Dei e veicoli….



Il dono di un veicolo è uno degli omaggi  rituali che vengono fatti al
maestro spirituale, questo perché il veicolo è riconosciuto come un
mezzo simbolico di trasmissione della sua grazia,  regalare   un
carro, un elefante, un cavallo o -in tempi moderni- un’automobile
significa che  ci si aspetta che il favore del maestro venga
trasferito insomma “veicolato” all’offerente attraverso quel mezzo
simbolico. Proprio seguendo questa tradizione capitò  -ad esempio- che
Osho Rajneesh (ma non solo lui)  collezionasse  30 e più Rolls Royce…

Chi ha qualche dimestichezza con l’iconografia indiana ricorderà che
ogni divinità ha un suo mezzo di trasporto,  che sta a significare il
modo in cui l’energia del Dio viene trasmessa.  Vediamo che  Vishnu,
il preservatore,  ha per cavalcatura una grande aquila, essa
simboleggia la capacità del Dio di scorgere nei minuti dettagli ciò
che avviene nel mondo per scendere giù a velocità stratosferica  a
punire i malvagi e sollevare le sorti dei devoti in difficoltà.
Brhama, il creatore, ha invece per “mount” un cigno bianco che
rispecchia la capacità del cigno di dividere il latte (la saggezza)
dall’acqua  nell’oceano primordiale della creazione.

Ma qui potremmo già cominciare a porci dei dubbi… infatti si può pure
immaginare una grande aquila hymalayana, con apertura alare che
raggiunge i dieci metri, trasportare un Dio nelle sue missioni del
dharma (giustizia) ma un cigno… come fa a trasportare un Dio che
-essendo creatore-  già ce lo immaginiamo un po’ pesante??  I punti
interrogativi aumentano e la necessità di un chiarimento  si fa
impellente quando infine osserviamo l’immagine di Ganesh, Dio di
pesante stazza  con la testa da elefante, che è preposto a rimuovere
gli ostacoli, sia in senso spirituale che materiale, che si
frappongono sul nostro cammino. Il Dio Ganesh è dipinto con ai piedi
la sua cavalcatura, un piccolo topo che sgranocchia beato un laddu 
(dolce di riso).



Ebbene a questo punto ci è praticamente impossibile visualizzare
l’enorme Ganesh che monta sul topolino, eppure leggiamo che il topo è
il suo veicolo, come può succedere!?  E qui è necessario fare
ulteriore chiarezza sulla simbologia del “veicolo” e soprattutto di
quel che sta a significare il topo nella tradizione orientale, e
questo non solo in India ma anche in Cina….

Allora l’immagine del topo serve a “veicolare” le qualità che vengono
riconosciute a questo animale, che è anche un archetipo primordiale.
Se pensiamo bene alle capacità miracolose del topo scopriamo che egli
è un vero genio della sopravvivenza,  un maestro in se stesso nella
rimozione di ogni ostacolo che si frappone fra lui e la vita.  Un topo
sa come arrampicarsi su una superficie verticale, purché vi sia la
minima asperità,  persino meglio di una lucertola, di un geco od altri
animali arrampicatori.  Se precipita da una grande altezza, anche
mille volte superiore alla sua, ne esce perfettamente indenne, è un
vero planatore in caduta libera.  Che dire poi della sua preveggenza
che gli fa capire quando è ora di abbandonare la nave che affonda?
Egli è un ottimo nuotatore e sa come  salvarsi meglio di qualsiasi
naufrago, ed infatti in ogni angolo del mondo prima degli umani sono
arrivati i topi.  Anche nella sua vita sociale  è ben attrezzato, chi
non conosce l’astuzia del topo nello sfuggire alle trappole? I sistemi
di anti-rattizzazione sono impotenti contro le orde di roditori
cittadini che dispongono di appositi assaggiatori,  vecchi e malandati
elementi che fungono da cavie per testare i cibi sospetti, così la
tribù si salva sempre.

Non basterebbe una biblioteca di psicologia animale per descrivere i
suoi sotterfugi e le sue furbizie che gli garantiscono la
sopravvivenza in ogni occasione, persino in caso di esplosione
nucleare i topi saprebbero cavarsela meglio di noi.  Inoltre occorre
specificare che in verità il topo è stato l’iniziatore della stessa
specie umana, il capostipite primo, non sto raccontando una balla
(stavolta), state calmi…    Accadde proprio quando ci fu il grande
cataclisma che distrusse tutti i grandi rettili, che a quel tempo
dominavano il pianeta,  e già era nato un piccolo roditore, il primo
mammifero, per correttezza chiamiamola “mammifera”  la quale aveva la
taglia di una pantegana (un po’ più piccola della nutria), e mentre
attorno a lei c’era solo morte e nubi nere,  la saggia topa di fogna
campò benissimo sui cadaveri e sul marciume, e di lì a pochi millenni
diede vita a tutte le specie di mammiferi sulla terra, ivi compreso
l’uomo.  Che grande miracolo… in mezzo alla carneficina,  quella santa
 pantegana  trasformò gli ostacoli della distruzione  del mondo in
vittoria…  la supremazia della sua  capacità di adattamento. Mi sa che
saprebbe ancora farlo questo gioco, se l’uomo andrà avanti a sfidare
la vita sul pianeta… sappiamo già chi è in grado di resistere
all’olocausto.   Ed allora perché meravigliarsi se il topo è stato
scelto come veicolo di Ganesh?

Paolo D’Arpini

L'autore chiede un passaggio


Quel Buddha che è nella sala...

 


Un monaco chiese a Joshu: “Cos’è il Buddha?”.

“Quello nella sala”.

Il monaco disse: “Quello nella sala è una statua, un pezzo di fango!”.

Joshu rispose: “Esatto”.

“Allora cos’è il Buddha?” chiese di nuovo il monaco.

“Quello nella sala”.

 

Ora questo è strano. È d’accordo con lui che quella è solo una statua, un pezzo di fango, dice: “Esatto”. E quando l’uomo chiede di nuovo: “Allora cos’è il Buddha?” Joshu ripete: “Quello nella sala”.

Cosa vuole dire Joshu? Vuole dire che finché non smetti di chiedere “Cos’è il Buddha?” sei in cerca di una statua. Finché continui a chiedere “Cos’è il Buddha?” chiedi qualcosa di oggettivo. Ecco perché risponde: “Quello nel tempio, quello è il Buddha”. Se continui a chiedere “Cos’è il Buddha?” vuoi una risposta oggettiva, ma il Buddha è la tua soggettività.

Quindi è d’accordo con l’uomo: “Sì, hai ragione. Quello all’interno del tempio non è un vero Buddha. È una statua di fango”. Naturalmente l’uomo deve aver avuto una speranza: “Ora arriverà qualche altra risposta”. Chiede di nuovo: “Allora dimmi che cos’è il Buddha” e non si aspetta che Joshu risponda di nuovo allo stesso modo. Aveva convenuto che quella era solo una statua, una statua di fango. Ma di nuovo dice: “Quello nel tempio”. Perché? Perché se continui a chiedere qualcosa di oggettivo, chiedi qualcosa di morto.

La realtà è soggettiva. Dio è soggettivo. È il tuo nucleo più intimo, è la tua interiorità. Non puoi fare una domanda del genere. Devi andare dentro di te per sapere “Cos’è un Buddha”. E quando inizi ad andare verso l’interno, ti sposti sul Tao. E quando inizi a spostarti sul Tao, inizi a usare dhyan, la meditazione, lo Zen. Lo Zen è il metodo per andare dentro. Il Tao è la via che ti conduce al tuo nucleo più intimo. Il tuo nucleo più intimo è Buddha. Tu sei un Buddha.

La prima cosa è accettare la vita così com’è. Quando l’accetti, i desideri scompaiono. Quando l’accetti così com’è, le tensioni scompaiono, il malcontento scompare. Quando l’accetti così com’è, inizi a sentirti pieno di gioia e senza alcuna ragione. Quando la gioia ha una ragione, non dura a lungo. Quando la gioia è senza ragione, dura per sempre.

Per un essere umano ci sono due modi di essere. Può cercare di avere più cose e allora va contro il Buddha, contro il Tao, contro lo Zen. Quando un uomo è troppo preoccupato di avere di più, è un uomo mondano. E un uomo che afferma che tutto ciò che accade va bene, che si rilassa, che non si preoccupa di avere più soldi, più potere, più prestigio, più rispettabilità; un uomo che si rilassa in tathata, nello stato delle cose, nell’essenza, diventa una persona religiosa. Comincia a entrare dentro.

Quando pensi ad avere di più, vai verso l’esterno. Quando ti preoccupi di avere, vai verso l’esterno. Quando non ti preoccupi più di avere, ti sposti verso l’essere. E l’essere è il Buddha.


Testo di Osho da: Zen: The Path of Paradox




IL PARADOSSO DEL GATTO E L’ESPERIMENTO EPR...



La posizione di Bohr – che dette luogo alla cosiddetta “Scuola di Copenhagen” ed all’interpretazione detta “ortodossa” della fisica quantistica, era condivisa dal gruppo di ricercatori che si radunava presso l’Università tedesca di Gottinga, tra cui il matematico Max Born (1882-1970) maestro di fisici importanti come Oppenheimer e Delbrück, (e poi Premio Nobel solo nel 1954 dopo essere fuggito dalla Germania in quanto ebreo), il suo collaboratore Pascual Jordan, e più saltuariamente due giovani e brillanti fisici: l’austriaco Wolfgang Pauli (1900-1958) ed il tedesco di Monaco Werner Heisenberg (1901-1976)(2)(3).

Quest’ultimo era noto per le sue idee “patriottiche”: aveva partecipato come volontario alla sanguinosa repressione del moto comunista del 1919 noto come “Repubblica Sovietica della Baviera”. Dopo una visita di lavoro a Bohr presso l’Istituto di Fisica Teorica di Copenaghen, e durante una permanenza solitaria nella quiete dell’isola di Helgoland (dove si era ritirato per curare un’allergia), concepì un complicato metodo di calcolo, che fu la base della cosiddetta “Meccanica Quantistica“ (2).

Il metodo metteva in relazione matematica tra loro “solo quantità (fisiche) che sono osservabili” (come le frequenze e le intensità degli spettri atomici) ricavandone delle equazioni che dovevano esprimere il comportamento delle particelle sub-atomiche. L’amico Born interpretò queste relazioni matematiche come tipiche del calcolo con “matrici”, ovvero tabelle quadrate di dati che vengono moltiplicati e sommati con un criterio ed una sequenza particolare non commutabile. Alla fine del 1925 il metodo “matriciale” fu riassunto nel cosiddetto “Lavoro dei tre uomini” pubblicato a firma di Heisenberg, Born e Jordan. Einstein commentò ironicamente che il metodo era inconfutabile perché molto complesso (e quindi difficile da capire!).

Da parte sua Heisenberg, proseguendo sulla stessa strada, che lo portò fino alla conquista del Nobel nel 1932, elaborò nel 1927 per via matematica il famoso principio di indeterminazione secondo cui è impossibile nella fisica microscopica determinare con precisione contemporaneamente la quantità di moto (cioè il prodotto della massa per la velocità) e la posizione di una particella. Analogo risultato si avrebbe per altre coppie di grandezze fisiche tra loro “coniugate” (come energia e tempo, ecc.). I fisici della “scuola di Copenaghen” – seguaci di Bohr ed Heisenberg - ne derivavano l’impossibilità di determinare il reale comportamento delle onde-particelle elementari, se non su base probabilistica.

Heisenberg riteneva che le particelle comparissero saltuariamente in punti diversi senza una vera traiettoria. Un trentennio dopo il fisico statunitense Richard Feynman riteneva che nell’esperienza della doppia fenditura (vedi numero precedente) potessero esservi infinite traiettorie alternative degli elettroni (compresa quella fino alla Luna e ritorno!) di cui calcolare la probabilità. Di qui il passo è breve verso una posizione, non solo agnostica, ma addirittura anti-deterministica. Di qui provengono una serie di affermazioni dei fisici quantistici “ortodossi” tese a sostenere che ciò che succede nel mondo subatomico è “casuale” e che il rigoroso principio di causa-effetto va sostituito da un principio di semplice interrelazione tra fenomeni.

Posizioni simili erano sostenute anche nell’antichità. Abbiamo ricordato nei primi numeri di questa rubrica, che mentre all’atomista Leucippo viene attribuita la bellissima frase di stampo determinista: “nulla avviene nell’Universo che non abbia una causa ed una ragione”, Epicuro, pur adottando la fisica atomistica, sosteneva che gli atomi potevano subire delle deviazioni arbitrarie ed ingiustificate (in latino: “clinamen”).

Einstein, che era determinista, coniò – in polemica con Bohr – la notissima frase: “Dio non gioca a dadi”, ovvero la natura procede per leggi precise, individuabili anche con “esperimenti mentali”, mediante i quali dagli effetti si può risalire alle cause, ma anche dalle cause prevedere gli effetti. Einstein dichiarò anche che, se il comportamento microscopico della materia fosse stato casuale, allora egli, piuttosto che fare il fisico, avrebbe preferito fare il croupier! Ricordiamo che tutti i grandi scienziati sono stati in genere deterministi, materialisti ed indagatori della realtà “oggettiva” data per scontata (vedi Galilei, Newton, Lavoisier, Laplace, Dalton, Faraday, Maxwell, Planck, De Broglie, ed il povero Boltzmann che all’inizio del ‘900 si suicidò, anche per gli attacchi continui mossigli dagli ambienti anti-realisti ed empirio-criticisti).

Lo scontro fra i due schieramenti era diventato più intenso da quando il brillante fisico viennese Erwin Schrödinger (poi Nobel nel 1933) già nel 1926 aveva elaborato una famosa equazione differenziale a derivate parziali basata su un modello ondulatorio delle particelle derivato da De Broglie, e sul concetto di “funzione d’onda”, che dava gli stessi risultati ottenuti da Heisenberg sull’energia e lo stato delle particelle, ma in maniera molto più semplice ed elegante(4). Questo modello, definito “Fisica ondulatoria“, che era molto più vicino alla fisica meccanica “classica”, ebbe l’entusiastica approvazione di Einstein, Planck, De Broglie, ma fu invece interpretato da Max Born in maniera solo probabilista, nel senso che la funzione d’onda rappresentava solo la probabilità che la particella si trovasse in punti diversi, e non un fenomeno ondulatorio reale. Secondo Born, Bohr, ed i loro seguaci, nel momento in cui le particelle vengono registrate dallo sperimentatore in punti precisi su una lastra finale la funzione d’onda “crolla” e si dissolve.

La polemica aperta tra Bohr ed Einstein si manifestò soprattutto durante il famoso Convegno Solvay della Fisica di Bruxelles nel 1927 e persino durante il pranzo di gala serale(5). Successivamente lo stesso Schrödinger, Pauli, il matematico Eckart, ed altri fisici e matematici hanno dimostrato che il metodo delle matrici e quello della funzione d’onda portano agli stessi risultati. Il noto matematico Hilbert ha cercato di darne dimostrazione con il metodo delle funzioni integrali(6), mentre il brillante fisico inglese Maurice Dirac (1902-1984) si servì della cosiddetta “funzione Delta” male accolta inizialmente ed accettata solo negli anni ’50. Il tentativo più coerente fu fatto matematico ungherese Von Neumann, che già aveva pubblicato insieme ad  Hilbert nel 1927 una memoria sui “Fondamenti della Meccanica Quantistica”. Egli elaborò una cornice matematica assiomatica astratta, definita “spazio di Hilbert”, di cui le matrici di Heisenberg e l’equazione di Schrödinger erano solo casi particolari(7).

L’interpretazione probabilistica di Born completa il quadro dell’impostazione “ortodossa” della Fisica Quantistica, di cui gli altri caposaldi sono l’indeterminismo e la complementarità(8). Ciò comporta l’uso di formule matematiche che prevedano i risultati sperimentali finali senza investigare sulle realtà ed i processi che si celano nel profondo, dove tutto è indeterminato e solo probabile sotto l’apparenza fenomenica rilevata dall’osservatore. È l’osservatore/sperimentatore che – in un certo senso- con il suo intervento diretto determinerebbe il risultato finale.

Nel 1935 Schrödinger prese in giro queste posizioni degli “ortodossi” immaginando un povero gatto chiuso in una scatola dove un meccanismo mortale può o non può scattare. Per gli “ortodossi” il gatto sarebbe contemporaneamente vivo e morto, finché è proprio lo stesso sperimentatore, nel momento in cui apre la scatola, a determinare con il suo intervento la realtà finale, ovvero l’eventuale morte del gatto..

Anche Einstein nello stesso anno, insieme a Boris Podolski e Nathan Rosen, elaborò l’esperimento mentale detto EPR (dalle iniziali dei tre autori), in cui due particelle tra loro “correlate” (in inglese “entangled”: aventi cioè medesimi parametri e comportamenti, fatto che si può ottenere dal decadimento di un atomo in condizioni opportune) si allontanano fino a distanza alla quale non possano interferire tra loro. Si potrebbe allora misurare contemporaneamente il momento e la velocità di una e la posizione dell’altra aggirando il principio di indeterminazione e rientrando in un regime deterministico.

Naturalmente Bohr rispose sia a Schrödinger che ad Einstein innescando un dibattito che sarebbe troppo lungo descrivere. Tuttavia l’esperimento divenne un “paradosso” quando Einstein fece anche notare che il comportamento correlato a distanza delle due particelle poteva essere spiegato, o con l’esistenza di “parametri nascosti” che imponevano deterministicamente quel comportamento (fatto poi smentito dal teorema del fisico nord-irlandese Stuart Bell : vedi N. 108), o con la trasmissione di un’informazione istantanea a distanza tra le due particelle, fatto allora considerato paradossale perché si sarebbe superata la velocità della luce.

Ma proprio partendo da questa presunta paradossalità due valenti fisici, di cui ci interesseremo nei prossimi numeri, lo statunitense David Bohm nel 1951 e lo stesso nord-irlandese Bell nel 1964-66 daranno inizio al più sconcertante sviluppo della fisica quantistica, quella del “non-localismo”, cioè della trasmissione istantanea a distanza di informazioni, poi confermata da numerosi e convincenti esperimenti a partire dagli anni’70 del XX secolo.

Vincenzo Brandi






(1) RBA, “Le Grandi Idee della Scienza – Bohr”

(2) RBA, “Le Grandi Idee della Scienza- Heisenberg”

(3) RBA, “Le Grandi Idee della Scienza – Pauli”

(4) RBA, “Le Grandi Idee della Scienza- Schrödinger”

(5) G. Greison, “L’incredibile Cena dei Fisici quantistici”, Salani, 2016

(6) RBA, “Le Grandi Idee della Scienza. – Hilbert”

(7) RBA, “Le Grandi Idee della Scienza – Von Neumann”

(8) L. Geymonat, “Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico”, Garzanti 1970 e seg.

"Vivere, parlare, pensare. Senza dire Io" - Recensione

 


Ogni vita è un percorso iniziatico all’interno del quale dobbiamo il più possibile “Vivere, parlare, pensare senza dire io”.
Questo è uno dei molteplici insegnamenti che possono emergere dalla lettura del libro di Lorenzo Merlo.

Il libro si articola nelle seguenti parti:

  • Introduzione dell’autore
  • Intervista a Paolo D’Arpini
  • Intervista a Marco Baston
  • Spazio dedicato agli autori che arricchiscono il libro con varietà di note, citazioni e brani riportati
  • Postfazione di Paolo Lissoni

Le note di molteplici autori costituiscono un arricchimento e un completamento del discorso intrapreso nel libro e al tempo stesso forniscono spunti per studi e approfondimenti futuri.

L’introduzione di Lorenzo Merlo ci accompagna verso le interviste a Paolo D’Arpini e Marco Baston e ci riporta all’attenzione interrogativi essenziali con cui sviluppare il nostro pensiero.
Riportiamo una parte dell’introduzione:
Realtà data o realtà creata?
Prendere consapevolezza del potere coercitivo che le abitudini esercitano nei confronti della nostra evoluzione verso un’intelligenza non egoica ne riguarda l’implicita potenzialità rivoluzionaria.
Il passaggio evolutivo si compie attraverso l’evidenza che ciò che chiamiamo io – entità alla quale crediamo di corrispondere – non è che un’incastellatura di consuetudini e, nuovamente, di abitudini con le quali tessiamo una rete di valori, di morali e di significati, considerati da noi stessi indispensabili per guidare noi stessi nella vita.” (pag. 44)

L’Io è il filtro con cui vediamo la realtà filtrata, cos’è dunque la realtà?
Possiamo avere esperienza del “reale” in assenza di filtro?
“Senza dire Io” ci spinge a ricercare quell’Uno dove c’è assenza di separazione, quell’uno che riposa in pace nel nostro “Sè” più occulto mentre il nostro “Io” lavora incessante-mente nel recitare la sua parte in questa divina commedia chiamata vita.
Identificarsi esclusivamente con la parte recitata culmina nel convincimento di essere separati dagli altri, dalla natura, dall’universo, mentre ciò che consideriamo staccato, separato, lontano da noi è molto più vicino di quanto possiamo immaginare.

Siamo quella goccia d’acqua nel mare che finchè diceva “Io sono la goccia” non riusciva a conoscere il mare; quando ebbe la volontà di dire “Io sono il mare” conobbe il mare perchè divenne il mare, prese coscienza di essere il mare che si è individualizzato in una goccia per fare l’esperienza della goccia assieme alla miriade di gocce che sono sue sorelle, immagini, riflessi di sé.

Riportiamo un estratto del pensiero induista-taoista-orientale di Paolo D’Arpini:
“Non c’è mistero più grande di questo, che continuiamo a cercare la realtà sebbene di fatto noi siamo la realtà” citazione di Ramana Maharshi riportata da Paolo D’Arpini.
Quel Sè (Atman) è contenitore e contenuto, autoesistente, e contemporaneamente aldilà di ogni manifestazione e pensiero” ci spiega Paolo D’Arpini. (pag. 92)

Di seguito un’estrapolazione dell’intervista a Marco Baston, di estrazione mesoamericana-tolteca-castanedica:
Prendere coscienza è un fatto personale.
Per i guerrieri (coloro che hanno consapevolezza dell’apparenza della realtà) è un inizio, uno strumento base che, una volta acquisito, diviene un mezzo di sviluppo per abbandonare l’interpretazione del mondo che ci hanno insegnato e entrare, e poi permanere in un nuovo stato, in una nuova dimensione.
è una cosa che richiede amoreinnamorati della conoscenza.” (pag 212)

Continuiamo con un estratto di Paolo Lissoni dove vengono messi a confronto gli autori intervistati in questo libro:
“In definitiva, entrambi gli autori riconoscono che la pratica stabile dell’essere spirituale è il sentimento di costante presenza indivisa nella consapevolezza della irripetibilità della vita in ogni forma.
Ed al di là delle diverse terminologie, entrambi gli autori differenziano fra loro l’Io personale razionale, definibile come ‘Ego’, dallo spirituale, il ‘Sè’, il quale consiste semplicemente nella consapevolezza, per cui il Sè non ha una definizionené può essere oggetto di conoscenza essendo la conoscenza stessa.” (pag. 285)

Concludiamo sottolineando che il contenuto di questo libro porta alla luce quell’interconnessione tra spiritualità (o se vogliamo religione laica), filosofia e scienza che spesso rimane nel buio di un’inutile quanto dannosa contrapposizione fra questi tre elementi del pensiero umano.

Recensione a cura di Informazione Eretica

Titolo del libroVivere, parlare, pensare Senza dire Io – Interviste a uomini come noi

AutoreLorenzo Merlo

Editore: Primiceri Editore www.primicerieditore.it

Anno di pubblicazione: 2021

Informazioni sull’autore:


Lorenzo Melo nasce a Milano nel 1958.
E’ giornalista, fotografo e guida alpina.
Collabora con diversi canali d’informazione e di ricerca umanistica come:
gognablog.sherpa-gate.comcontroinformazione.inforiciclaggiodellamemoria.blogspot.comereticamente.netcriticaimpura.wordpress.comgiornaledelribelle.itluogocomune.net.
Le sue tematiche sono l’ambiente, la condizione umanistica, la geopolitica, la didattica, la comunicazione, l’epistemologia, la sicurezza, la critica sociale.


Il "volume" della conocenza...



La cultura materialista, razionalista, meccanicista, positivista, scientista ci impedisce di compiere osservazioni banali per conoscere le modalità che rivelano chi siano gli artefici di tutti i nostri problemi.

1.

Nel volume ci sono tutti gli uomini e con essi tutte le loro idee e con esse tutto il tempo, quand’anche tutto lo spazio.

L’inconsapevolezza di questa banale osservazione genera la storia che conosciamo. Storia di conflitti.

Fenomenologia e accettazione sono due espressioni originarie da, tra loro, lontane geografie. Che si muovono però sullo stesso binario, divise soltanto da forma, tempo e spazio. Entrambe portano in sé la medesima ricerca destinata a spiegare le origini dei conflitti. Entrambe hanno in nuce la via che porta alla consapevolezza utile per ridurre nella praxis, ed eludere nella teoria, il rischio di conflitto.

Osservando negli uomini la loro ontologica necessità di rispettare le orme della propria biografia, esattamente come i piedi posteriori del cavallo si posano dove erano quelli anteriori, possiamo riconoscerne una coerenza intrinseca, alla quale mai veniamo meno. Anche in occasione di aggiornamenti della nostra identità. Non a caso, questa non avverte alcuna interruzione con ciò che si era rispetto a ciò che si è divenuti. Quel senso di essere sempre gli stessi sussiste anche in occasioni di morti simboliche, dalle quali si rinasce inseguendo modalità e valori prima assenti. La biografia è una e una soltanto. La striscia di bava che lasciamo indica il percorso che abbiamo fatto, le svolte brusche e le continuità.

Tale perseveranza si riempie di innumerevoli affermazioni, tutte relative agli interessi che porta, tutte con un obbligato fondo, più o meno spesso, di positivismo a breve e a lunga fioritura.

Ogni affermazione richiede un campo dal quale emergere o nel quale esistere.

Ogni campo è governato da norme, tali per cui un’affermazione inopportuna viene subito punita o esclusa. Il bimbo che non conosce l’affermazione della lama si taglia, in quanto non rispetta le regole sottese alla verità intrinseca all’affermazione stessa.

Per muoversi entro il campo implicito nell’affermazione è dunque necessario stare alle regole.

Il campo contiene la verità e questa sussiste soltanto attraverso il rispetto delle leggi che lo governano.

Fieri di ciò, le affermazioni vengono difese, se necessario fino alla sopraffazione dell’altro. Altrimenti detto, significa che l’io si muove tra campi creati dalle sue affermazioni o entrando in campi creati da altri, per condividere la verità che portano o per demolirla.

Così procedendo, ci si trova vincolati alla permanente oscillazione tra l’adesione e il rifiuto, tra l’amore e l’odio.


2.

Con la presa di coscienza del campo e della nostra volontà di sostenerlo, possiamo riconoscere la struttura egoistica del nostro fare e il conseguente permanente stato di conflittualità che comporta.

Diviene possibile ora una ulteriore consapevolezza. La nostra modalità è davvero nostra, nel senso, di tutti.

Per il passo successivo è disponibile l’osservazione che i campi creati dalla nostra biografia, dalle nostre esigenze, altro non sono che congetture. Infatti, se mettiamo in un solo volume tutte le posizioni e tutte le idee di tutti gli uomini – ognuno dei quali si crea il campo in cui ciò che afferma è vero – non possiamo che convenire all’evidenza che da quel volume strumentalmente scegliamo ciò che di più ci aggrada. Ma, se tutti facciamo così, come possiamo ritenere di aver tratto dall’infinito soltanto il giusto e il vero?

Ponendosi questa domanda, ci si motiva a trovare, non la risposta, ma l’antidoto. Ciò che sta nel nostro campo è di pari dignità con quanto sta nel campo altrui, fosse anche un poco di buono, in quanto la meritocrazia è a sua volta una verità di campo.

L’identificazione di se stessi con il proprio giudizio è come una falce che reseca le espressioni altrui. Ogni giudizio, affermazione, posizione, ha come struttura portante uno spericolato allineamento dei pochi elementi che gli permettono di traguardare per un momento tra le nebbie delle forme e delle forze, il culmine dell’affermazione in quanto verità. Basterebbe che... è un campione valido che tutti abbiamo impiegato per risolvere il problema prospettato. Come Ulisse, che per affermare la sua posizione ha la convinzione e la determinazione sufficienti a tendere l’arco e scoccare la freccia che attraverserà gli anelli delle scuri, in un simbolico allineamento dei punti e degli elementi utili al suo discorso.

Abbattiamo tutti e sempre il misterico volume nella verità della bidimensione. Traiamo dall’incommensurabile divenire una semplice istantanea. Strumento indispensabile per descrive la ferma realtà che vi è rappresentata.

Stando così le cose, il rischio di conflitto si riduce e si alza quello della tolleranza. Tolleranza tutt’altro che moralistica o buonistica o politica. Bensì autentica. Che in pratica si esprime in forza.

Fino a quel momento sperperata dietro meretrici in forma di verità.

Lorenzo Merlo 



Sogno o son desto...?

 


Vi racconto un aneddoto, una bellissima storia ebraica. È immensamente significativa: parla di un uomo.

Aveva sempre sonno. Era sempre pronto a dormire. Da tutte le parti. Ai grandi raduni di massa, ai concerti e ai convegni importanti, lo si vedeva sempre seduto e addormentato.

Devi aver conosciuto quell’uomo, perché tu sei quell’uomo. E devi aver incontrato quell’uomo molte, molte volte, perché come avresti potuto evitarlo? Sei tu!

E dormiva in ogni posizione concepibile e inconcepibile. Dormiva con i gomiti per aria e le mani dietro la testa. Dormiva in piedi, appoggiato a se stesso per non cadere. Dormiva a teatro, per le strade, nella sinagoga. Ovunque andasse, i suoi occhi grondavano di sonno.

Se fosse stato un hindu avrebbe potuto persino dormire in shirshasan. Ho visto degli hindu dormire in quel modo. Molti yogi diventano bravissimi nel dormire capovolti sulla testa. È difficile, scomodo, e richiede una grande pratica, ma succede.

I suoi vicini di casa raccontavano che aveva dormito anche durante sette grandi incendi e che una volta, in un incendio davvero grande, fu portato fuori dal letto, ancora addormentato, e adagiato sul marciapiede. Dormì ancora per diverse ore fino a quando arrivò una pattuglia della polizia che lo portò via.

Si raccontava che quando era in piedi sotto il baldacchino nuziale e pronunciava i suoi voti: “Prometto di...” si addormentò alla parola “santo” – cercate di ricordare quest’uomo – e dovettero picchiarlo sopra la testa con dei pestelli di ottone per diverse ore per riuscire a svegliarlo. Poi disse lentamente la parola successiva e si addormentò di nuovo.

Ricorda la tua cerimonia nuziale. Ricorda la tua luna di miele. Ricorda il tuo matrimonio. Sei mai stato sveglio? Hai mai perso un’occasione in cui avresti potuto addormentarti? Ti sei sempre addormentato!

Lo dico in modo che tu possa credere alla prossima storia del nostro eroe!

Una volta, andò a dormire e dormì molto a lungo. Ma nel sonno gli parve di udire dei tuoni per la strada e di sentire il suo letto tremare. Quindi pensò, nel sonno, che fuori pioveva, e di conseguenza il suo sonno diventò ancora più delizioso. Si raggomitolò nel tepore della sua coperta.

Ricordi quante volte hai interpretato le cose attraverso il sonno? Ti ricordi che a volte hai puntato la sveglia e che quando ha suonato hai cominciato a sognare di essere in chiesa e che fossero le campane a suonare? Un trucco della mente per evitare la sveglia, per evitare il fastidio creato dalla sveglia.

Quando si svegliò vide uno strano vuoto: sua moglie non c’era più, il suo letto non c’era più, la sua coperta non c’era più. Avrebbe voluto guardare dalla finestra, ma non c’era nessuna finestra da cui guardare. Avrebbe voluto scendere le tre rampe di scale e gridare “Aiuto!”, ma non c’erano scale da scendere né aria in cui urlare. E quando avrebbe voluto semplicemente uscire di casa, vide che non c’era un fuori. Era tutto evaporato!

Per un po’ rimase lì confuso, incapace di comprendere cosa fosse successo. Ma poi pensò: vado a dormire. Vide, però, che non c’era più terra su cui dormire. Solo allora si portò due dita alla fronte e rifletté: “A quanto pare ho dormito fino alla fine del mondo. Che bel pasticcio!”.

Diventò depresso. Niente più mondo, pensò. “Cosa farò senza un mondo? Dove andrò a lavorare, come farò a guadagnarmi da vivere, soprattutto ora che il costo della vita è così alto e una dozzina di uova costa un dollaro e venti centesimi e chissà se sono fresche. E che ne sarà dei cinque dollari che mi deve la compagnia del gas? E dov’è finita mia moglie? Possibile che sia scomparsa anche lei con il mondo e con i trenta dollari di paga che avevo in tasca? E lei non è per natura il tipo che scompare” pensò tra sé e sé.

Anche tu penserai in questo modo, un giorno, se scoprirai improvvisamente che il mondo è scomparso. Non saprai a cos’altro pensare. Penserai al prezzo delle uova, all’ufficio, alla moglie, ai soldi. Non sai a cos’altro pensare! Il mondo intero è scomparso! Ma sei diventato meccanico nel modo di pensare.

E come farò a dormire? Su cosa mi stenderò se non c’è il mondo? E mi farà male la schiena? E chi finirà il lavoro al negozio? E supponiamo che abbia voglia di un whiskey, dove lo prendo?

“Eh” pensò “si è mai vista una cosa del genere? Un uomo si addormenta con il mondo sotto la testa e si sveglia senza!”.

Questo accadrà un giorno o l’altro. È quello che succede a ogni uomo quando muore. Improvvisamente, il mondo intero scompare. Improvvisamente non fa più parte di questo mondo. Improvvisamente è in un’altra dimensione. Questo succede a ogni uomo che muore, perché tutto ciò che conosci è periferico. Quando muori, improvvisamente la tua periferia scompare: sei scaraventato nel tuo centro. E tu non conosci quel linguaggio. E tu non sai niente del centro. Sembra privo di tutto, vuoto. Sembra solo una negazione, un’assenza.

Mentre il nostro eroe se ne stava lì in mutande, chiedendosi cosa fare, gli venne in mente un pensiero: “Al diavolo! Non c’è nessun mondo! Chi ne ha bisogno comunque? Scomparso è scomparso: tanto vale andare al cinema e ammazzare un po’ di tempo”. Ma con suo stupore vide che, insieme al mondo, erano scomparsi anche i film.

“Ho combinato un bel pasticcio qui”, pensò il nostro eroe e cominciò a lisciarsi i baffi. “Un bel casino ho combinato qui, addormentandomi! Se non avessi dormito così profondamente”, si rimproverò, “sarei scomparso insieme a tutto il resto. Invece sono stato sfortunato. E dove troverò un whiskey? Adoro berne un bicchiere al mattino. E mia moglie? Chissà con chi è scomparsa? Se è con il muratore dell’ultimo piano, la ucciderò, dio mi perdoni! Chissà che ora è?”.

Con queste parole il nostro eroe cercò di guardare l’orologio, ma non riuscì a trovarlo. Cercò con le mani nelle tasche, la sinistra e la destra, del vuoto infinito, ma non trovò nulla da toccare.

“Ho appena speso due dollari per l’orologio ed eccolo già sparito”, pensò tra sé. “Va bene. Se il mondo è sparito, è sparito. Questo non mi riguarda. Non è il mio mondo. Ma l’orologio? Perché è sparito anche il mio orologio? Un orologio nuovo. Due dollari. Era nuovo di zecca!

E dove troverò un bicchiere di whiskey? Non c’è niente di meglio al mattino di un bel bicchiere di whiskey. E chissà se mia moglie… Ho dormito durante una catastrofe così terribile, mi merito il peggio. ‘Aiuto, aiuto, aiutooo!’. Dov’è il mio cervello? Dov’era il mio cervello prima? Perché non ho tenuto d’occhio il mondo e mia moglie? Perché li ho lasciati scomparire quando erano ancora così giovani?

E il nostro eroe iniziò a battere la testa contro il vuoto, ma poiché il vuoto era molto morbido non gli fece male e rimase in vita a raccontare la storia.

Questa è una storia della mente umana in quanto tale. Crei intorno a te un mondo di illusioni. Continui ad affezionarti a cose che non resteranno con te quando morirai. Continui a identificarti con cose che ti saranno portate via.

Per questo, gli hindu definiscono il mondo “illusione”. Per “mondo” non intendono il mondo che esiste, intendono semplicemente il mondo che hai creato nel sonno. Quel mondo è maya, illusione. È un mondo di sogno.

Chi è tua moglie? L’idea stessa è stupida! Chi è tuo marito? Chi è tuo figlio? Tu non sei tuo, come può qualcun altro essere tuo? Nemmeno tu sei tuo, nemmeno tu appartieni a te stesso. Ti sei accorto, qualche volta, che nemmeno tu appartieni a te stesso? Anche tu appartieni a una qualche esistenza sconosciuta in cui non sei mai penetrato.

Più in profondità dentro te stesso arriverai a un punto in cui anche il sé scompare: solo uno stato di non sé, o chiamalo sé supremo. È solo una differenza di linguaggio e di terminologia. Non hai visto nel profondo di te stesso sorgere cose che non ti appartengono? I tuoi desideri non ti appartengono, i tuoi pensieri non ti appartengono. Nemmeno la tua coscienza: non l’hai creata, ti è stata data, questo è un dato di fatto. Non sei tu che l’hai creata: come potresti crearla?

All’improvviso ci sei, come se accadesse per magia. Sei sempre nel mezzo, non conosci l’inizio. L’inizio non ti appartiene e nemmeno la fine ti appartiene. Nel mezzo puoi creare, puoi continuare a creare sogni. È così che un uomo diventa accidentale.

Attento! Diventa sempre più essenziale e sempre meno accidentale. Ricorda sempre: solo ciò che è eterno è vero, solo ciò che esisterà per sempre è vero. Ciò che è momentaneo non è vero. Il momentaneo deve essere osservato, ma non ti devi identificare.


Testo di Osho da: A Sudden Clash of Thunder 






Genocidi e crimini dimenticati



Lo sterminio che viene ricordato con insistenza è quello degli Ebrei, perpetrato dal nazismo,  ammesso che le vittime siano ugualmente rispettabili  indipendentemente dalla razza o dalla religione, occorre domandarsi quale sia in criterio di questa scelta...

 Ma chi ci ricorda con insistenza sempre lo stesso olocausto non ritiene le vittime ugualmente rispettabili indipendentemente dalla razza o dalla religione. Il genocidio degli Ebrei è più grave del genocidio degli Zingari o degli Armeni o dei Nativi americani o dei Negri?

Quanto poi ai campi di concentramento questi furono usati precedentemente dagli Inglesi in Sudafrica nel 1900-1902 durante la guerra contro i Boeri (contadini ed allevatori di origine olandese): nella seconda fase della guerra; i Boeri difendevano la loro terra con una guerriglia di stampo resistenziale. Gli Inglesi incendiarono allora 40.000 fattorie, ne distrussero i raccolti, abbatterono o confiscarono il bestiame e deportarono figli e mogli dei Boeri in campi di concentramento. Vi fu un vero e proprio genocidio. Il tasso di mortalità raggiunse tra i Boeri proporzioni spaventose: il 36% degli adulti e l’88% dei bambini. Di queste, pur essendo cifre superiori a quelle dei campi di concentramento nazisti, non se ne parla mai, né mai si fanno film per ricordare le colpe dei grandi crimini e criminali della storia.

Franco Libero Manco




Spunti tratti dal libro di Bruno Melas “La Bibbia, gli Ebrei e le altre storie”