Errare humanum est, perseverare autem diabolicum...

 


Nonostante l’impegno che ognuno può mettere per migliorare lo stato della storia, seguendo strade sbagliate, non potrà che viverne la mortificazione.

Non si può risolvere un problema con gli strumenti che l’hanno creato, pare sia un’affermazione di Einstein (1879-1955). Ipotizzando che il fisico tedesco fosse un cosiddetto genio – ma pare abbia anche detto che tutti siamo geni – penso che la sua affermazione, sia un culmine al quale chiunque può arrivare. Tuttavia, secondo il principio che capire non conta nulla, in chiunque condivida il motto del noto scienziato della linguaccia, certamente non scaturirà un aggiornamento del proprio comportamento. Vale a dire che, nel suo fare, non cesserà di contraddirlo. Mentre chiunque, nel rispetto di un secondo principio che ricreare è necessario, inizierà ad osservare la realtà per riconoscere in che termini la formula einsteiniana corrisponde a verità. Un atteggiamento che lo porterà ad escogitare modalità differenti dalle consuetudinarie, cioè egocentriche, per eludere all’origine il problema.

Dei problemi che si tenta di risolvere con i mezzi che l’hanno generato, Ronald David Laing (1927-1989) ne ha dato una rappresentazione nelle sue pubblicazioni. Lo psichiatra scozzese ne evidenzia un quadro osservando la realtà delle relazioni interpersonali. Nelle situazioni di conflitto (problema) ambo le parti, sostenendo la propria posizione nel tentativo di ridurre il nodo, di fatto, lo alimentano. La lettura della questione da una prospettiva egocentrica, necessariamente nega l’altra se di pari posizione. L’ingarbuglio diviene quindi sempre più profondo, fino alla sofferenza reciproca, primo combustibile dell’esplosione violenta rivolta a sé o al prossimo. Impotenza, prevaricazione, collera, prostrazione, vendetta, cattivi pensieri sono le emozioni che vanno a riempire di sé la realtà delle parti. Ovvero, nonostante il tentativo di fuggirla, la ingarbugliano in una morsa penosa, che si serrerà via via di più finché l’ottica che ne ha avviato la stretta, non cesserà di venire impiegata.


“Giovanni Il tuo guaio è che sei invidiosa di me.

Maria Il tuo guaio è che tu la pensi così.

Giovanni Non mi dai credito di nulla.

Non sopporti d’ammettere che me ne spetti.

Maria È qui dove ti sbagli. Non sopporti d’ammettere che non me ne importa.

Giovanni Sei proprio come mia madre.

Maria È certo che mi tratti come lei.

Giovanni Be’ allora non comportarti come lei.

Maria Cerchi di distruggere me perché odi lei.

Giovanni Perché non la smetti di proiettarti. Sei tu la frigida.

Maria Quando ti ho conosciuto non lo ero.

Giovanni Potresti fare a meno di non morderti la fica nel disprezzare il mio cazzo.

Maria Quando la metti su questo piano mi perdo d’animo.

Giovanni È comunque un inizio. È questa la prima volta oggi che ammetti un minimo di inadeguatezza.

Maria Proprio non si può essere amici?

Giovanni Certo. Non ho mai smesso d’esserti amico”. (1)


Raggiungere la consapevolezza di fondare la realtà su una concezione soggettiva, autoreferenziale, egocentrica è la premessa alla soluzione e prevenzione dei nodi. Colui che rispetta ed è capace di amore incondizionato l’ha già in sé. Con essa, possiamo prendere coscienza, trovare evidente, che solo lasciando perdere o dando dignità all’affermazione altrui, il seme del problema non ha di che schiudersi.

Il penoso confronto tra le parti viene meno, quando dalla reazione si passa all’ascolto, che significa presa in considerazione dell’altro, interrompere la prevaricazione del proprio giudizio, lasciare spazio all’assertività e alla lettura fenomenologica. L’arrocco sulla propria verità cessa di venire difeso. L’orgoglio mostra il suo dannoso lato B. L’importanza personale che ci attribuiamo, evidenzia la nuce del nodo. L’assunzione di responsabilità, da – secondo i canoni comuni – dimostrazione di debolezza, muta in forza e potere. L’energia che sperperavamo pur di averla vinta, diviene a disposizione per seguire strade nuove che portano alla rivoluzione del mondo, delle relazioni, alla bellezza, alla serenità, alla salute.

Anche se la cultura ci spinge alla competizione fino ad ammettere la sopraffazione, così come osservato per la relazioni interpersonali, la medesima considerazione è mutuabile ad ogni problema diretto e indiretto. Al fine di eluderlo, serve una prospettiva differente da quello che l’ha generato. È una verità che vale dall’aritmetica – ipotetico terreno di realtà elementare – fino a qualunque altro maggiormente complesso. Uno di questi, potrebbe riguardare la realtà nella sua totalità, nella misura in cui accreditiamo la scienza, quale unico strumento in grado di definirla e di estrapolare da essa, le uniche cosiddette verità. Tuttavia, il suo criterio d’indagine, la sua prospettiva, si dipana su un terreno che essa stessa ha, autoreferenzialmente, circoscritto ed eletto a superiore. Si tratta del grande campo logico-razionale. Grande, ma non unico. Nonostante il suo inconsapevole impegno a crederlo e a farcelo credere, esso non è che la metà dell’infinito volume che contiene tutti i pensieri e le azioni degli uomini. Tra i mille che se potrebbero citare, ne sono campioni questo articolo, commenti inclusi, e quest’altro, in cui, ogni riga si muove e fa riferimento al piano logico-razionale-dimostrativo. Il pezzo tratta della costituzione dell’universo e perciò, anche della realtà e di noi tutti. Una questione dalla quale niente del volume dovrebbe essere escluso. Tuttavia, in nessuna riga fa capolino il piano esistenziale, che chiamiamo emozionale e sentimentale, mai quantitativamente misurabile, nonostante sia il solo dal quale può fiorire il mondo e ogni sua descrizione. Uno spazio che non è governato dalla ragione e neppure dalla logica, più rappresentabile dal quantistico che dal meccanicistico. In esso, infatti, diversamente da quanto accade in terreno meccanicistico-deterministico, la prevedibilità tende a ridursi e a restare in balia della probabilità, un’area vagolante, in cui il deus ex machina del causa-effetto cede il passo al miracolo, all’impossibile, alla serendipità, alla variabilità e circolarità del tempo, all’assenza dello spazio, alla contiguità di tutto, all’evidenza che l’altro è un noi in altro tempo e modo, che – fatto salvo gli ambiti chiusi, quelli in cui tutti sanno tutto e condividono il gioco – la comunicazione non è lineare ma circolare. Di più, in esso, logica e dimostrazione i due pilastri, dell’apparente incrollabile edificio della scienza, non esistono proprio, e la realtà non c’è più, se non nelle nostre visioni. L’assolutismo dell’oggettività si palesa come dogma, miraggio, chimera. Quando si vuole assoggettare l’esistenziale al loro dominio, è come immettere tossine che generano problemi irrisolvibili con gli strumenti che li hanno generati, che castrano la bellezza e la creatività evolutiva, sola strada giusta verso la vita serena.

Tanto l’uomo comune, quanto il ricercatore, ma anche il sociologo e qualunque studioso, consumano l’energia della vita per dedicarsi a statistiche, algoritmi, percentuali, intelligenza artificiale e chatgpt. Lo fanno con serietà, come è serio il bigotto religioso. Loro idolatrano però la scienza. Sono cioè scientisti – come chiunque formato da questa cultura – ovvero coloro che considerano la cosiddetta scienza quale solo ambito capace di generare verità, tra cui la sola attendibile descrizione del reale. Uomini sulla strada sbagliata, che corrono certi di se stessi e delle loro munizione di logica, raziocinio e nominalismo, a velocità ora digitale, cioè senza alcuna possibilità di relazione e controllo con il criterio che li domina, ma in totale dipendenza dalla tecnologia. Moltitudini che pretendono la dimostrazione per accreditare qualsivoglia voce estranea al loro monoteismo meccanicistico, che non sospettano niente di quanto è conoscenza oltre il proprio steccato ricamato da riconoscimenti accademici, da ossequi popolani, da carriere dispiegate al mondo. Nel rispetto dell’educazione ricevuta e mai messa in discussione, come frotte fanatiche, percorrono il rettilineo del buon senso, della scienza e della ragione senza mai fermarsi, né lasciarlo. Seguitando a vedere il mondo come un oggetto e mai come relazione. Il percorso è fornito di tutto ciò che serve alla vita. Una strada dritta, costruita con le teste appiattite di cui i magazzini del progresso straboccano. Sfrecciano attraverso gallerie scavate in montagne di corpi esanguati dal mercato, dalle sue leggi, dalla sua tirannia. Gli acritici eroi di se stessi, sono lanciati a velocità che nascondono la rete di conoscenza composta da viottoli, carrozzabili, piste polverose, tratturi sconnessi, selciati storici, ciottolati artistici. A loro non importa, e ridono di chi li ammonisce, di chi li redarguisce sul senso a fondo cieco che hanno imboccato; di chi sventola la bandiera analogica, pregna di misura d’uomo. Anzi, dalla loro strada sbagliata, dalle loro deccapottabili, con diritto d’aguzzino, li denigrano.

Logica e razionalità non hanno a che vedere con emozioni e sentimenti, i quali svolazzano in un cielo alogico e irrazionale, privo di materia, pregno di flussi energetici ancestrali, nel quale mente, coscienza, e universo non sono elementi separati, individualmente analizzabili, ma la realtà stessa, riflessi della coscienza. Per accedere al mistero del mondo, i gelidi strumenti meccanici non possono produrre alcuna convincente soluzione. Fatto salvo le esigenze storico-organizzative, la dimensione umana, il suo nucleo creatore, non rispetta alcuna legge materiale. Non comprenderlo, non ricreare questa verità, ci porta a seguitare su strade sbagliate che, nel tentativo di migliorare la nostra condizione, alimenta lo stato di prostrazione, di cui il presente, cui stiamo assistendo, ne è campione esemplare.

Lorenzo Merlo



Nota

  1. R.D. Laing, Nodi, Torino, Einaudi, 1974, p. 29.

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