace).
In realtà altri autori, come ad esempio lo stesso Laplace (di cui
chi scrive condivide sostanzialmente l’impostazione) ritengono che
il ricorso a leggi di tipo statistico-probabilistico sia dovuto solo
al fatto che non è possibile seguire l’andamento di ogni singolo
micro-fenomeno e di ogni particella elementare. Torneremo
sull’argomento a proposito della fisica quantistica. Una
caratteristica che contraddistingue la fisica di Maxwell è invece
indubbiamente l’uso della matematica (equazioni differenziali a
derivate parziali con uso di operatori vettoriali) senza il supporto
di un esplicito modello fisico, come già fatto da Fourier
e
Rowan
Hamilton
(NN. 67 e 72), e come sarà fatto da molti fisici teorici
contemporanei.
Per
chiudere l’argomento bisogna ricordare l’importante opera del
fisico tedesco Rudolf
Hertz (1857-1894),
intelligente allievo di Helmotz, morto purtroppo a soli 37 anni. Con
abili esperimenti realizzati con apparecchiature da lui stesso messe
a punto, Hertz dimostrò che le onde radio, i raggi infrarossi, le
onde luminose, i raggi ultravioletti, ed altri tipi di radiazioni che
saranno scoperte in seguito (raggi X e “Gamma”), sono tutte onde
elettromagnetiche, come intuito da Maxwell, ed ancor prima da
Faraday. Ancora oggi la frequenza delle radiazioni è indicata col
nome di Hertz, che fu anche brillante teorico nel campo della
filosofia della scienza. Respingendo ogni suggestione di tipo
idealistico, ed attenendosi ad una filosofia realista, affermò che
le grandezze inventate dai fisici (come spazio, tempo, massa)
corrispondono a fenomeni ed oggetti reali nel mondo reale, e che le
grandezze che derivano dalle equazioni messe a punto dagli scienziati
hanno anch’esse una corrispondenza in fenomeni ed oggetti reali.
Vincenzo Brandi
- L. Geymonat, “Storia del Pensiero Fil. e Sc.”, opera citata in bibl.
- C. Singer, “Breve Storia del Pensiero Sc.”, op. cit. in bibl.
- RBA, “Le Grandi Idee della Sc. – Kelvin”, op. cit. in bibl.
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