Grigori Grabovoi: “La Resurrezione degli Uomini e la Vita Eterna ora sono la nostra Realtà”


La  parte fondamentale di questo testo, a mio avviso,  è scritta  a pag. 133 dell’edizione 2014:

 

“… quel mistero, chiuso de sette sigilli che era sempre esistito in merito alla morte biologica , smette finalmente, grazie al resuscitamento, di essere un grande enigma….”

 

I sette sigilli sono contemplati  pure  nei testi antichi teosofici.

Mi sono iscritta alla Società Teosofica nel 1980 dopo l’incontro con l’antropologo-teosofo Bernardino del Boca.   Ho inserito alcune sue ricerche nel sito “Teosofia-Bernardino de Boca”. Nella cat. “I pionieri dello Spirito”: Stanotte mi sono trovato davanti all’Hotel Kazakhstan di Alma-Ata, la capitale della Repubblica Sociale Sovietica del Kazakhstan…Vicino a me c’era un giovane sconosciuto. Non era né russo né asiatico. Mi indicava il cielo dove, diceva, doveva apparire un UFO.  I suoi occhi chiari  brillavano volti al cielo che scuriva velocemente e stava riempiendosi di stelle. E’ il giovane che potrebbe continuare la mia ricerca, il mio lavoro per il nuovo piano di coscienza. … Attorno a noi altra gente…; gente di oggi e gente di ciò che chiamiamo passato, uniti da attimi comuni di smarrimento, di caparbietà e di altre limitazioni temporali e caratteriali. Al di sopra di tutti però c’era il sogno del Grande Futuro. “  (Bernardino del Boca – “Milano 8 giugno 1978  -  “La Casa nel tramonto” ed. 1980 –  – pag. 300-301)

E’ scritto nel sottotitolo del sito medesimo:

 “ Finché non sarà fatta una sintesi fra i rami della scienza e non si sarà sottoposta questa sintesi alla luce della spiritualità, il fenomeno umano non potrà essere compreso nella sua finalità e nemmeno nella sua espressione individuale” (La Dimensione Umana 1971) http://www.teosofia-bernardino-del-boca.it/.


Mi sono interessata alle ricerche di Grabovoi perchè evidenziano questa unione di Spirito e Materia, come  scrissi qui: http://accademiadellaliberta.blogspot.com/2017/12/grigorij-grabovoij-bernardino-del-boca.html

Nel  1998 Bernardino del Boca   mi  disse che l’umanità avrebbe potuto cambiare dimensione con il proprio corpo fisico  e che  occorreva pertanto   cambiare la forma pensiero creatasi nei millenni sulla morte.

Ora  i  racconti delle persone, citate nel libro da Grabovoi,  che  sono ritornate dopo la loro morte sul piano fisico possono aiutare questa immensa espansione di coscienza da tempo auspicata.

 

 “ Grazie ai racconti di coloro che sono stati al di là della linea di confine e che sono tornati di nuovo nel nostro mondo si possono ottenere informazioni particolareggiate di prima mano  su ciò che essi hanno provato nel momento della morte biologica, su quelle che sono state le loro emozioni, su ciò che hanno provato in seguito e come percepivano il nostro mondo da laggiù”.  (pag. 133)  

 

Non ci sono parole per descrivere la rivoluzione culturale che potrebbe   creare  la  divulgazione di  queste  testimonianze perché, a differenza delle molte persone che hanno vissuto esperienze di pre-morte, viaggi al di là  dello spazio-tempo ,  incontri con persone “venute dal nulla” o dal mondo spirituale, sono testimonianze di persone viventi tra di noi   che  non avevano più il filo argenteo che li univa prima  al corpo fisico, alcune di loro anche da diversi mesi,   ed è forse la prima volta che ciò succede nel pianeta  Terra.

 

Paola   Botta  Beltramo




 

(http://www.grabovoifoundation.org/wp-content/uploads/2020/03/VIRUS-IN-EURASIA-2002-Grigori-Grabovoi.pdf - la lettera che G. Grabovoi  scrisse nel 2002 a tutti i governi mondiali per richiedere la chiusura dei laboratori di armi batteriologiche, chimiche, genetiche ecc.)

I biglietti della follia di Friedrich Nietzsche



Il 3 gennaio 1889  Nietzsche ebbe un crollo psichico e, dal 3 a 7 gennaio, scrive a parenti ed amici i biglietti della follia. Il suo modo di scrivere suscitava sempre sensazioni forti ed appariva spesso trasgressivo oltre i rigidi schemi che gli uomini si sono imposti da sempre, tanto che alcuni suoi amici, quando hanno ricevuto i cosiddetti biglietti della follia, avevano pensato al suo solito gioco del mascheramento. 

Quando la situazione appare chiara, l'amico Overbeck interviene ricoverando Nietzsche a Basilea e poi a Naumburg. Dal 1890 è affidato alle cure prima della madre e poi della sorella. Nel 1897 muore la madre e con la sorella si trasferisce a Weimer dove viene fondato l'Archivio Nietzsche. 

Nietzsche resta immerso per oltre 10 anni in una blanda pazzia. Gli pseudonimi con cui Nietzsche firma questi messaggi ci fanno pensare ad indizi di natura autobiografica: Dioniso - Zagreo, Il Crocifisso, Anticristo. Nella identificazione con il crocifisso è ravvisabile non tanto un accenno a Gesù, quanto il vedere se stesso come un nuovo crocifisso dei nostri tempi. 


A Cosima Wagner (moglie di Richard Wagner) 

Alla principessa Arianna, mia amata. Che io sia un uomo, è un pregiudizio. Ma io ho già vissuto spesso fra gli uomini e conosco tutto ciò che gli uomini possono provare, dalle cose più basse fino a quelle più alte. Sono stato Buddha tra gli indiani e Dioniso in Grecia, - Alessandro e Cesare sono mie incarnazioni, come pure Lord Bacon, il poeta di Shakespeare. Da ultimo, ancora, sono stato Voltaire e Napoleone, forse anche Richard Wagner... Ma questa volta vengo come Dioniso il vittorioso, che farà della terra una giornata di festa... Non avrei molto tempo... I cieli si rallegrano che io sia qui... Sono stato anche appeso alla croce... 

A Peter Gast 4 gennaio 1889: 

Cantami un nuovo inno: il mondo è trasfigurato e tutti i cieli esultano. Il Crocifisso. Peter Gast non riconobbe in questo biglietto la follia nell'amico, tanto che così gli rispose: "Grandi cose devono accadere in Lei in questo momento! Il Suo entusiasmo, la Sua salute (...) debbono scuotere anche i più infermi; Lei è una sanità contagiosa; l'epidemia che Lei un tempo ha augurato alla salute, l'epidemia della Sua salute non può più farsi attendere". (Janz, Vita di Nietzsche, vol III, tr., Laterza 1983, p. 13) Secondo Janz questo mancato riconoscimento della follia di Nietzsche fa si che:"Occorrerà tener presente questa scarsa facoltà di giudizio in occasione delle successive importanti decisioni".(Janz, op. cit., p. 13) In realtà affermazioni del genere costellano le opere di Nietzsche, da Zarathustra alla Gaia scienza, alla Genealogia della morale, ecc. Dunque Gast, che conosce profondamente l'amico, non trova così strana e folle una tale affermazione. 

A Olga Monod 

“Come ricordo del misero che non la mania di grandezza ha condotto alla malattia, bensì la malattia alla follia” (Olga Monod era figlia di Malwida vov Meysenbug). 

A Carl Fuchs 14 gennaio: 

Tra un paio d'anni governerò io il mondo; perché ho deposto il vecchio Dio. 

 A Meta von Salis 3 gennaio 1889: 

Il mondo è trasfigurato, perché Iddio è sulla terra. Non vede come tutti i cieli esultano? Ho appena preso possesso del mio regno, getterò il papa in prigione e farò fucilare Guglielmo, Bismarck e Stoecker. 

A Jacob Burckardt novembre 1888: 

Quel che è spiacevole e nuoce alla mia modestia è che io, in fondo, sia ogni nome nella storia; anche per i figli che ho messi al mondo le cose stanno in modo tale, che rifletto con una qualche diffidenza se tutti quelli che vengono nel “regno di Dio” vengano anche da Dio. Per due volte, questo autunno, mi sono trovato, vestito il meno possibile, al mio funerale, dapprima come conte Robilant (- no, questi è mio figlio, in quanto io sono Carlo Alberto, la mia natura sotto) ma Antonelli ero proprio io. Caro signor professore, lei dovrebbe vedere questo edificio; dato che sono assolutamente inesperto nelle cose che creo, a lei qualsiasi critica; io sono grato, senza poter promettere di trarre vantaggio. Noi artisti siamo incorreggibili. – Oggi mi sono vista un’operetta – genial-moresca – e anche constatato con piacere, in questa occasione, che adesso Mosca come pure Roma sono cose grandiose. Vede, anche per il paesaggio cono mi si nega del talento. – Rifletta, facciamo una bella chiacchierata, Torino non è lontana, per ora non ci sono impegni professionali molto seri, sarebbe possibile procurare un bicchiere di valtellinese. Prescritto il negligè. Con cordiale affetto, Suo Nietzsche 

5 gennaio 1889 - Vado dappertutto nel mio vestito da studente, qua e là batto sulla spalla a qualcuno e dico: siamo contenti? son dio, ho fatto questa caricatura… Domani viene il mio figlio Umberto con la graziosa Margherita, che qui, però, riceverò ugualmente in maniche di camicia. Il resto per la signora Cosima… Arianna… Di quando in quando si fanno incantesimi… Ho fatto mettere in catene Caifa; l’anno scorso sono stato crocefisso in maniera molto penosa dai medici tedeschi. Aboliti Guglielmo, Bismarck e tutti gli antisemiti. Di questa lettera lei può fare qualsiasi uso che non mi diminuisca nella considerazione dei basileesi. 

5 gennaio 1889 - Caro signor professore, alla fine sarei stato molto più volentieri professore basileese che Dio; ma non ho osato spingere così lontano il mio egoismo privato, da tralasciare, per causa sua, la creazione del mondo. Lei vede, bisogna fare sacrifici, come e dove si viva. – Tuttavia, mi sono riservata una piccola camera da studente che si trova di fronte al Palazzo Carignano (- nel quale sono nato come Vittorio Emanuele) e oltre a ciò permette di sentire, dal proprio tavolo di lavoro, la magnifica musica nella Galleria Subalpina. Pago 25 franche con servizio, preparo il mio tè e faccio tutte le spese da solo, soffro di stivali rotti e ringrazio ogni momento il cielo per il vecchio mondo, per il quale gli uomini non sono stati abbastanza semplici e silenziosi. – Poicè sono condannato a intrattenere la prossima eternità con cattive spiritosaggini, ho qui un’attività scrittoria, che invero non lascia nulla a desiderare, molto carina e nient’affatto faticosa. La posta è a cinque passi, imbuco io stesso le lettere per trasmettere il grande fogliettonista “der grende monde”. Naturalmente, sono in stretti rapporti con il Figaro, e affinchè lei abbia un’idea di quanto io possa essere innocuo, ascolti le mie prime due cattive spiritosaggini: Non prenda troppo sul serio il caso Prado. Io sono Prado, sono anche il padre di Prado, oso dire che sono anche Lesseps…. Vorrei dare ai miei parigini, che amo, una nuova idea - quella del criminale dabbene. Seconda spiritosaggine. Saluto gli immortali. Daudet appartiene ai quarante. 

Astu (così si firma Nietzsche). 

Che cosa significa “Astu”? Secondo il Bernoulli, a cui rimandano tutti i commentatori, Astu sarebbe per Aster, l’eroe che s’incontra nella satira di Daudet, apparsa nel 1888 col titolo L’Immortel e diretta contro l’Accademia di Francia. Si tratterrebbe insomma di un lapsus patologico di Nietzsche, in preda ai sogni provocati dal cloralio.. Sembra poco probabile che Nietzsche, dopo aver scritto giusto il nome di Daudet, storpi poi aster in Astu. E se fosse un nome inventato da lui? Un amico torinese appassionato cultore di Nietzsche, cioè Italo Dongiovanni, ha perfino pensato che Astu volesse dire “astuto”) 

* Nietzsche intende la regina Margherita.



Tratto da: http://www.matmatprof.it/nietzsche/_private/bigliettifollia.htm 

La radice dell'identità personale



Diversamente dal creduto la nostra evoluzione profonda e di superficie, della forza e della stabilità nonché quella relativa agli apprendimenti non ha a che vedere con la comunicazione logico-razionale. Sebbene questa sia ritenuta la Vera modalità per trasmettere la Verità, è invece solo l’involucro più impiegato per confezionare la narrazione del mondo civilizzato. Nonostante l’esperienza non sia trasmissibile, essa non se avvede e con essa il suo popolo scientista. Sono liberi dal giogo razionalista il poeta e l’artista. Categorie alle quali tutti noi, più o meno occasionalmente, apparteniamo. In quelle circostanze realizziamo comunicazione attraverso i ponti emozionali che certe espressioni edificano e collegano i cuori. Tutta la comunicazione evolutiva, per distinguerla da quella tecnica che anche un meccanismo può apprendere, ha ragioni emozionali. È una modalità dei sistemi viventi per sostenere se stessi. Le emozioni sono gli occhi degli organismi che le sentono. Così loro stessi, la loro specie e la natura evolvono e proteggono il proprio sistema. Coloro che non le sentono, eventualità limitata alla categoria degli umani, sono destinati a recitare un ruolo seguendo un canovaccio scritto da altri, a credere che in quello consista la vita, a non essere mai se stessi, a non avere la forza di riconoscerlo a se stessi e al prossimo.

[...] ciascuna cosa tende, per quanto in sé, a permanere nel medesimo stato in cui è [...]”. (1)


Autopoiesi

Qualunque sistema, naturale o artificiale, ha in sé l’intelligenza per mantenersi in vita. Si tratti di un sistema sociale, di uno individuale, come l’io o quello di una macchina tanto analogica quanto elettronica, tutti rispettano il medesimo principio di sopravvivenza. Per approfondimenti si può consultare l’opera di Humberto Maturana, di Francisco Varela, di Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Alfred North Whitehead, Edmund Husserl, Herbert von Glasersfeld, Paul Karl Feyerabend e di altri.

A titolo emblematico, prendiamo l’io individuale. Tutto ciò che può accogliere, che può fare proprio e che gli costituisce cambiamento e modifica di se stesso accettabile, è opportunamente filtrato: non si tratta cioè di elementi della realtà presi a caso che hanno trapassato la soglia di noi stessi. La selezione, diversamente da quanto comunemente si pensi, non è a carico della rete razionale. Il filtro è sempre emozionale, anche quando non sembra, anche quando sembra razionale. È un legittimo errore interpretativo che ha chiara origine. Esso, più che un retaggio, è un vero e proprio pilastro centrale dell’incastellatura culturale entro la quale viviamo. Ce ne diedero buona e recente rappresentazione Werner Herzog ne L’enigma di Kaspar Hauser, del 1974 e Jerzy Kosinski nel libro Presenze, 1973, poi film intitolato Oltre il giardino, del 1979. La babelica struttura razionalista, ispirata dal celebrato monopolio dell’intelligenza intellettuale, ha rinnegato quella estetica. Nel farlo, ha mortificato la modalità umana di sentirsi parte del cosmo, di sentire il cosmo, di essere cosmo, di essere tutto e tutti. Ovvero di conoscere, di conoscersi, di riconoscere, di distinguere la propria via anche in una tempesta di sirene. Di dialogare anche con un linguaggio sottile, adatto all’evoluzione comune, consapevole che quello logico è valido per il guscio materiale di sé, solo per la dimensione amministrativa della realtà.

La questione interessa tutti i campi di gioco, tutte le forme di equilibrio, tutte le forme sociali, tutte le macchine. Coincide con la loro stessa identità.

Torniamo all’Io, al sistema Io. Da tutte le interlocuzioni, sottili o crasse che siano, permettiamo l’accesso in noi soltanto degli elementi ammissibili dal nostro sistema interno. All’eccessivo, a ciò che non è contemplato o prossimo neghiamo l’accesso. In contesto didattico l’apprendimento non avviene, in quello morale il giudizio è negativo, per quello organico i linfociti passano all’attacco.

Un qualunque argomento, per quanto ben compreso e razionalmente condiviso, non si aggiunge automaticamente a noi. Non si integra e non ci modifica. Gli aggiornamenti di noi stessi, i cambiamenti, avvengono per emozione. Quando queste si scatenano e ci trapassano, l’intero corpo ne è istantaneamente e chimicamente informato. Può accadere per un’equazione o per una donna. Un evento da noi classificato come razionale, di fatto entra a far parte della nostra identità solo se supportato dalla recondita e occulta emozione al quale è associato. Il motto di attrazione incarnato nell’emozione ne è la dimostrazione. A volte accade a distanza di tempo (lineare). Vecchi argomenti, mai presi in considerazione, tornano alla luce del presente come fossero cosa autenticamente nostra. Come se il cambiamento si mostrasse nel momento in cui il nostro io non è più perturbato o mortificato da ciò che in passato aveva scartato, in quanto esiziale al sistema-io dell’epoca.


Filtri crassi e sottili

[…] Lottiamo tutti i giorni per un istinto innato, adeguandoci a regole non scritte che si tengono in equilibrio sulla precarietà del gioco. È uno slancio necessario che spesso distrae l’uomo dal senso di vivere. E così a volte capita che qualcuno si limiti a sopravvivere senza mai porsi domande sul significato di essere”.(2)


I sistemi filtrano la realtà riconoscendo solo quanto è in loro dote poter riconoscere come amico o come nemico. Nel bene e nel male. Uno shock corrisponde all’incontro con qualcosa di non contemplato dal proprio mondo. Un desiderio allude a qualcosa che il sistema ritiene idoneo a se stesso. Dunque è male ciò che mette in crisi il nostro equilibrio, ed è bene ciò che possiamo accogliere. Accade tanto per la parte fisica, quanto per quella concettuale.

Disponiamo di molti filtri immunitari, tra cui, di tipo morale, anatomico, d’interesse personale. Per quelli morali il nostro giusto e il nostro sbagliato ci guidano nella giungla della realtà. Odori, sapori, e gli altri tre spillatori delle circostanze fisiche forniscono al nostro io i loro suggerimenti. Tuttavia, a volte, interlocutori indigesti riescono a scavalcare le nostre barriere emotive e divengono papabili. È il caso di un nostro giudizio negativo verso qualcosa o qualcuno, poi caduto per circostanze che troviamo sempre (!) plausibili e sufficienti a giustificare il nostro cambio di direzione.

Oltre ai sensi del corpo, che distinguono forme, odori, sapori, suoni e consistenza, c’è il sesto senso. È il nome che la vulgata conosce e, più o meno opportunamente, impiega. In esso vi è raccolto il mondo energetico, quello che i materialisti, positivisti e scientisti non vedono, e che, se accadesse d’improvviso, non reggerebbero. Il loro sistema ne sarebbe demolito.

Il sesto senso, come gli altri suoi cinque fratelli crassi, svolge un eccellente servizio d’informazione, comunicazione e di apprendimento solo in una precisa circostanza, ossia quando siamo in stato di quiete. Quando il nostro simbolico sistema immunitario – vibrissa sensibile a tutte le energie – non è corrotto, intossicato, né infettato da virus fisici e da forme-pensiero metafisiche. Come un cristallo o una visione irradia in noi la sua più forte energia-informazione soltanto in funzione del nostro gradiente di purezza, così il terzo occhio ci permette o meno di vedere l’azione delle invisibili energie che agiscono su noi e su tutte le relazioni. Dogmi, vizi, abitudini, sentimenti sono alcune, insieme all’inquinamento ambientale e a quello alimentare, entità che riducono temporalmente o cronicamente le capacità di riverbero e ricezione della sofisticata antenna che siamo. L’oscillazione occupa la massima ampiezza. Varia tra l’interruzione della ricezione al suo forte e chiaro.

Nel peggiore dei casi, in stato di massima perturbazione cronica, la selezione che mettiamo in atto è delegata a luoghi comuni e a ideologie d’ordine vario. Da quelle grandi, da libretto rosso, alle piccole, da idiosincrasie personali. Entrambe ci allontanano dalla salute evolutiva e ci inducono verso tossiche rigidità. Il disturbo avviene spesso senza la nostra consapevolezza. Anzi, è facilmente con la nostra complicità e il nostro sostegno che, semplicemente, si esaurisce nell’identificarsi con i falsi valori della cultura attuale. Così facendo possiamo vantare, a pieno titolo e senza vergogna, coerenza e rettitudine, logicità e senso del giusto. Se così facendo perdiamo noi stessi e tutte le più potenti potenzialità umane, pazienza! Per forza, neppure ce ne accorgiamo. È un diritto universale dell’inconsapevole.

Nel migliore dei casi, disintossicati da idee, saperi e cattivi sentimenti ridondanti, si eleva il rischio di essere in raffinata relazione con la nostra natura. Essa non richiede l’elenco dei pro e dei contro per darci il consiglio opportuno. E non ha protocolli: è creativa, è in grado di cogliere il presente, né più né meno del judoka quando mette al tappeto l’avversario. È una relazione sottile che qualcuno, rinchiuso entro corazze di filtri, per prenderla in considerazione, pretende venga dimostrata. [Risata]. Essa infatti, non solo non è comprimibile in un modulo, è viva indipendentemente dagli strumenti che non sapranno mai misurarla con le unità di misura che tutti considerano verità assoluta.


La realtà nella relazione

Se dire “sottile” richiama la ricerca esoterica – spesso arricciatrice di nasi – dire “quantico” conduce a quella scientifica. Sebbene questa sia ampiamente celebrata dalla cultura scientista, è a sua volta, e tutt’ora, inconsapevole d’essere in demolizione. La lettura della realtà attraverso la relazione e quindi, non più deterministica, né meccanicistica, capovolge l’ordine delle cose, tanto filosoficamente quanto antropologicamente. Il vecchio schema dell’oggettività, dell’oggetto osservabile in sé, separato dal suo contesto ecologico, ha fatto il suo tempo.

I successi da essa [dalla meccanica classica, nda] ottenuti han condotto all’idea generale d’una descrizione oggettiva del mondo. L’oggettività è divenuto il primo criterio di valutazione di qualsiasi risultato scientifico. [...] Ma essa parte dalla divisione del mondo in «oggetto» e resto del mondo, e dal fatto che almeno per il resto del mondo ci serviamo dei concetti classici per la nostra descrizione. È una divisione arbitraria e storicamente una diretta conseguenza del nostro metodo scientifico; l’uso dei concetti classici è infine una conseguenza del modo generale di pensare degli uomini. Ma ciò implica già un riferimento a noi stessi e quindi la nostra descrizione non è completamente obbiettiva”.(3)

Se da un lato citare genericamente l’ambito della scienza agevola l’avanzare del discorso, in quanto in esso, lo scientismo, fondato sulla meccanica classica, annusa la vera verità, dall’altro, parlare di quantico, di meccanica quantistica, spesso irrita e spiazza il popolo formato sulla vulgata della scienza-verità. “Neppure gli scienziati sono d’accordo su cosa consista la fisica quantistica”. Quante volte lo si sente affermare da coloro che non hanno visto il significato culturale che essa implica. Infatti, è vero, ma questo non cambia la filosofia che fa emergere. Non poter più determinare contemporaneamente velocità e posizione di una particella elementare se non in termini di probabilità e l’implicato concetto di entanglement, la cui natura non è nelle parti ma nella loro relazione, sono forze che agiscono su di noi, sulla nostra evoluzione. Una possibile sintesi della concezione deterministica della realtà può stare nella formula che un soggetto esamina un oggetto, non sussiste più se non in forma di superstizione.

Purtroppo per loro, gli scientisti e gli scienziati corazzati da filtri di stabilità anti-aggiornamento, la questione è sì limitata al mondo microscopico, ma solo apparentemente e anche a causa, nuovamente, dei gretti strumenti di misurazione.

Le energie sottili che partecipano a costituire il tessuto della realtà e delle relazioni, sottostanno a mio avviso, ai medesimi concetti quantici. La cui portata è rivoluzionaria come anche Heisenberg, fin da subito, riconobbe.

La fisica classica partiva dalla convinzione — o si direbbe meglio dall’illusione? — che noi potessimo descrivere il mondo, o almeno delle parti di esso, senza alcun riferimento a noi stessi”.(4)

[...]

Specialmente in fisica [classica, nda], il fatto che noi possiamo spiegare la natura per mezzo di semplici leggi matematiche ci dice che abbiamo a che fare con dei caratteri genuini della realtà, e non con qualche cosa che abbiamo – in qualsiasi significato del termine – inventato noi stessi”. (5)

[...]

[...] questa volta han cominciato a spostarsi gli stessi fondamenti della fisica; e che questo spostamento ha prodotto la sensazione che ci sarebbe stato tolto da sotto i piedi, ad opera della scienza, il terreno stesso su cui poggiavamo. Nello stesso tempo questa reazione significa che non si è ancora trovato il linguaggio idoneo per dare espressione alla nuova situazione [...]. La progredita tecnica sperimentale del nostro tempo porta nella prospettiva della scienza nuovi aspetti della natura che non possono essere descritti nei termini dei comuni concetti”. (6)

[...]

Ma i concetti scientifici esistenti [della meccanica classica, nda] abbracciano sempre solo una parte limitata della realtà, mentre l’altra parte, tuttora incompresa, è infinita”. (7)

Con il modo della relazione, le osservazioni sul comportamento delle particelle elementari della fisica quantica, divengono utili per una nuova interpretazione del mondo e di noi stessi, per riconoscere la rete sottile in cui si genera, muove e muore il cosiddetto reale. Ci inducono a cogliere quanto ci sfugge, a dare verità all’incompreso e piena concretezza al mistero, ad ascoltare ciò che ci pare assurdo e fantascientifico o cialtronesco.

Le emozioni non rispettano l’idea del tempo lineare. Esse sono in grado di ricreare in noi le condizioni che la storia sosterrebbe siano passate. Basta una canzone, un suono, un sapore e un colore per precipitare in un presente che avevamo creduto passato. È solo un esempio accessibile a chiunque della presenza di quella effimera rete che tutto include. Se ci siamo noi.

Quantico allude a quel tipo di comunicazione che scavalca con un solo salto tutto quanto abbiamo concepito e costruito sul campo d’azione bidimensionale della realtà materialistica. Un ambito in cui, giocoforza, si lotta per il vero e per il falso; in cui, nonostante la loro autoreferenzialità – autorevolmente affermata da Heisenberg, e non solo naturalmente – impieghiamo scale di valori e punteggi che consideriamo verità definitive. Una modalità del tutto dignitosa a causa delle ragioni storiche che l’anno generata, ma ormai succedanea della Scienza. Con la consapevolezza della realtà nella relazione, la realtà non è più un oggetto composto da materia ed eventi. Essa è solo il riflesso della nostra coscienza. In questo prende pieno significato la considerazione che l’universo è più simile a un pensiero che a una massa di materia. È il prodotto della nostra relazione col mondo.

Torniamo al sistema, che oltre che essere autopoieutico è immunitario. Tanto più siamo in grado di riconoscerlo, quanto più la potenza del cambio della realtà che credevamo ci stesse di fronte, nella quale pensavamo di poter girovagare come ridenti turisti in braghe corte e polaroid appesa, tende a divenire atto. Certo, se poi continuiamo a credere di essere veramente lorenzo merlo, a non vedere che siamo terminali della natura, identici a qualunque altro, a non riconoscere che le nostre doti non sono nostre ma ancora forme che il sistema natura ha in sé per il proprio equilibrio e sostentamento, allora la cosa si fa più dura. Siamo all’autoimmunità, che sopprime l’organismo che l’ha in sé.


La domanda che tutto include

C’è una domanda che ci obbliga a difenderci dal nuovo e dall’estraneo. È quella che chiede se una cosa è vera o falsa. La corazza è un suo implicito capo d’abbigliamento. E ce n’è un’altra che permette di andare oltre se stessi, almeno fino a dove saremo all’altezza, si tratti di carboni ardenti da percorrere a piedi scalzi o di spiccare il volo sull’abisso come ci racconta Castaneda o come l’esperienza della dimetiltriptamina o dell’ayahuasca pare ci rendano evidente. Essa è, ciò che è fuori dal mio sistema in che termini è vero?

L’errore sta nel dare per scontato che esista la ‘realtà oggettiva’ e che le persone sane ne siano più consapevoli dei pazzi”.(8)

6.52 – Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati”.(9)

Lorenzo Merlo 


1 - Albert Einstein, Relatività: esposizione divulgativa, Boringhieri, 1967, Torino

2 - Gerardo Masuccio, in Piero Scanziani, Avventura dell’uomo, Utopia, Milano, 2020

3, 4, 5, 6, 7- Werner Heisenberg, Fisica e filosofia, Il Saggiatore, 1963, Milano

8 – Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, 1971, Roma

9 - Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, 1998, Torino

Le belle Befane e l'Epifania della Natura...



Conosciamo tutti il significato che la religione cristiana ha dato alla festività dell’Epifania, ma forse non tutti sappiamo che dietro la storpiatura che ha trasformato il termine Epifania in “Befana”, c’è una serie di tradizioni antiche che sono riuscite, faticosamente, a sfidare i millenni ed a giungere fino a noi.

L’origine della Befana è nel mondo agricolo e pastorale. Anticamente, infatti, la dodicesima notte dopo il solstizio invernale, si celebrava la morte e la rinascita della natura, attraverso la figura di Madre Natura. In questa notte Madre Natura, stanca per aver donato tutte le sue energie durante l’anno, appariva sotto forma di una vecchia e benevola strega, che volava per i cieli con una scopa. Oramai secca, Madre Natura era pronta ad essere bruciata come un ramo, per far sì che potesse rinascere dalle ceneri come giovinetta Natura, una luna nuova.

Per meglio capire questa figura dobbiamo andare fino al periodo dell’antica Roma. Già gli antichi Romani celebravano l’inizio d’anno con feste in onore al dio Giano (e di qui il nome Januarius al primo mese dell’anno) e alla dea Strenia (e di qui la parola strenna come sinonimo di regalo). Queste feste erano chiamate Sigillaria; ci si scambiavano auguri e doni in forma di statuette d’argilla, o di bronzo e perfino d’oro e d’argento. Queste statuette erano dette “sigilla”, dal latino “sigillum”, diminutivo di “signum”, statua. Le Sigillaria erano attese soprattutto dai bambini che ricevevano in dono i loro sigilla (di solito di pasta dolce) in forma di bamboline e animaletti. Questa tradizione di doni e auguri si radicò così profondamente nella gente, che la Chiesa dovette tollerarla e adattarla alla sua dottrina.

In molte regioni italiane per l’Epifania si preparano torte a base di miele, proprio come facevano gli antichi Romani con la loro focaccia votiva dedicata a Giano nei primi giorni dell’anno
Giano Bifronte.

Usanza antichissima e caratteristica è l’accensione del ceppo, grosso tronco che dovrà bruciare per dodici notti. E’ una tradizione risalente a forme di culto pagano di origine nordica: essa sopravvive l’antico rito del fuoco del solstizio d’inverno, con il quale si invocavano la luce e il calore del sole, e si propiziava la fertilità dei campi. E non è un caso se il carbone che rimane dopo la lenta combustione, che verrà utilizzato l’anno successivo per accendere il nuovo fuoco, è proprio tra i doni che la Befana distribuisce (trasformato chissà perché in un simbolo punitivo).

La tradizione è ancora conservata in alcune regioni d’Italia, con diverse varianti: a Genova viene acceso in alcune piazze, e l’usanza vuole che tutti vadano a prendere un tizzone di brace per il loro camino; in Puglia il ceppo viene circondato da 12 pezzi di legno diversi.

In molte famiglie, il ceppo, acceso la sera la sera della Vigilia, deve ardere per tutta la notte, e al mattino le ceneri vengono sparse sui campi per garantirsi buoni raccolti.

In epoca medioevale si dà molta importanza al periodo compreso tra il Natale e il 6 gennaio, un periodo di dodici notti dove la notte dell’Epifania è anche chiamata la “Dodicesima notte”. È un periodo molto delicato e critico per il calendario popolare, è il periodo che viene subito dopo la seminagione; è un periodo, quindi, pieno di speranze e di aspettative per il raccolto futuro, da cui dipende la sopravvivenza nel nuovo anno. In quelle dodici notti il popolo contadino credeva di vedere volare sopra i campi appena seminati Diana con un gruppo più o meno numeroso di donne, per rendere appunto fertili le campagne.


Nell’antica Roma Diana era non solo la Dea della Luna, ma anche la dea della fertilità e nelle credenze popolari del Medioevo Diana, nonostante la cristianizzazione, continuava ad essere venerata come tale. All’inizio Diana e queste figure femminili non avevano nulla di maligno, ma la Chiesa cristiana le condannò in quanto pagane e per rendere più credibile e più temuta questa condanna le dichiarò figlie di Satana! Diana, da buona dea della fecondità diventa così una divinità infernale, che con le sue cavalcate notturne alla testa delle anime di molte donne stimola la fantasia dei popoli contadini. Diana, Dea della Caccia, della Luna, delle partorienti.

La Befana è spesso ritratta con la Luna sullo sfondo. Di qui nascono i racconti di vere e proprie streghe, dei loro voli e convegni a cavallo tra il vecchio e il nuovo anno. Nasce anche da qui la tradizione diffusa in tutta Europa che il tempo tra Natale ed Epifania sia da ritenersi propizio alle streghe. E così presso i tedeschi del nord Diana diventa Frau Holle mentre nella Germania del sud, diventa Frau Berchta. Entrambe queste “Signore” portano in sé il bene e il male: sono gentili, benevole, sono le dee della vegetazione e della fertilità, le protettrici delle filatrici, ma nello stesso tempo si dimostrano cattive e spietate contro chi fa del male o è prepotente e violento. Si spostano volando o su una scopa o su un carro, seguite dalle “signore della notte”, le maghe e le streghe e le anime dei non battezzati.

La Festa della Dodicesima Notte ispirò tra gli altri William Shakespeare che scrisse la omonima commedia che ebbe la prima rappresentazione il 6 Gennaio del 1601 al Globe Theatre di Londra. Daniel Maclise: La Dodicesima Notte, Malvolio e la Contessa. Strenia, Diana, Holle, Berchta,… da tutto questo complesso stregonesco, ecco che finalmente prende il volo sulla sua scopa una strega di buon cuore: la Befana. Valicate le Alpi, la Diana-Berchta presso gli italiani muta il suo nome e diventa la benefica Vecchia del 6 gennaio, la Befana, rappresentata come una strega a cavallo della scopa, che, volando nella dodicesima notte, lascia ai bambini dolci o carbone. Come Frau Holle e Frau Berchta, la Befana è spesso raffigurata con la rocca in mano e come loro protegge e aiuta le filatrici.

Nella Befana si fondono tutti gli elementi della vecchia tradizione: la generosità della dea Strenia e lo spirito delle feste dell’antica Roma; i concetti di fertilità e fecondità della mite Diana; il truce aspetto esteriore avuto in eredità da certe streghe da tregenda (spostamento); una punta di crudeltà ereditata da Frau Berchta. Ancora oggi un po’ ovunque per l’Italia si eseguono diversi riti purificatori simili a quelli del Carnevale, in cui si scaccia il maligno dai campi grazie a pentoloni che fanno gran chiasso: il 6 gennaio si accendono i falò, e, come una vera strega, anche la Befana viene qualche volta bruciata…

Ed ora una memoria aggiunta: “Frau Holle e le sue compagne…” Ecco le Belle che mi piacerebbe incontrare la dodicesima notte….


Quando  negli anni '70 del secolo scorso mi trasferii  a Calcata, decisi di festeggiare l’ Epifania come una sorta di viaggio iniziatico di ritorno alle origini naturali ed alla comunione con le forze primordiali della vita.

Invece di immaginare una vecchiaccia che scende dal camino a portare carbonella e fuliggine, pensai ad una “sfilata delle befane,  belle e sane"!  Una processione di donne in costume, tutte bellissime, sia pur mascherate e vestite di stracci per non farsi riconoscere dal volgo ignorante. Queste belle donne scendevano dal piano del paese nuovo sino al vallone del paese vecchio, dove anticamente c’era la tradizione del Sabbat, e qui in un orgiastico raduno offrivano i loro doni ai maschietti, anziani o bambini che fossero. Poi una delle Befane, la più bella e dolce, veniva scelta dal popolo ed era incoronata “Regina delle Befane”.

Conservo ancora delle immagini fotografiche di questa festa, che di religioso nel senso cristiano del termine aveva ben poco, alcune befane giungevano in calesse, altre seguivano a piedi ancheggiando.

Ma le cose belle durano sempre poco e questa consuetudine della processione delle belle Befane rivisse solo per alcuni anni e poi ritornò nel limbo dei ricordi ancestrali. Tentai di trasferire questo evento a Treia, dove ora risiedo, ma per varie ragioni la cosa non maturò.  Così  continuai a festeggiare il 6 gennaio soltanto con la ormai tradizionale "Epifania della Natura", in cui si offrono doni agli animali selvatici. Anche questa è una celebrazione inziata  nella valle del Treja e continuata a Treia, dove dal 2010 mi sono trasferito.

Quest'anno il rito della  distribuzione dei doni alimentari agli animali selvatici   non potrà svolgersi in forma pubblica, a causa delle limitazioni sanitarie anti-covid in vigore.  Però non mancherò -in solitario-  di passeggiare sotto le rupi del borgo di Treia, distribuendo briciole di pan secco agli uccellini ed agli altri animali presenti... Ed invito tutti i lettori a fare altrettanto, nei luoghi in cui vivono. Basta fare una passeggiata in campagna   sparpagliando qui è lì  un po' di  avanzi alimentari, i selvatici provvederanno da sé a rintracciarli ed a farne festa.  

Paolo D’Arpini



La mappa dei Chakra secondo Osho

 

"CHAKRA:  LA MAPPA NON È LA STRADA"


Quella dei "chakra" è solo una mappa utile, né giusta né sbagliata.   Per esempio, se qualcuno ti mostra una mappa dell’India, sai che non è l’India, comunque può essere usata per trovare l’India. Ed esistono mappe arbitrarie per aiutare le persone a cercare la loro essenza più profonda. 

Molte mappe sono state usate nel corso dei secoli. Non sono dei fatti, sono solo utili. Ad esempio, dividiamo lo spazio in direzioni: Sud, Est, Ovest e Nord; ma dov’è l’Est? Vai a cercare l’Est e non lo troverai mai. Ovunque andrai ti diranno: “L’Est è da quella parte, vai ancora avanti”. E se continui ad andare avanti – il mondo è rotondo – un giorno, dopo tanto cercare, raggiungi la Danimarca e dici: “Ma questo è l’occidente, l’Ovest”. Ma è utile. Diciamo su e giù, ma non c’è né su né giù.

Esattamente allo stesso modo esistono delle mappe interiori. 

Sono state disegnate molte mappe e sono tutte diverse. Ci sono alcune mappe che parlano di sei chakra, ce ne sono alcune che parlano di nove. Chi ha ragione? Sono solo divisioni arbitrarie. 

Puoi fare nove partizioni dall’energia sessuale al samadhi. Puoi fare nove partizioni, puoi farne sei, puoi farne cinque, puoi farne quattro; è tutto arbitrario. Puoi farne sessanta, o settanta, ma una cosa è certa: che l’energia sessuale è al punto più basso e il samadhi al più alto. Quando dico più alto e più basso, ricorda, anche questo è a fini utilitari, come su e giù. Se sei a testa in giù, la tua energia sessuale sta su e il tuo samadhi sta giù!

Ma c’è uno spazio tra questi due punti che è reale, vero, e quello spazio va attraversato. Si può disegnare una mappa su come coprire quello spazio, su come raggiungere il punto in cui dovremmo essere – il punto a cui siamo destinati – dal punto in cui ci troviamo. 

Se disegni la mappa del mondo non ci troverai Pune, ma questo non significa che Pune non esista. La mappa del mondo è una mappa in grande scala: ci troverai New Delhi, ci troverai Bombay, ma Pune non ci sarà. Se fai una mappa dell’India invece Pune ci sarà, ma Koregaon Park (la strada dove sorge l’Osho International Meditation Resort, N.d.R.) invece no. Ma non significa che non esista. Se fai una mappa di Pune ci sarà anche Koregaon Park.

Ci sono stati diversi tipi di disegnatori di mappe. Questi chakra sono semplicemente indicatori che le cose possono muoversi in una certa direzione. Ci sono molte religioni che non hanno mai parlato di cha­kra; il cristianesimo non sa nulla dei chakra, ma ciò non significa che non abbia raggiunto il samadhi. Puoi percorrere una strada senza guardare la segnaletica, non ce n’è alcun bisogno, in realtà.

Sono tutte mappe, arbitrarie ma utili, quindi non dire che non hanno senso, ma neanche che sono grandi verità; non sono né l’uno né l’altro. Non sono né vere né false, ma certamente possono essere d’aiuto, perché di un qualche tipo d’aiuto c’è bisogno. 

Ci sono molti linguaggi e la realtà non si lascia confinare da nessuno di essi, non si lascia definire; la realtà resta indefinibile.

Se riesci a ricordare questo, a proposito delle religioni, arrivi a grandi comprensioni e non cominci a discutere. Prendere delle parti è stupido.

È stupido chi dice: “Questa è la verità: ci sono sette chakra, non otto e nemmeno sei”. Pensa che la mappa sia il territorio, pensa che la parola sia l’oggetto. E qualcun altro sarà di un parere esattamente opposto. Inizierà a discutere e a dire: “Tutto ciò non ha senso: questi chakra non esistono”. Anche lui è stupido, tutti e due sono stupidi. 

Il saggio sorriderà semplicemente. 

Quindi se insegni yoga puoi usare le mappe dello yoga. È quello che faccio anche io: se parlo dello yoga, uso termini yoga; se parlo dei sufi, uso le parole dei sufi; se parlo dello zen devo usare la sua terminologia. Sono linguaggi evoluti. Sono stati usati nel corso dei secoli e sono diventati molto raffinati. Sono molto utili, ma non c’è niente di vero in un linguaggio. È solo un mezzo, uno strumento. I saggi lo usano e ne traggono dei benefici, gli stupidi si lasciano usare e ne traggono un danno.

 

Tratto da: Osho, The Sun Behind The Sun Behind The Sun #11

 

  Osho Times n. 271

L'attenzione scorge la realtà...

 

Immagine di Giancarla Pancera


A secondo di dove si posa l'attenzione sorge la realtà corrispondente. Scoprirlo è un passo evolutivo. Quando qualcuno sa come pilotare la nostra, non scopriremo mai come fa l'illusionista a tirar fuori conigli dal cilindro.


C’è una vignetta che dice: “Non c’è nessun pericolo. Le macerie sostengono la facciata”. In pratica significa che, nonostante tutto stia crollando, qualcuno non se ne accorge.



Primo argomento

Distratti da qualche sirena è facile inciampare: è esperienza comune. Nel nostro caso ci sono due argomenti – che poi convergono e si rafforzano – a sostegno del diritto d’errore.

Il primo dei due è il punto di attenzione.

Dov’è posto? Dove risiede? Cosa punta? Da chi o cosa è rapito? Cosa lo contiene?

Ecco, se ognuno sapesse dove si trova, a cosa è vincolata la nostra attenzione vedrebbe anche come questa, sia collegata al guinzaglio che ci limita i movimenti, prioritariamente intesi come creatività o come libertà di pensiero e di sentimento. È un’osservazione, una presa di coscienza, che possiamo realizzare per riconoscere quanto sia, più che semplice, banale. Tuttavia è generalmente poco adottata. Effettivamente non è gratuita, richiede dedizione.

Per toccare il suo segreto ci vorrebbe poco. Basterebbe che a scuola o a casa se ne sperimentasse la verità. Immediatamente aggiorneremmo lo sguardo sul mondo. Vedremmo che non è come descritto dai sussidiari, né corrisponde a quanto ci dicono gli esperti. Vedremmo che lui, il mondo, è sempre determinato dal nostro punto di attenzione. Che quello descritto dalle consuetudini è una sorta di zoo spacciato per savana.

Basterebbe”, tanto per dire. Se avessimo maestre e genitori consapevoli del punto di attenzione del suo significato per l’equilibrio e la centratura dei bambini, ovvero delle future persone, non saremmo a parlare del suo banale segreto.


Esso non è relativo a ciò che facciamo ma allo spirito che domina il fare. Spesso è occulto a noi stessi e, sostanza, è la vera motivazione delle nostre scelte.

Questo, come tutti i segreti, per quanto elementare si riveli a presa di coscienza compiuta, è opportuno rimanga tale, occultato tra le pieghe del tabarro del mago. Non c’è infatti sufficiente saggezza a disposizione per renderla sociale, realmente formatrice di persone compiute? Evidentemente è meglio tenerci alla larga. È meglio distrarci, mettere in campo diversivi che ci portino a guardare altrove. E non servono nomi e cognomi per riscontrare l’ipotesi. Basta osservare gli uomini, il loro comportamento vincolato al punto di attenzione fisso sull’importanza personale, sull’invidia, sull’orgoglio, sul potere, sul culto di sé. Salvo quello della madre, quale ego opera per amore incondizionato, per la crescita del prossimo?


Ricchi della consapevolezza del punto di attenzione, osservando il mondo, se stessi, le relazioni, le scelte, le reazioni e così via, indurremmo un cambio di registro dell’intera cultura. Cambierebbe tutto, tra cui la concezione dei consumi. Ciò che prima era vissuto come un bene, un valore, un diritto, poi, diviene chiaramente una dipendenza e un’assuefazione, con tanto di bugiardino che ne elenca le controindicazioni: Socialmente, un controllo; Nazionalmente, una mutamento di identità; psicologicamente, un’alienazione da sé; culturalmente, una perdita dei saperi legati al territorio e alla vicenda umana; evolutivamente, un’ulteriore castrazione; eticamente, una devozione ai valori posticci ed egoici; spiritualmente, una mortificazione della conoscenza.


Succede quindi che il punto di attenzione possa, non solo vincolarci alla giostra delle consuetudini, ma farcela vivere come verità. Se non t’indebiti e non sgomiti per guadagnare, non consumi. Almeno come il vicino. Almeno per chetare l’invidia verso il diretto interlocutore; per cercare di non perdere autostima e benefit.


Secondo argomento

Dunque, la questione numero uno è il punto di attenzione.

La due, riguarda la magia. Non quella vera di Ermete Trismegistus, di Eliphas Levi, Paracelso, Cristo e Buddha, ma quella spettacolare di Silvan, del Mago Forest e del suo amico Oronzo.

Anche mettendosi d’impegno non si capisce come il coniglio possa uscire dal cilindro, l’uovo dall’orecchio e la valletta sia mezza di qua e mezza di là.

È necessario riprendere il concetto del punto di attenzione. Sappiamo che un mago è un buon mago se il suo fare porta la nostra attenzione dove utile, affinché la sua magia possa sorprenderci.

Viceversa, consapevoli dei requisiti affinché la sorpresa possa accadere, di come questa implichi che qualcosa ci ha portato a guardare dove utile alla sua insorgenza, disponiamo di una carta in più nel repertorio delle nostre azioni.

Una carta a doppio servizio. Il disegno della figura ha la forma del diversivo. Al contrario del jolly che ha valore sostitutivo, il diversivo ha potere fuorviante. Messa in campo, attira e sposta l’attenzione dei giocatori-interlocutori. Si accomoda in tutti mazzi, è disponibile per tutti i giochi, si presta a tutti i tipi di relazione. Inclusa quella con se stessi. Nessun regolamento le riduce il valore potenziale. Lo può fare solo chi l’ha in mano. Come anche può esaltarlo. Ma non basta. Esso, il valore potenziale, dipende molto da noi che una volta messa in campo ne vediamo o meno, il significato, l’intento.


Essere in grado di vedere con precisione dove si trovi il proprio punto di attenzione, implica svestire la cosiddetta realtà dalle sue innumerevoli vesti e maschere. L’alto costo energetico risparmiato, permette nuotare controcorrente e arrivare alla sorgente degli archetipi e dei simboli. Permette di trovarsi. Di disintossicarsi. Di individuare la nostra natura, sola bussola in grado non subire le declinazioni magnetiche delle forme, delle chimere, delle ideologie, delle morali, dell’interesse personale. La sola che può svelarci la nostra direzione autentica. Che può mettere in evidenza quanta energia sprechiamo per lottare dentro il quadrato dell’Io. Ovvero, quanta creatività, cioè vita, ci sottrae. Non è tutto. Permette quindi di gestire noi stessi. Di condurci all’equilibrio e di offrirne esempio.


Gli interessati all’argomento ritengono l’emancipazione nei confronti del punto di attenzione un momento dell’evoluzione personale. Se il mondo ci appare in funzione di dove questo si posi, a trucchetto svelato ci si risparmia molta pena, molta vita non vissuta se non nella miseria spirituale. Viceversa, perderne il controllo o non averlo mai avuto, significa essere in balia dei nostri stessi sentimenti, delle nostre cieche reazioni.


La convergenza

Ecco, i sentimenti e le sue complici, le emozioni. È qui che avviene la convergenza di tutte le forze. Al loro interno si trovano i meccanismi di comando del punto di attenzione. Vederlo, riconoscere le ragioni dei suoi spostamenti, consapevolezza dopo consapevolezza, è il servigio che possiamo renderci e rendere.


Sapere cosa significhi punto di attenzione, è coltivare le doti del mago che c’è in noi. Lo fa la mamma per controllare il proprio piccolo. Le basta mettere in campo un argomento che ne tocchi la sensibilità. La madre buona lo fa per gestire gli interessi del bimbo, la cattiva per gestire i propri. Ma, consapevolezza permettendo, lo facciamo tutti quando il nostro scopo lo chiede. L’alternativa, è l’inconsapevolezza di come si sposti il punto di attenzione è inaccettabile. In quel caso, non ci saranno difficoltà a restare legati a un guinzaglio di cui non conosciamo il padrone, fossimo anche noi stessi.


Tutti siamo stati noria da qualcuno o da qualcosa. Solo poi, e solo a volte, ce ne siamo resi conto. Che fesso! Ci diciamo. Come ho fatto a crederci, a non accorgermi?

Può accadere tanto per il bene quanto per il male. In quelle occasioni, facilmente siamo autoindulgenti. Non ci sentiamo i responsabili del raggiro. Tendiamo a dare la responsabilità a qualcuno purché non sia noi stessi. È un ovvio epilogo emozionale e sentimentale della vicenda. Un evento dispiegato entro una delle innumerevoli scenografie di una realtà scaturita dalla sovranità di un incontrollato punto di attenzione.


Perché accennare alla responsabilità? Che c’entra con il punto di attenzione? Attribuire responsabilità tende a non risolvere i problemi che ci coinvolgono, che ci riducono la qualità della vita. Di qualunque stirpe si tratti, essi sono scaturiti con noi e in noi. Non avvedersene tende a mantenerli, ad alimentarli, a crearne di nuovi. Viceversa, assumersene la responsabilità, è la sola modalità per fare chiarezza. Per alzare il rischio di imparare dall’errore, per riconoscere le nostre vulnerabilità. Per scoprire a cosa il punto d’attenzione si era agganciato, cos’ fortemente da sganciarci da noi stessi. La regia di noi stessi è nostra, senza interruzione id continuità, è opportuno arrivare a riconoscerlo. È una via per scoprire chi siamo, per accorgerci chi credevamo di essere.


Scoprire dove il mago spinge il nostro punto di attenzione è utile senza essere utilitaristico. Serve a noi e a chi ci è vicino. Può cambiare il mondo o far vedere come qualcun altro ce lo stia cambiando sotto il naso. Se così non fosse – uno per tutti – perché crediamo che la disoccupazione possa ridursi, e così il debito pubblico? Perché pensiamo che il vaccino sia una manna? Perché accettiamo di essere via via più controllati pensando sia giusto? Perché non ci avvediamo che con una politica economica fondata sulla depredazione di Uomini e Terra tutte le ecologie circolari, gli impatti zero, e quelli sostenibili sono fuffa negli occhi? E perché, al gioco delle tre carte, non vediamo mai dove va a finire l’Asso?

Qui ce n’è uno: https://www.youtube.com/watch?v=IrauF74kGv0

E qui un altro: https://www.youtube.com/watch?v=wfizYqldjhA

Lorenzo Merlo



*Punto di attenzione è preso dal gergo impiegato da Marco Baston in La soglia dell’energia



Un viaggio esoterico nella "natura naturans"



Un colpo di vento mi porta ai 5337 Km. percorsi attraverso la penisola balcanica, come un filo elettrico, attraverso un luminoso caleidoscopio di paesaggi, tradizioni e contraddizioni senza fine… l’estate scorsa, al puntuale presentarsi del periodo delle ferie. Una risalita, a partire da quei lidi della Grecia, attraversati dalle sorgenti dell’Acheronte e da quell’isola infilata in un oceano di perlacea bellezza, dedicata alla ninfa Leucade, che è via via andata arricchendosi di colori, sensazioni e sorprese inaspettate, a partire dalla costa epirotica di quella terra d’Albania che, accanto all’ipertrofica confusione di uno sviluppo urbano spesso incontrollato, spesso nasconde squarci di inaudita bellezza. Coste contornate da mari perlacei ed improvvise risalite su passi di montagna ad altitudini alpine, da cui ammirare un panorama mozzafiato di isole e costiere. Città turche, come Berat, adagiate sui costoni di due montagne, da cui partire per visitare la versione illirica del monte Olimpo, attraverso un panorama riarso dal sole, sino a giungere alla fine della strada, alla presenza dell’immensità di un canyon, di una fenditura della crosta terrestre, probabilmente seconda solo a quella strapubblicizzata in Colorado, Usa. 

Oppure dopo una sfibrante gita da Saranda sulla costa meridionale, alla città storica di Argirocastro/Gjrokaster, tra monti impervi, solcati da stradacce e tornanti senza fine, fermarsi nella fresca radura delle sorgenti dell’Occhio Blu, infilate nel cuore delle montagne di un parco nazionale, e gettarsi tra i dieci gradi di gelide acque sorgive, quasi a voler rinnovare istintivamente il rito senza tempo di una “lustratio” a cui tutti i pellegrini ed i viaggiatori dovrebbero sottoporsi al termine di un percorso che non solo fisico è, ma anche, e specialmente ideale, connettendo l’anima a quell’ “idèin/vedere” che, di essa è il momento principiale…oppure dopo aver visitato i resti della ellenistica Butrint/Butrothos, andarsi a gettare nelle acque di una qualsivoglia assolata e semideserta spiaggia ionia. 

O visitare la greco-romana Apollonia e recarsi alla scoperta dei semideserti litorali a nord della confusionaria Valona. Parlare con la direttrice del rinnovato museo archeologico di Durres per poi scoprire che, la costa epirotica tutta, fu colonizzata da greci provenienti da Kerkyra/Corfù, isola cara agli Dei e, pertanto, tutta fu dedicata a Diana/Artemide, Dea della caccia e della natura ferina, lì a testimoniare che, a dispetto del brullo aspetto odierno, una volta le terre d’Albania erano ricoperte tutte da verdi foreste di querce, cipressi, faggi e pini, rifugio di fiere ma anche di ninfe e driadi…

Percorrere impossibili strade deserte attorno a laghi di montagna, lontani da tutto, eppure a due passi da città confuse come Scutari, le cui vestigia venete fanno bella mostra di sé nel centro città, accanto a moschee ed edifici cadenti. Scoprire la presenza veneta nelle città montenegrine di Cotor/Cattaro ed Herceg Novi, magari incastonata tra moschee e bastioni, come in Bar. Percorrere laghi oceanici, come quello di Scutari, aridi ed immoti, immersi in foschie senza tempo e d’improvviso ritrovarsi davanti agli occhi scorci di paludi e foreste senza fine…Allontanarsi dalla confusione delle città costiere, per respirare la quiete mistica in monasteri come quello di Ostrog, incastonato tra le rocce, a precipizio di una ripida montagna…

E poi tuffarsi nel verde della costiera dalmata, tra penisole ricoperte di pini e cipressi, contornate da isole senza fine, qua e là puntellate di chiesette e minuscoli borghi dalla caratteristica matrice architettonica veneta e da cui, ogni tanto, sbucano resti e vestigia romane. E poi quella disarmante gentilezza, quel senso dell’ospitalità, tutte balcaniche che, in Albania, proprio non ti saresti aspettato, ma che, senza eccezioni, accomunano tutte le lande da me percorse, Grecia, Albania, Montenegro e la Croazia stessa…

Ospitalità, cortesia, sorrisi, ma tante, troppe, significative contraddizioni che stonano significativamente. Arrivi nella povera Albania, tra strade scassate o altre in costruzione, edifici fatiscenti, redditi minimi da 250 euro al mese in su…ma un parco macchine da far paura anche ai nostrani italioti, tanto amanti delle quattro ruote. Miseria e povertà a profusione, ma tanti abiti firmati, griffe e tanti bei cellulari di ultima generazione… discoteche sul mare, con la musica sparata a tutta birra, neanche fossimo a Ibiza. 

Tra una tappa e l’altra, qualcuno sommessamente mi racconta di strutture sanitarie assolutamente insufficienti e mal funzionanti e di una endemica corruzione che, pare, stia rallentando la costruzione di strade e compagnia bella…Stessa solfa in Montenegro: anche se, rispetto all’Albania, ti sembra di stare in Svizzera, quanto a servizi, qualità dei cibi nei supermercati, etc., di strade kaputt e storie del genere se ne sentono a bizzeffe. Concludo il mio percorso in Croazia, prima a Ragusa/Dubrovnik e poi, infine, a Spalato, gironzolando per il Palazzo di Diocleziano. 

Mi ero precedentemente recato, alcuni anni fa, in queste città, e ben ricordavo le folle di turisti, ma quanto ho adesso veduto, ha stavolta superato ogni limite. Orde di giovinastri yankee vocianti e cafoni, hanno invaso la bella città; uno stuolo di ciccione sguaiate ed ubriache, coppiette di maschietti barbuti mano nella mano…arroganza, invadenza, totale mancanza di rispetto per la meravigliosa storia di Spalato. Il tutto con il condimento finale della squallida esibizione musicale di un guitto che, nello spiazzale antistante al Tempio di Giove ed alla Ecclesia Maior (edificata su un altro tempio pagano, sic!), con tanto di chitarra elettrica, intona un nauseabondo “Hey Jew” , ad memoriam dei Beatles, che li’, in quel contesto, proprio non “c’azzecca” nulla. La melodia (si fa per dire) del guitto è accompagnata da uno sguaiato coretto di turisti e turiste yankee, sbragati alla ben’e meglio tra le vetuste rovine di Spalato. Disgustato da quello spettacolo, mi allontano tra i vicoli della città, in cerca di un po’ di silenzio e nel mentre vengo colto da una visione che, di quell’intero scenario, rappresenta la classica ciliegia sulla torta. 

Mentre cammino assorto nei miei pensieri tra quegli stretti vicoli, il mio occhio cade in un negozio di non so cosa; spalle al muro, assise allo stesso tavolo, due splendidi esemplari di giovani femmine croate. L’etera bellezza di volti freschi dalla pelle tirata, condita da un’espressione immota, catatonica, rivolta verso il nulla…quel nulla che oggi si chiama cellulare, smartphone…

Come per un perverso sortilegio le due giovanette stanno lì a contemplare il nulla in tutta la sua magnitudo…per loro il mondo, la gente, in ragazzi, i sorrisi, gli ammiccamenti, la voglia di uscire, conoscere, curiosare, amare, il mondo, non esistono più…per loro è tutto un “emoticon”, dietro a cui sta solo un arido ed inanimato groviglio di fili e relais. Improvvisamente colto da un senso di fastidio e rabbia, torno a ripercorrere con la memoria, alcuni momenti della mia vita. E come per incanto, mi ritrovo proiettato in una via di Roma negli anni ’70, tra l’aspro fumo dei lacrimogeni e la voce roca a forza di urlare slogan, ma felice ed esaltato dagli scontri e dai cazzotti dati e presi con i compagni… mi ritrovo ancora una volta, zaino in spalla a viaggiare giovane ventenne con il treno attraverso quell’Europa, piena di splendide e sorridenti fanciulle straniere desiderose di fare quattro chiacchiere con un giovane di altre contrade…o a conversare tra sacchi di sabbia e strade deserte, al suono di colpi di cannone, con i giovani croati della “Garda” e della “Hos”, durante la terribile guerra balcanica dei primi anni ’90. 

Tutto crudamente e magnificamente vero, reale, animato dalla voglia di vivere, amare, morire che tutti quegli anni mi hanno sbattuto dinnanzi agli occhi, come in un film vissuto in prima persona. Mi risveglio, giro i tacchi e, mentre lascio le mie catatoniche marionette a svuotarsi le sinapsi in aridi giochi virtuali, mi dirigo verso il Tempio di Giove, di cui, sino a quel momento non ero riuscito a ritrovare, dopo anni, l’ubicazione. Il Tempio è piccolo e ben curato; a guardia del suo ingresso un omino a chiedere un balzello d’ingresso. Quale giornalista potrei entrar gratis ma, preferisco versare volontariamente quel “piaculum” quale dedica a Jupiter/Giove/Zeus/Nous, una volta Mente di quel Tutto, ora svuotato di qualsiasi contenuto, che non siano boutiques e cellulari…l’ambiente piccolo, sormontato da una statua assolutamente non pertinente e, addirittura, riempito di blocchi di muro pieni di glifi di età medioevale cristiana… mi allontano silenziosamente passando come un fantasma , indifferente a quel “bailamme” con il quale, mi rendo conto, sento di non aver nulla a che spartire. 

Ma non è solamente in Croazia, nella splendida Spalato, che ho avvertito questa sensazione. Dovunque io mi sia, in questi ultimi anni, recato, sia in moto che in aereo, sia in Europa che fuori di essa, via via in me è andata rafforzandosi la percezione di una barriera di incomunicabilità con il mondo esterno…oggidì rappresentato da quel mondo occidentale che, gettatosi anima e corpo tra le braccia di un alienante modello Tecno Economico, ha invece causato la propria desertificazione spirituale, avendo scelto di far gestire a quest’ultimo le proprie spinte vitali, sino ad arrivare al capolinea di un’assurda auto castrazione. E così il mio peregrinare attraverso terre e continenti, si fa metafora di un percorso attraverso tutti i fallimenti d’Occidente. Dalla ingloriosa fine delle dittature pauperiste che, in barba a tutti i bei propositi, hanno spalancato la strada a famelici e smodati modelli liberisti, anch’essi alienanti e fallimentari quanto queste prime, sino ad arrivare al cuore di un modello di sviluppo che, grazie al suo totale asservimento alla Tecno Economia, ha fatto dell’incomunicabilità tra gli individui, il proprio vessillo. 

E così mi rendo conto che i miei sono stati pellegrinaggi effettuati nel caos silente di un mondo che, sempre più, vive di apparenza e di poca, o nulla, sostanza. Ed è allora che, come in preda ad un repentino “satori”, sale nell’animo mio di giramondo la necessità di trovare delle risposte che sappiano essere oltre e dentro la stessa sostanza delle cose che ho davanti agli occhi. Il mondo mi si presenta allora innanzi, come un gigantesco caleidoscopio, una molteplicità di forme che fanno capo ad un’unica misteriosa realtà. Ed allora, oltre alla condizione della contemporanea, umana alienazione, mi ritrovo davanti agli occhi, in tutto il loro splendore, quei mari, quelle montagne, quelle foreste, quei deserti, ma anche quei magici “rassemblements” architettonici, che ho percorso in sacra solitudine. 

E capisco come le antiche semplificazioni, tutti quei modelli di intransigente monoteismo mentale, non siano più sufficienti a dare una spiegazione ed un senso alle cose. E sempre più avverto la presenza di una percezione “altra” da quella solita che, da sempre, costituisce sfida e tentazione per le menti che ne sappiano cogliere le suggestioni. Essa è fatta di simboli e simulacri oggi, all’apparenza, polverosi ma che, a guardar meglio, risvegliano in noi antiche e mai sopite suggestioni. Ci parlano di Astri, di insensate forme e simboli geometrici, ci riportano a Dei e Dee, ma anche alla possibilità attraverso essi, di penetrare l’anima, seppur senza estraniarsene, di quel mondo, di quella caotica e multicolore confusione, di cui costituiscono il senso ultimo. Meditando, appuntando le proprie energie mentali sopra uno di essi, scopri che possono essere il varco verso il controllo di uno o più aspetti di quella realtà che ci avviluppa come un misterioso Velo di Maya, ma che, d’improvviso sembra volerci disvelare e suggerire una soluzione all’apparenza semplice ma, per noi mortali, sempre sfuggente: quella del giuoco d’ombre dell’immanenza della trascendenza e della trascendenza dell’immanenza. 

E questa realtà finisce con il riportarmi a quel mondo che, con i suoi infiniti aspetti ne è la principale espressione. Il viaggio finisce così, con il farsi forma di autoiniziazione, di lucida apertura verso quella duplice dimensione della realtà, verso la quale, ogni qualvolta ne veniamo a contatto, non possiamo non provare “thàuma”/sbigottimento. Un’improvvisa folata di vento mi risveglia dai miei pensieri e mi riporta, a cavalcioni della mia moto, in un rigido pomeriggio d’autunno tra i monti dell’alto Lazio, tra foreste il cui rosso fogliame, mi fa venire alla mente l’arzigogolato manto di Diana, Dea delle foreste… proseguo lungo la strada del ritorno, mentre il carro solare di Helios va a tuffarsi per il tramonto in un mare di nubi, creando uno splendido effetto scenico multicolore. E’ l’ultimo saluto di quegli Dei che, oggidì, solo attraverso l’immersione nella “natura naturans”, si possono ancora incontrare….

 Umberto Bianchi ordet3000@yahoo.it 







Articolo in sintonia: https://www.ereticamente.net/2019/08/la-natura-esiste-ed-e-tangibile-dio-e-solo-unipotesi-paolo-darpini.html