Sfuggire alle sinapsi del demonio... di Lorenzo Merlo

 


Ogni titolo rappresenta una prospettiva che converge nel medesimo punto: la concezione egoica del mondo. Una formuletta questa, il cui esploso, invece di contenere il cuore della nostra origine cosmica, è pieno di importanza personale ovvero, è vuoto come l’effimero o come la storia secolare scambiata per sola verità. Superare la prevaricazione dell’ego, per quanto possa sembrare utopico a chi non sa immaginarlo, appare come la sola soluzione per la costruzione di un contesto sociale che invece di sapere d’inferno sappia di paradiso.

Grevità

Non sono capace di vivere in questo tempo, mi sembra di essere costantemente tirato di qua e di là da idee lontane, incomprensibili, opposte. Forse non sono un uomo, forse devo ritirarmi in un monastero. Sì, perché osservare chi la pensa diversamente da me, prima di sembrarmi una cosa da matti, mi impone di capirne la genesi e ricostruire l’architettura delle sinapsi che hanno portato agli antipodi di dove hanno portato me. Ma non riesco a ricostruire il percorso necessario per arrivare dove vedo essere gli altri, neppure inserendo nel processo autopoietico il potere dei vizi capitali. Non riesco a credere, a rendere vero ciò che constato fare dai nostri comandanti e neppure dal loro esteso seguito popolare. Neppure ipotizzare si tratti di un semplice incubo riesce a farmelo accettare. Solo l’ipotesi che io non sia caduto dentro la scatola di Skinner (1) in cui sono caduti loro, mi lascia la speranza d’aver compreso ciò che chiamerei impossibile.

Mi sembra che tutto stia precipitando come se al comando avessimo dei pazzi, più simili a personaggi da fumetti distopici che a esseri umani. Ma forse, anzi, senza forse, il problema sono io. Non sono io che vorrei costringere l’umanità entro la mia piccola scatoletta della concezione che ho di essa? Allora, per rimediare a me stesso, non rimane che adattarsi? Forse. Ma non secondo la mia scatoletta.

Prima ancora di cercare di ricostruire il labirinto, il caos o la presunta razionalità delle concezioni altrui, so che qualunque architettura comportino, arredata piacevolmente o meno, non fa differenza: so che esse hanno pari rispettabilità. Diversamente, si dovrebbe militare per l’impalamento, il rogo, la garrota, la forca, la fucilazione, l’assassinio e il genocidio. Sì, perché in qualunque punto ci si trovi ad albergare nel proprio calduccio, da qualunque balcone ci si affacci a guardare il mondo, qualunque paesaggio si stia osservando è solo l’abbaglio di essere separati a farci credere che io ne veda uno e un altro ne osservi un altro. Ma i ruoli e le posizioni cambiano, anche fino a invertirsi.

Quindi, se ciò che esiste, che ci ha portati dove siamo, non avesse pari dignità, chiunque, da qualunque balcone, avrebbe ragione di traguardarmi nel suo mirino e fare fuoco. Lui credendo di averne diritto, io credendo di aver subito un sopruso. Esattamente come sta accadendo, tanto alla faccia del presunto progresso, quanto a quello dei presunti cartacei diritti individuali sventolati dalle altrettanto presunte democrazie che, al posto del rogo, hanno messo più sofisticati sistemi di emarginazione, controllo ed eliminazione.

Leggerezza

Tutto un ingarbuglio imposto dall’identificazione di noi stessi con qualcosa che crediamo ancora essere noi ma che, di fatto, non è che un’incastellatura che con noi non ha nulla a che vedere. La domanda da porsi sarebbe: perché un’incastellatura ha più o meno valore di altre? Perché quelle che vedo non sono capitate a me? Come se le gocce della pioggia cadute sul parco con piscina di Abu Dhabi fossero di maggior pregio di quelle andate a finire su uno slum di Nuova Delhi.

Il mio io quando pretende per sé non è che motivo di malesseri e conflitti. Prenderne coscienza riduce il male, ci emancipa dalle illusioni, fa insorgere il rispetto e consumare le energie per la bellezza e l’amore.

È questa parità che potrebbe edificare una realtà meno sanguinosa, una pace più radicata, un’evoluzione esistenziale e una messa al bando dell’idolatria scientistico-tecnologica. Ma, concentrati sul concetto opposto, non se ne parla neppure.

Il primo moto che ci tiene lontani da quel punto di svolta che tutti – possiamo giurarci – vorremmo è l’importanza personale, che ognuno, in questa cultura antropocentrica prima ed egocentrica poi e di conseguenza bellicista, esprime come un fatto spontaneo e irreversibile, ora esaltato dal liberismo e dalla liquidità dei valori.

È possibile una cultura capace di sviluppare psicologie meno vanesie, più mature? Certo che sì. Il passo dall’immaturità alla compiutezza di se stesso non è una chimera. Molte persone lo compiono entro la vita di cui dispongono. Spesso accade per un trauma o comunque per una forte emozione se l’educazione familiare non ci ha già pensato. Da egoisti ed egocentrici, quanti traumatizzati dicono poi di avere capito quali sono le cose che contano; quanti genitori, prima irresponsabili, poi si fanno ligi con la nascita di un figlio. Ma non è questo il punto, il punto è che se lo facciamo privatamente, significa che non dobbiamo andare a scuola per farlo anche politicamente. Non c’è niente da imparare, è già in noi quel potere di cambiare le cose, cioè di cambiare noi stessi.

Ma se la questione è così elementare come mai non sta già spuntando all’orizzonte? O peggio, come mai non è già alta in cielo? È qui che tutti i divanisti, quella categoria che riesce ancora a guardare la tv e credere di venirne informata, e che viene invece istruita a mantenere lo status quo, potrebbe prendere coscienza che forse, ma forse, ma forse forse, c’è qualcosa dietro le quinte. Che forse il gran pavese che orna il panfilo delle narrazioni giornalistico-governative, secondo le quali le cose vanno bene o andranno a posto, forse eh, non è che un diversivo per evitare che scoppi tutto. Che, forse, sanremo, la champions, il grande fratello, le telenovele, il woke, il sostenibile, Putin a Lisbona, la guerra per la pace, l’Iran canaglia, l’ultimo iPhone, non sono che stratagemmi al bromuro, assuefacenti oppiacei per seguitare a tenere troppi alla longhina, entro il tondino del mulino bianco. I mercanti guidano sempre le carovane. E le carovane hanno al seguito schiavi e bestie.

Ma dal divano ci si può alzare a guardare cosa c’è dietro la tv e, invece di stracciare le vesti, stracciare le egregore e non sedersi più. Alzarsi per avviare quel processo verso il benessere profondo, quella presa di distanza dalle pretese personali, verso quella presa di coscienza di che razza di parassita sia l’ego, di quanto prosperi a cavallo della nostra cecità e a spese della nostra energia, di quanto ci induca a bisogni fatui e a scelte adatte a mantenerci in preda a logiche dis-graziate.

Riconoscere il reticolo di sinapsi satanico-magistrali dell’io, è possibile a tutti gli uomini.

Lorenzo Merlo


Nota

  1. https://www.sinistrainrete.info/societa/29600-norberto-albano-campi-di-concentramento-skinneriani-come-orizzonte-storico.html


Il bambino rappresenta la luce dell'amore...

 


L’antropologo-teosofo Bernardino del Boca scrive nella sua  rivista Età dell’Acquario n. 56/1988:   La Terra oggi è piena di negatività, di egoismo e di ignoranza, cioè piena di quelle negatività che Alphonso de Carranza (1527-1607) aveva profetizzato nella sua opera per il futuro: la nascita di bambini malformati, l’uso di vendere i bambini, di far rapire i bambini dai delinquenti, lo sfacelo di un mondo che vive solo per avere, senza amore, senza carità cristiana. La società che non si cura dei bambini, che giustifica guerre e ingiustizie in nome di stupidi ideali che mascherano il più gretto egoismo, è la causa prima della distruzione del mondo…”


La copertina del libro “Il Segreto” di Bernardino del Boca del 1988, riporta la foto di un  suo quadro nel quale, accanto al volto di una statua che rappresenta la divinità di  Madre Terra,  ha dipinto quello di un bambino.



Il giornalista d’inchiesta Gianni Lannes – sito “Su la testa” -, autore di diversi libri, tra i  quali “Bambini a perdere”., il 4/1/2025  scrive questo articolo   https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/2025/01/bambini-perdere.html

 dal quale copio:  “….Non è una leggenda metropolitana ma il più feroce dei crimini che rende più del traffico di droga. Ecco un tabù generale. Da almeno tre decenni l'Italia è il crocevia europeo del traffico di organi umani espiantati a tante piccole vittime con una violenza impunita che uccide. Non a caso, proprio nel Belpaese svaniscono bambini e adolescenti a migliaia. E sempre non a caso, proprio l'Italia, alla stregua dello Stato del Vaticano, non ha mai ratificato la Convenzione del Consiglio d'Europa sul traffico di organi umani. E comunque non a caso, nel disinteresse nazionale e internazionale, il governo italiano non risponde agli atti parlamentari di sindacato ispettivo relativi a tali crimini contro l'umanità inerme.  Ad esempio, l'interrogazione parlamentare numero 4/05225 del 4 febbraio 2016, dopo 9 anni non ha avuto ancora risposta. Come mai?  Per giunta, l'inquilina pro tempore di Palazzo Chigi glissa sul gravissimo fenomeno…. “


Da questo articolo di Lannes: “Bambini antidoto di guerra!”

https://sulatestagiannilannes.blogspot.com/2022/03/bambini-antidoto-di-guerra.html#more

Il bambino è un “piccolo Messia”: “Questi Messia, questi Profeti, potranno aiutarci ad allontanarci da quanto c’è di più basso nella nostra natura, affinché possiamo guardare oltre, attraverso questa eminente bontà che è diffusa attraverso l’umanità. Quanto è difficile, però, questo compito messianico! È necessario cambiare il cuore. E questo cambiamento di cuore, quanto è difficile per noi da compiere. È difficile distaccare l’uomo, l’essere umano dai suoi possedimenti, l’umanità dal suo egoismo e dargli gli occhi per vedere il bene che è sempre presente negli altri”.

Per questo la Montessori ci invita a “guardare al bambino come a un nostro collaboratore. Lui ha una parte del compito, noi un’altra. Il suo compito è donarci la prima luce del vero amore. La società umana non può cambiare senza che gli adulti e i bambini collaborino. È necessario prendere questo tesoro e coltivarlo. Fare ciò non è facile e questo è il compito dell’educazione. Nella vera educazione non è solo il bambino che viene educato, ma anche l’adulto subisce una trasformazione”.

Questo percorso di rigenerazione è un fenomeno dell’evoluzione; il problema consiste nell’acquisirne consapevolezza, per ampliare la coscienz
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Paola  Botta  Beltramo



 

Krishna, l'Avatar contento!

 

Il concetto di Dharma nella Bhagavad Gita...


“Tenendo conto del tuo dharma, non devi tentennare. Per un guerriero, non c’è niente di meglio che combattere il male. Il guerriero che affronta una guerra siffatta dovrebbe essere contento, Arjuna, perché essa si presenta come un cancello aperto per il cielo. Ma se non partecipi a questa battaglia contro il male, subirai l’onta, violando il tuo dharma e il tuo onore.”   (Bhagavad Gita II, 31-33)

Spesso ci si chiede se e come l'insegnamento advaita (non-duale), punta di diamante della filosofia indiana, possa essere compreso, o semplicemente recepito, dalle menti occidentali estremamente speculative e dedite all'empirismo dualistico.  In effetti solo alcuni cercatori di verità, che santificano la loro esistenza alla ricerca di Sé,  sono veramente interessati alla Conoscenza ed alla Consapevolezza della unitarietà e inscindibilità della vita, manifestata nelle sue singole parti (individui) come in una sorta di ologramma che ripete in ogni sua frazione la conoscenza dell'intero.

Eppure nella tradizione induista esiste una scrittura di matrice non-dualistica che cerca di integrare un insegnamento di attuazione dharmica (espletamento delle proprie mansioni in armonia tra le propensioni innate e la spinta evolutiva) con la teoria dell'Assoluto che tutto contiene ed in cui tutto si manifesta per sua spontanea emanazione. Questo testo è la Bhagavad Gita, la parte più spirituale del poema epico il  Mahabharata.

Nella Bhagavad Gita viene affermato egualmente che "Tutto è Uno" e che l'Atman (L'IO Assoluto) è già perfetto in se stesso ed è presente, come intima natura, in ognuno di noi, ma allo stesso tempo vengono impartiti dei consigli (od istruzioni) sul come realizzare questa verità. In un certo senso nel testo  il saggio Krishna rivolgendosi metaforicamente ad Arjuna,  il suo discepolo, lo incita ad agire, come se il piccolo io (ego), che egli riconosce come il suo sé, fosse reale. Allo stesso tempo lo istruisce a non considerare come propri i vantaggi o gli svantaggi del suo agire ma come semplice conseguenza di un espletamento dharmico.

Questo atteggiamento interiore di agire con  "distacco" è considerato anche  nella dottrina buddhista dell’anatman, secondo la quale l’uomo è privo di ogni “io” e persino del Sé,  mettendo però in guardia il cercatore su tali  insegnamenti che possono, se divulgati indiscriminatamente e interpretati in modo non appropriato, produrre risultati decisamente deleteri. Nagarjuna stesso, grande logico buddhista e fondatore del Vacuismo o Via di Mezzo (Madhyamaka), avverte: «La vacuità, male intesa, manda in rovina l’uomo di corto vedere, così come il serpente male afferrato o una formula magica male applicata».

Per questo, l'insegnamento di Krishna contiene indicazioni apparentemente contrastanti, a volte viene indicato l'Assoluto come unica realtà, tal altra si incita a considerare accuratamente le convenienze e le opportunità dell'agire dharmico.


Forse questo altalenare fra la libertà e la giustizia è ciò che veramente è necessario alla mentalità occidentale, il cui procedere diretto  in una linea retta, essenzialmente giustificato da ragioni contingenti ed utilitaristiche (definite anche scientifiche per dare loro un senso compiuto) ha fatto perdere agli individui la capacità di personale discernimento e discriminazione.

Ma la verità non è qualcosa che può essere trasmessa come una comune conoscenza delle cose esteriori, come un processo. La verità è la qualità dell'Essere e può essere sperimentata solo  direttamente e non raccontata.

I grandi misteri imperniati sul silenzio non si profanano impunemente. Accostarsi ad essi con leggerezza o credere di poterli trasmettere senza le dovute qualificazioni espone a gravi rischi: in primis la follia e la perdita dell’orientamento. Il linguaggio comunemente usato (vaikhari) possiede solo un quarto del potere della parola; i rishi vedici sostenevano che esso non può descrivere la traccia lasciata da un uccello nell’aria. Da ciò la necessità di percepire la propria vera Essenza attraverso la comunione empatica con un vero Maestro che ha realizzato in Sé la Verità.

Da ciò se ne deduce che anche la più raffinata scrittura, come può esserlo la Bhagavad Gita (per non parlare di scritture inferiori come la bibbia, i vangeli od il corano) non può trasmettere la Conoscenza, può solo risvegliare un interesse verso la ricerca da parte del lettore genuinamente interessato alla Verità.

Cosa questa  totalmente contraria ai dettami  delle religioni che si basano sul "libro", i cosiddetti testi  dogmatici "rivelati" che portano all’esasperazione del conflitto tra uomo e natura di matrice ebraico-cristiana, al nichilismo e materialismo impliciti in un certo buddhismo ritualistico e al dualismo camuffato da non-dualismo scaturente dalla cattiva comprensione della dottrina advaita in certa new age – che ritiene il mondo fenomenico una sorta di apparenza né reale, né irreale (maya). Queste posizioni oscurantiste  hanno favorito lo sviluppo di forme perniciose di scientismo riducenti la persona ad un mero meccanismo biologico.

Ed  è nella Bhagavad Gita che è possibile trovare alcune frasi molto esplicative sull’argomento, ovvero sul significato dell’agire nel mondo e della formazione del karma individuale, le quali  ovviamente vanno lette nella comprensione che anche tali insegnamenti sono un’ignoranza (mascherata da conoscenza) per cancellare altra ignoranza (che chiamiamo conoscenza empirica). Poiché… la spiritualità è qualcosa che riguarda l’interiorità dell’individuo e non può essere appresa da un qualsiasi libro. E questo è esattamente ciò di cui noi occidentali avremmo bisogno, impregnati come siamo di dogmatismo scientista o religioso.


Paolo D'Arpini - Comitato per la Spiritualità Laica



Dolori alle articolazioni. Il consiglio di Osho...

 


In risposta alla domanda di una meditante che chiedeva  come lenire i dolori alle articolazioni Osho rispose: “Inizia a fare alcune cose e andrà tutto bene… Fai una doccia calda e subito dopo una doccia fredda. L’acqua deve essere davvero calda. Aumenta il calore gradualmente. Non c’è bisogno di torturarti, ma deve essere molto calda in modo che tutto il corpo si riscaldi.

Il punto è: quando il corpo è veramente caldo tutti i pori si aprono, tutte le cellule si espandono e tutte le articolazioni si allentano moltissimo. Poi con il passaggio improvviso al freddo tutto si restringe di nuovo. Poi usa di nuovo l’acqua calda, poi di nuovo quella fredda. Devi farlo tre volte: una doccia calda da due a tre minuti, una doccia fredda da due a tre minuti, poi di nuovo calda, poi di nuovo fredda.

Quando le cellule si espandono e si restringono diventano flessibili e la flessibilità è necessaria. Alcuni punti del tuo corpo sono diventati rigidi: ecco perché ti fanno male, hanno perso la loro fluidità. Ma non c’è niente di cui preoccuparsi. Acqua davvero calda e acqua davvero fredda... E ti divertirai.

Un’alternativa alla doccia calda è strofinare tutto il corpo con un panno asciutto, un asciugamano. Strofina soprattutto le parti che fanno più male, scaldando tutto il corpo. Salta, corri e strofina, finché non inizi a sudare. Poi fai la doccia fredda...

Osho




Osho: "And Now, And Here"...

 


Nei millenni più recenti, siamo diventati dei credenti piuttosto che dei ricercatori. Si è affermata una mente che crede invece di una mente che indaga. Crediamo immediatamente, non ci mettiamo mai alla ricerca. E qualunque cosa valga la pena di essere raggiunta, in questo mondo, non può essere raggiunta senza indagare, senza cercare. E anche se, senza cercare, fosse possibile raggiungere qualsiasi altra cosa, non è possibile raggiungere il proprio essere senza una ricerca. Quindi la prima cosa è: bisogna avere una mente piena di domande. La prima preparazione è avere una mente che indaga.

Potreste controbattere che siete alla ricerca, che ponete delle domande. Ricordate, tuttavia, che le vostre domande cercano solo una risposta, non le considero delle indagini.

Una domanda non dovrebbe cercare solo una risposta, dovrebbe cercare un’esperienza. Chiunque può darvi una risposta; nessuno può darvi un’esperienza.

Ci sono persone che sembrano indagare e la loro indagine sembra religiosa. In apparenza chiedono: “Dio esiste? Esiste moksha, la salvezza?”. Ma pare proprio che stiano solo cercando delle risposte; qualcuno dovrebbe fornire loro delle risposte, tutto qui. Se la domanda serve solo a trovare una risposta, prima o poi quella risposta si trasformerà in una convinzione, perché chi l’ha posta non è disposto a fare molti sforzi. Ciò che gli interessa è semplicemente incontrare qualcuno in cui credere, qualcuno che possa fornire la risposta e soddisfare la sua curiosità.

Io non ho risposte per nessuno. Non mi interessa fornire delle risposte. Se mi esprimo a volte in termini di risposte alle domande, è solo per evitare che le persone scappino del tutto. Vorrei che rimanessero un po’ più a lungo, in modo da poter distruggere il loro desiderio di trovare risposte e aiutarle invece a far crescere il seme che desidera l’esperienza.

Le persone sono disposte a ricevere delle risposte, ma nessuno vuole conoscere davvero. Le risposte costano poco. Puoi trovarle nei libri, possono fornirle i guru. Trovare risposte è una cosa assolutamente intellettuale, non ha niente a che fare con il vivere totalmente. È necessaria una ricerca dell’esperienza, è richiesta un’indagine in nome dell’esperienza.

Lasciate che vi racconti una storia, come esempio.

In Tibet viveva un mistico chiamato Milarepa. C’era l’usanza, in Tibet, che quando qualcuno andava a incontrare il maestro, doveva prima girargli intorno tre volte, poi inchinarsi davanti a lui sette volte e infine sedersi rispettosamente in un angolo, finché il maestro non lo chiamava e gli permetteva di chiedere. Milarepa andò dritto dal maestro e lo afferrò per il collo. Non gli girò intorno tre volte, non si inchinò sette volte e tantomeno aspettò il suo turno seduto in silenzio in un angolo. Afferrò semplicemente il maestro e disse: “Dimmi velocemente cosa vuoi dirmi, perché non so nemmeno cosa voglio chiedere. So solo che non so niente. Se hai qualcosa da dire, allora parla!”.

Il maestro disse: “Ora aspetta un minuto e comportati bene. Non conosci il rituale per fare una domanda? Non sai che devi girare intorno al maestro tre volte, inchinarti davanti a lui sette volte e poi sederti in un angolo finché non ti chiama?”.

Milarepa disse: “Lo farò più tardi. Dimmi, se mentre giro tre volte, mi inchino sette volte e mi siedo rispettosamente in un angolo, dovessi morire, chi sarebbe responsabile? Ti assumerai la responsabilità della mia morte o sarò io il responsabile? Se mi prometti che non morirò mentre faccio tutto questo, sono disposto a girare e a inchinarmi non solo sette volte, ma settecento. Prima rispondimi, le formalità possono essere espletate più tardi, con calma”.

Il maestro disse: “Siediti. Tu sei il genere di persona che è alla ricerca di un’esperienza, non di una risposta. È un bene che tu non mi abbia girato intorno, perché quel rito è destinato solo a coloro che riescono a farlo. Quando vedo che una persona mi gira intorno, capisco che è la persona sbagliata, perché dimostra di avere ancora il tempo per farlo”.

Quindi il primo elemento che cerco in un ricercatore è l’elemento dell’indagine: la ricerca non di una risposta, ma dell’esperienza; non la ricerca di una…

Testo di Osho tratto da: And Now, And Here Vol. 2



Religione ed il monopolio dell'aldilà...




Il discorso religioso si presenta come il più difficile da affrontare, dati i due significati completamente diversi che alla religione vengono attribuiti. Il primo è la convinzione profonda dell’esistenza di una legge superiore, mirabilmente coerente e che regola tutto l’universo. A tale legge nessuno può sottrarsi per effetto dell’ingegno umano. Esso quindi, per quella limitata possibilità di scelta che appare essergli concessa, altro non può che sforzarsi di pensare e agire conformemente a quella legge, per quanto i maggiori maestri possano apprenderne, osservando la natura che li circonda e di cui loro stessi fanno parte (conosci te stesso).
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E’ chiaro però che non sia della religione così intesa che vi sia “tutto da rifare”, bensì di ciò che, in secoli e secoli di azione costante e pervicace sono riusciti a farne i professionisti dell’aldilà.
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L’uomo ha paura della morte. Ne ha paura perché non può avere nozioni che di morte altrui, e perché i cadaveri assumono aspetto e odore repellente. Non si sa quale genio maligno abbia intuito che la paura della morte potesse rappresentare il più colossale affare della storia. Bastava “annunziare” che la morte era un fatto provvisorio e che era seguita dalla vita eterna. Precisando però che tale vita eterna sarebbe stata di godimenti ineffabili o di sofferenze atroci a seconda della soddisfazione dei “ministri di Dio”. Per i detti ministri fu un’autentica pacchia. E vi fu gente che abboccò fino all’eroismo, e molta di più che, in nome della bontà e dell’amore, commise le più efferate violenze e le più ignobili frodi.
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Prendiamo il cristianesimo, o meglio i cristianesimi, sia perché siamo stati tutti doverosamente e anagraficamente cristianizzati prima ancora di sapere di esistere, sia perché, come Italiani, abbiamo scontato più severamente la colpa di aver permesso ad una genia di Ebrei dissidenti di spacciarsi addirittura per continuatrice della romanità e di fregiarsi delle sue glorie. La trovata si dimostrò così felice che prolificò gran copia di imitatori.
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Non erano trascorsi due secoli dal supplizio subito (forse) sul Golgotha da alcuni ribelli Zeloti, uno dei quali noto come Joshua il Nazoreo, che si sviluppò in tutto l’impero una serie di culti incentrati su quel mitico profeta, ma diversamente forgiati dai rispettivi preti. L’imperatore Costantino commise a quel punto il fatale errore di pensare che l’estendersi di quelle superstizioni potesse divenire un elemento unificante dell’impero, ormai in grave crisi, purché – beninteso – la piantassero di litigare e accopparsi tra loro. Convocò allora (lui, pagano) i più significanti esponenti della molteplice setta, affinché trovassero in qualche modo un accordo mono-cristiano, in cambio del favore della corte imperiale.
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Preghiamo il lettore di considerare questi fatti certi:
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1) Che il vicario di Dio in terra, successore del Pietro nominato pretesamente dal Cristo (tu es Petrus, et super hanc petram…) a Nicea, dove tutte le controversie “teologiche” avrebbero dovuto essere risolte e dettati i dogmi definitivi della promettente religione, non ci mise piede. Si limitò a mandarci due umili diaconi, come osservatori, e nessuno degli accaniti litiganti chiese il suo parere.
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2) Che le tesi rappresentate dai vari gruppi di vescovi (auto-nominatisi) erano talmente lontane tra loro da doversi seriamente dubitare che si trattasse di varietà di una stessa “fede”. La più accanita delle controversie, capeggiate da tale Ario e da tale Attanasio, vertevano su punti talmente incompatibili che, a parte il nome di Joshua, non si vede proprio che avessero in comune. Per tacere delle concezioni di Giustino, di Atenagora, di Teofilo, di Origene, di Tertulliano, ognuna delle quali, nel cinquecento, avrebbe assicurato un rogo pubblico in piazza. La controversia Ario-Attanasio, risoltasi a Nicea per scelta dell’imperatore a favore del secondo, si protrasse però per oltre cinquant’anni (conc. di Costantinopoli, 381) con alterne vicende. Insomma, per 50 anni almeno, i cristiani – fortunati destinatari della rivelazione operata da Dio stesso, non seppero neppure se il crocefisso del Golgotha fosse o meno figlio di Dio, o se il medesimo fosse o meno trino, o perché avesse atteso tanti secoli a rivelarsi a quattro gatti di pastori nomadi, lasciando nella totale ignoranza tutti i suoi “figli”, la quasi totalità dei quali sentì per la prima volta menzionare la morte-resurrezione del crocefisso da alcuni individui prepotenti col colletto bianco, armati fino ai denti, QUINDICI SECOLI più tardi.
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3) Che, da allora ad oggi, il vicario di Dio sedente in Vaticano si è dato gran da fare a integrare con nuove “verità” quelle rozzamente rivelate dall’ antiquato Autore. Attendiamo un pontefice in zucchetto bianco, che, alla presenza di milioni di bigotti plaudenti, proclami che non si tratti di trinità, ma di quatrinità, facendone parte anche la “madre di Dio (!!!”).
Anzi, per quanto attiene particolarmente ai cattolici e alla quantità di atti di culto dedicati a costei, i sacramenti saranno amministrati in nome della Madre, del Padre, Del Figlio e dello Spirito Santo (in funzione di chierichetto).
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Davanti alla prova evidente che la sostanza dei vari cristianesimi non sia stata che un cumulo di stolte superstizioni, sovente in contraddizione tra loro, alimentata ad arte da alcuni fervidi ingegni, della stazza di un Saulo da Tarso, che riuscirono a fondarci sopra un potere immenso e quanto mai proficuo, ci si trova inevitabilmente a chiedersi come essi abbiano potuto infestare per quasi venti secoli buona parte del mondo, coinvolgendo anche personaggi di tutto rispetto sia sul piano morale che su quello intellettuale, insigni artisti e poeti, grandi demiurghi e condottieri, nature generose ed altruiste ovunque rispettate ed onorate.
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A nostro avviso, tutto dipende da un fenomeno psicologico che ha sempre inficiato la cosiddetta libertà di pensiero. E’ l’abitudine mentale. L’attitudine cioè della nostra specie a credere in qualcosa semplicemente a forza di sentirla ripetere da tutti, travolgendo ogni barriera critica. E il cristianesimo fu il non plus ultra di una siffatta tecnica, applicata al neonato fin dal taglio del cordone ombelicale, subito sostituito da altro e più robusto cordone , destinato a restare fino alle esequie. In Italia, riuscì persino ad assicurarsi la tolleranza e la complicità dello Stato fascista, che pur possedeva ben chiari contenuti, non precisamente evangelici.
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Ma al cristianesimo e ai suoi amministratori non va attribuito solo lo stato di incapacità proprio dell’uomo moderno occidentale. Va chiesto ragione degli orribili delitti commessi sin dalle sue prime affermazione. Di essi, naturalmente , i “buoni parroci” non fanno menzione ai fedeli, ma sono disponibili ricostruzioni storiografiche assai serie e meticolose.
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Indichiamo al lettore quella che è certamente la più vasta e completa: si tratta dei dieci volumi della storia criminale del Cristianesimo ( Kriminalgeschichte des Christientums ), di Karlheiz Deschmer) pubblicata in Germania nel 1989, e in traduzione italiana dalle edizioni Ariele nel 2000. Le vittime della ferocia clericale, ogni qual volta le è occorso di disporre in qualche modo di una giustizia penale o di una forza militare, sono state milioni, donne e bambini compresi, e nessun fiore fu deposto sulle loro fosse, nessuna intercessione operò la Madonna in loro favore.
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Oggi nello stato in cui i vari cristiani, avviati al sincretismo dal vergognoso calabrache del Consiglio Vaticano Secondo, sempre allo scopo di accumulare ricchezze e potere,hanno ridotto la Terra ricevuta in dono, non c’è più spazio a dubbi. La religione dell’amore, dell’umiltà, della povertà, la religione che si è appropriato Francesco D’Assisi e ha arso vivo Giordano Bruno, possiede oggi ricchezze smisurate, di cui non si ha neppure piena contezza, e tutto ciò che fa per gli umili e gli sventurati è di sollecitare oboli in cambio di Paradiso. E quelli continuano a seguire salmodiando processioni tutte colorate lunghe chilometri, spalleggiando gravosi e venerati pupazzi, per essere perdonati dei loro peccati dai monopolisti dell’al di là.
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Non si scappa: se si vuol salvare l’Uomo e la Terra, dev’essere anatema contro la Chiesa che non è né santa né romana. L’aberrazione cristiana, piagnucolosa e feroce a un tempo dev’essere cancellata da tutte le coscienze. Ma basta farsi due passi per una qualsiasi città, borgo o villaggio, per sentirsi “tremar le vene e i polsi”! Basta toccare l’argomento, anche con rispettabilissime persone, e magari cari amici, per sentirsi assalire dallo sgomento. Basta poi contemplare le meraviglie d’arte di cui l’Italia è ridondante, tutte o quasi marchiate di cristianesimo, per dubitare che lo scopo sia oggettivamente raggiungibile.

Occorre una decisione eroica.
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Rutilio Sermonti

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"Filosofia della rivolta. Critica della sinistra radicale" di Eduard Jakovlevič Batalov - Segnalazione libraria



Tempo addietro Alessandro Visalli mi ha segnalato un libro del 1973: Filosofia della rivolta. Critica della sinistra radicale, del filosofo sovietico Eduard Jakovlevič Batalov. Il libro, uscito in edizione italiana qualche anno fa per i tipi della Anteo Edizioni, benché infarcito di refusi e tradotto malissimo (solo chi disponga di una buona conoscenza degli argomenti è in grado di afferrare il senso di certi passaggi al limite della incomprensibilità) è di indiscutibile interesse storico da vari punti di vista.

In primo luogo, perché questa analisi di un intellettuale russo dell’era brezneviana sulle sinistre radicali degli anni Sessanta in Occidente, permette di comprendere meglio con quali occhiali teorici e ideologici la cultura sovietica di allora osservasse la società tardo capitalista e i suoi conflitti di classe, le lotte del Terzo Mondo, le prospettive del movimento comunista e della rivoluzione mondiale, il tutto non molto prima di andare incontro alla propria dissoluzione. Poi perché, a mezzo secolo di distanza dalla sua stesura, il bilancio che Batalov traccia dei limiti della cosiddetta Nuova Sinistra e delle ragioni del suo fallimento (estendibile al fallimento dei “nuovi movimenti” che ne hanno raccolto l’eredità culturale e politica) anticipa una riflessione critica che, alle nostre latitudini, è maturata solo a partire dai primi del Duemila. 

Infine, perché è una lettura che aiuta a capire come i punti di vista dei soggetti criticati e il punto di vista di chi li critica, per quanto apparentemente opposti, condividessero una serie di elementi che hanno impedito a entrambi di prevedere e contrastare la controrivoluzione liberale che di lì a poco li avrebbe duramente sconfitti.

Stralcio di un articolo di  Carlo Formenti tratto da Sinistra in Rete




Errare humanum est, perseverare autem diabolicum...

 


Nonostante l’impegno che ognuno può mettere per migliorare lo stato della storia, seguendo strade sbagliate, non potrà che viverne la mortificazione.

Non si può risolvere un problema con gli strumenti che l’hanno creato, pare sia un’affermazione di Einstein (1879-1955). Ipotizzando che il fisico tedesco fosse un cosiddetto genio – ma pare abbia anche detto che tutti siamo geni – penso che la sua affermazione, sia un culmine al quale chiunque può arrivare. Tuttavia, secondo il principio che capire non conta nulla, in chiunque condivida il motto del noto scienziato della linguaccia, certamente non scaturirà un aggiornamento del proprio comportamento. Vale a dire che, nel suo fare, non cesserà di contraddirlo. Mentre chiunque, nel rispetto di un secondo principio che ricreare è necessario, inizierà ad osservare la realtà per riconoscere in che termini la formula einsteiniana corrisponde a verità. Un atteggiamento che lo porterà ad escogitare modalità differenti dalle consuetudinarie, cioè egocentriche, per eludere all’origine il problema.

Dei problemi che si tenta di risolvere con i mezzi che l’hanno generato, Ronald David Laing (1927-1989) ne ha dato una rappresentazione nelle sue pubblicazioni. Lo psichiatra scozzese ne evidenzia un quadro osservando la realtà delle relazioni interpersonali. Nelle situazioni di conflitto (problema) ambo le parti, sostenendo la propria posizione nel tentativo di ridurre il nodo, di fatto, lo alimentano. La lettura della questione da una prospettiva egocentrica, necessariamente nega l’altra se di pari posizione. L’ingarbuglio diviene quindi sempre più profondo, fino alla sofferenza reciproca, primo combustibile dell’esplosione violenta rivolta a sé o al prossimo. Impotenza, prevaricazione, collera, prostrazione, vendetta, cattivi pensieri sono le emozioni che vanno a riempire di sé la realtà delle parti. Ovvero, nonostante il tentativo di fuggirla, la ingarbugliano in una morsa penosa, che si serrerà via via di più finché l’ottica che ne ha avviato la stretta, non cesserà di venire impiegata.


“Giovanni Il tuo guaio è che sei invidiosa di me.

Maria Il tuo guaio è che tu la pensi così.

Giovanni Non mi dai credito di nulla.

Non sopporti d’ammettere che me ne spetti.

Maria È qui dove ti sbagli. Non sopporti d’ammettere che non me ne importa.

Giovanni Sei proprio come mia madre.

Maria È certo che mi tratti come lei.

Giovanni Be’ allora non comportarti come lei.

Maria Cerchi di distruggere me perché odi lei.

Giovanni Perché non la smetti di proiettarti. Sei tu la frigida.

Maria Quando ti ho conosciuto non lo ero.

Giovanni Potresti fare a meno di non morderti la fica nel disprezzare il mio cazzo.

Maria Quando la metti su questo piano mi perdo d’animo.

Giovanni È comunque un inizio. È questa la prima volta oggi che ammetti un minimo di inadeguatezza.

Maria Proprio non si può essere amici?

Giovanni Certo. Non ho mai smesso d’esserti amico”. (1)


Raggiungere la consapevolezza di fondare la realtà su una concezione soggettiva, autoreferenziale, egocentrica è la premessa alla soluzione e prevenzione dei nodi. Colui che rispetta ed è capace di amore incondizionato l’ha già in sé. Con essa, possiamo prendere coscienza, trovare evidente, che solo lasciando perdere o dando dignità all’affermazione altrui, il seme del problema non ha di che schiudersi.

Il penoso confronto tra le parti viene meno, quando dalla reazione si passa all’ascolto, che significa presa in considerazione dell’altro, interrompere la prevaricazione del proprio giudizio, lasciare spazio all’assertività e alla lettura fenomenologica. L’arrocco sulla propria verità cessa di venire difeso. L’orgoglio mostra il suo dannoso lato B. L’importanza personale che ci attribuiamo, evidenzia la nuce del nodo. L’assunzione di responsabilità, da – secondo i canoni comuni – dimostrazione di debolezza, muta in forza e potere. L’energia che sperperavamo pur di averla vinta, diviene a disposizione per seguire strade nuove che portano alla rivoluzione del mondo, delle relazioni, alla bellezza, alla serenità, alla salute.

Anche se la cultura ci spinge alla competizione fino ad ammettere la sopraffazione, così come osservato per la relazioni interpersonali, la medesima considerazione è mutuabile ad ogni problema diretto e indiretto. Al fine di eluderlo, serve una prospettiva differente da quello che l’ha generato. È una verità che vale dall’aritmetica – ipotetico terreno di realtà elementare – fino a qualunque altro maggiormente complesso. Uno di questi, potrebbe riguardare la realtà nella sua totalità, nella misura in cui accreditiamo la scienza, quale unico strumento in grado di definirla e di estrapolare da essa, le uniche cosiddette verità. Tuttavia, il suo criterio d’indagine, la sua prospettiva, si dipana su un terreno che essa stessa ha, autoreferenzialmente, circoscritto ed eletto a superiore. Si tratta del grande campo logico-razionale. Grande, ma non unico. Nonostante il suo inconsapevole impegno a crederlo e a farcelo credere, esso non è che la metà dell’infinito volume che contiene tutti i pensieri e le azioni degli uomini. Tra i mille che se potrebbero citare, ne sono campioni questo articolo, commenti inclusi, e quest’altro, in cui, ogni riga si muove e fa riferimento al piano logico-razionale-dimostrativo. Il pezzo tratta della costituzione dell’universo e perciò, anche della realtà e di noi tutti. Una questione dalla quale niente del volume dovrebbe essere escluso. Tuttavia, in nessuna riga fa capolino il piano esistenziale, che chiamiamo emozionale e sentimentale, mai quantitativamente misurabile, nonostante sia il solo dal quale può fiorire il mondo e ogni sua descrizione. Uno spazio che non è governato dalla ragione e neppure dalla logica, più rappresentabile dal quantistico che dal meccanicistico. In esso, infatti, diversamente da quanto accade in terreno meccanicistico-deterministico, la prevedibilità tende a ridursi e a restare in balia della probabilità, un’area vagolante, in cui il deus ex machina del causa-effetto cede il passo al miracolo, all’impossibile, alla serendipità, alla variabilità e circolarità del tempo, all’assenza dello spazio, alla contiguità di tutto, all’evidenza che l’altro è un noi in altro tempo e modo, che – fatto salvo gli ambiti chiusi, quelli in cui tutti sanno tutto e condividono il gioco – la comunicazione non è lineare ma circolare. Di più, in esso, logica e dimostrazione i due pilastri, dell’apparente incrollabile edificio della scienza, non esistono proprio, e la realtà non c’è più, se non nelle nostre visioni. L’assolutismo dell’oggettività si palesa come dogma, miraggio, chimera. Quando si vuole assoggettare l’esistenziale al loro dominio, è come immettere tossine che generano problemi irrisolvibili con gli strumenti che li hanno generati, che castrano la bellezza e la creatività evolutiva, sola strada giusta verso la vita serena.

Tanto l’uomo comune, quanto il ricercatore, ma anche il sociologo e qualunque studioso, consumano l’energia della vita per dedicarsi a statistiche, algoritmi, percentuali, intelligenza artificiale e chatgpt. Lo fanno con serietà, come è serio il bigotto religioso. Loro idolatrano però la scienza. Sono cioè scientisti – come chiunque formato da questa cultura – ovvero coloro che considerano la cosiddetta scienza quale solo ambito capace di generare verità, tra cui la sola attendibile descrizione del reale. Uomini sulla strada sbagliata, che corrono certi di se stessi e delle loro munizione di logica, raziocinio e nominalismo, a velocità ora digitale, cioè senza alcuna possibilità di relazione e controllo con il criterio che li domina, ma in totale dipendenza dalla tecnologia. Moltitudini che pretendono la dimostrazione per accreditare qualsivoglia voce estranea al loro monoteismo meccanicistico, che non sospettano niente di quanto è conoscenza oltre il proprio steccato ricamato da riconoscimenti accademici, da ossequi popolani, da carriere dispiegate al mondo. Nel rispetto dell’educazione ricevuta e mai messa in discussione, come frotte fanatiche, percorrono il rettilineo del buon senso, della scienza e della ragione senza mai fermarsi, né lasciarlo. Seguitando a vedere il mondo come un oggetto e mai come relazione. Il percorso è fornito di tutto ciò che serve alla vita. Una strada dritta, costruita con le teste appiattite di cui i magazzini del progresso straboccano. Sfrecciano attraverso gallerie scavate in montagne di corpi esanguati dal mercato, dalle sue leggi, dalla sua tirannia. Gli acritici eroi di se stessi, sono lanciati a velocità che nascondono la rete di conoscenza composta da viottoli, carrozzabili, piste polverose, tratturi sconnessi, selciati storici, ciottolati artistici. A loro non importa, e ridono di chi li ammonisce, di chi li redarguisce sul senso a fondo cieco che hanno imboccato; di chi sventola la bandiera analogica, pregna di misura d’uomo. Anzi, dalla loro strada sbagliata, dalle loro deccapottabili, con diritto d’aguzzino, li denigrano.

Logica e razionalità non hanno a che vedere con emozioni e sentimenti, i quali svolazzano in un cielo alogico e irrazionale, privo di materia, pregno di flussi energetici ancestrali, nel quale mente, coscienza, e universo non sono elementi separati, individualmente analizzabili, ma la realtà stessa, riflessi della coscienza. Per accedere al mistero del mondo, i gelidi strumenti meccanici non possono produrre alcuna convincente soluzione. Fatto salvo le esigenze storico-organizzative, la dimensione umana, il suo nucleo creatore, non rispetta alcuna legge materiale. Non comprenderlo, non ricreare questa verità, ci porta a seguitare su strade sbagliate che, nel tentativo di migliorare la nostra condizione, alimenta lo stato di prostrazione, di cui il presente, cui stiamo assistendo, ne è campione esemplare.

Lorenzo Merlo



Nota

  1. R.D. Laing, Nodi, Torino, Einaudi, 1974, p. 29.