Verso la fine degli anni ’80 conobbi l’archeologo Sabatino Moscati che gli accademici del tempo avevano messo al bando solo perché aveva scritto ed espresso in vari simposi scientifici che la “storia delle civiltà antiche doveva essere riscritta e portata indietro di qualche millennio” – “Ignominia, bestemmia, scandalo!” Fu la reazione dei soliti baroni e soloni accademici, gli stessi che in un altro periodo storico l’avrebbero mandato al rogo solo perché esprimeva concetti nuovi non in linea con le loro obsolete fedi.
Il prof. Moscati, che divenne successivamente direttore della famosa rivista archeologica “Archeo”, mi disse una volta che invece di spendere soldi per nuovi scavi in terre lontane per conoscere le origini della civiltà umana, sarebbe bastato riaprire in tutti i magazzini dei musei archeologici del mondo le casse contenenti reperti strani, particolari, incomprensibili per l’epoca storica di riferimento, contrassegnati quasi tutti con una lettera greca o una X. Si riferiva già allora sia alle pile di Bagdad, ai bassorilievi di Dendera in Egitto e all’enigmatico congegno di Antikythera trovato dentro i resti di un’ antica nave romana naufragata intorno al 70 a.C. al largo di Creta.
Oggi al rogo, perché negatori della verità, ci manderei tutti quei soloni degli anni 80 che ritenevano “scientificamente” dimostrato che la civiltà dell’uomo fosse nata solo nell’antica Grecia.
Non solo la definitiva dimostrazione che il congegno di Antikythera era in effetti un computer, ma che diverse migliaia di anni prima di Cristo nella Valle dell’Indo esistevano città che avevano abitazioni con i bagni interni con gli sciacquoni, con collettori e fogne sotterranee, con grandi piscine pubbliche. Ci meravigliamo ancora quando leggiamo che i Greci avevano inventato i “primi” acquedotti e che gli antichi romani avevano realizzato i bagni igienici collettivi (vespasiani). Oggi invece scopriamo che le città di Mohenjodaro e di Harappa erano molto avanti come ingegneria urbana, con una rete idrica e fognaria da far invidia alle nostre metropoli, talmente avanti da oscurare l’urbanistica delle allora città “evolute” come Atene e Roma. Sabatino Moscati se fosse ancora vivo finalmente potrebbe togliersi non solo un sassolino dalle scarpe, ma un macigno nei confronto dei suoi colleghi “inquisitori e arroganti”.
Gli abitanti di questa misteriosa civiltà sorta tra il fiume Indo ed il fiume Saraswati (oggi sotterraneo) non avevano fortificazioni, ne templi, ne palazzi reali. Ciò dimostra che era un popolo pacifico. Non sappiamo nulla di più di quello che mostrano i resti delle città. Tuttavia questi due siti sono legati ad un altro mistero, di cui alcuni decenni fa, ma ancora oggi, facevano discutere: quasi tutti i resti dissepolti, dal vasellame alle fondamenta delle case dell’epoca, mostrano evidenti segni di fusione da temperature estreme di migliaia di gradi. Intrigante è stata poi la scoperta di scheletri che mostrano evidenti tracce di carbonizzazione e calcificazione come se fossero stati esposti ad una fortissima fonte di calore. Alcuni scienziati ipotizzano che le due città siano state investite da un’onda energetica tipica dell’esplosione di un meteorite o di una cometa prima di toccare il suolo, come accadde in Siberia nel 1908.
Sta di fatto che questa civiltà dell’Indo scomparve ancora prima che nascesse quella Greca.
I vecchi soloni che contestarono a suo tempo le affermazioni di Sabatino Moscati, resterebbero oggi ancora più sconvolti se dovessero credere allo studio fatto da un ricercatore inglese, David Davenport, circa le ipotesi di distruzione di queste due città. Questo ricercatore, rifacendosi agli antichi testi sacri dell’Induismo, quali il Mahabharata e il Ramayana, che descrivono in maniera molto chiara una guerra tra “Dei” in cui attraverso macchine volanti chiamate Vimana si lanciavano palle di fuoco che incenerivano foreste e città, ipotizza un’idea fantascientifica, quella che gli antichi testi sacri indù dicessero la verità…
E allora? Lo chiederei al prof. Moscati, “non solo l’inizio delle civiltà umane va rivista completamente, ma anche la storia dell’uomo e degli Dei…..”
Andrea Rossi
La civiltà umana è più antica di quanto si afferma?
In riconoscenza verso la vita ed i miei primi maestri...
Ho anche un motivo personale nel voler ricordare quei momenti tragici. Io sono nato da uno di quei reduci… anzi diciamo uno che era rimasto invalido e che fece in tempo a tornare prima della disfatta finale. Ma questa storia merita un piccolo chiarimento. Mio padre durante la ritirata del 1943 restò indietro con le gambe congelate, i suoi lo abbandonarono. Sarebbe stato fatto prigioniero o forse ucciso se alcuni russi “benevoli” non l’avessero preso, caricato su un carro e -a loro rischio- riconsegnato entro le linee italiane. Poi fu rimandato in Italia dove essendo invalido non continuò a svolgere servizio militare. Io nacqui poco dopo la liberazione di Roma, il 23 giugno del 1944. Quindi debbo la vita ad un russo…. oltre che a mio padre ed ovviamente a mia madre. Anzi soprattutto a lei che scelse di tenermi malgrado i tempi…
Ricordo i miei primi anni di vita a Roma in cui mia madre e mia nonna paterna mi portavano con loro per campi a raccogliere erbe commestibili. Tanta era la carenza di cibo in quegli anni e ricordo anche i crateri ancora aperti dalle bombe americane e i binari della ferrovia tiburtina divelti. La guerra non l’ho vissuta ma ho fatto in tempo a vederne le brutture postume. Poi nel 1954 mia madre morì e così dovetti anche affrontare nuove vicissitudini. Ma quello, malgrado tutto, fu un periodo abbastanza utile per la mia crescita. Essendo rimasto da poco orfano e rinchiuso in un collegio (per mancanza di accoglienza in altre situazioni familiari), sicuramente quell’esperienza, cogente ed importante, fu necessaria per il mio successivo sviluppo.
Durante quel periodo, appresi come fosse necessaria l’autonomia di pensiero e l’adattamento alle situazioni, due aspetti che in seguito contribuirono fortemente alla mia formazione spirituale e sociale.
Ho un debito di riconoscenza versoi salesiani di San Giovanni Bosco e la loro opera di assistenza ai giovani. Io fui un loro beneficiato, allorché morì mia madre Giustina, e non riuscivo più ad adeguarmi a una scuola normale (malgrado fossi considerato intelligente e preparato dai miei maestri). Qualcosa in me si era bloccato, ricordo all’esame di quinta elementare feci una totale scena muta, conoscevo tutte le risposte alle domande che mi venivano poste dagli esaminatori ma non profferii parola, solo sguardi luccicanti e silenzio. Così da buon orfano disadattato fui mandato al collegio del Sacro Cuore di Roma, come interno. Vivevo cioè in una comunità chiusa al mondo ma in un’atmosfera che ricordava la famiglia.
Ricordo il mio insegnante, un vecchio laico che risiedeva monasticamente nel collegio, un uomo di grande saggezza, egli mi insegnò a strizzare bene il tubetto del dentifricio ed anche ad aprirlo per prelevarvi l’ultima pasta attaccata. Nel collegio godevo del poco, ad esempio della merenda pomeridiana, una semplice ciriola di pane senza companatico, mentre pattinavo nel cortile imparando a muovermi velocemente in mezzo agli altri.
Ed è lì che appresi alcuni “trucchi” della religione (da me poi ripresi nelle cerimonie laiche dei vari equinozi e solstizi in cui uso ancora il sistema dei pensierini offerti al fuoco). Allora accadeva con la ricorrenza della festa della Madonna dell’8 dicembre e compivamo un rito particolare “dei messaggi della Santa Madre”, ovvero pescavamo ognuno a turno dentro una grande cesta un rotolino di carta, ogni rotolino conteneva un messaggio personale, che pareva sempre azzeccato, il rotolino una volta letto veniva poi gettato in un focheraccio acceso nel cortile.
Un’altra volta appresi il valore della pazienza durante i canti solenni di una messa speciale. Un ragazzino della mia classe -evidentemente anche lui con problemi psicologici- (si puliva il naso sulle maniche della giacca ed era sempre impiastricciato di mocciolo) stava proprio al mio fianco, forse lo rimproverai di qualcosa e ricordo che lui prese a picchiarmi con furia, mi dava pugni e calci, evidentemente era disperato… dentro di me sentii che non era giusto reagire e continuai a cantare per tutto il tempo assieme al coro, senza provare cattivi pensieri ma concentrandomi sul canto. L’aver superato la rabbia momentanea ed il senso di rivalsa mi riempì di gioia, mi sembrava un dono del Cielo.
Per sviluppare la modestia e l’accettazione prendevo sempre ad esempio le prove dolorose di Don Bosco, alle prese con l’indifferenza della società, mi piaceva moltissimo leggere le storie su Domenico Savio, l’allievo spirituale del santo, mi identificavo con lui. In quegli anni iniziai a scoprire che la mia esistenza aveva un senso solo se la rivolgevo verso la verità, la giustizia e l’amore. Tra l’altro nel tempo appresi come fosse facile anche studiare o compiere il proprio dovere se lo si considerava un’offerta a Dio.
Feci del mio meglio e divenni l’alunno più meritevole della mia classe, il primo in profitto, condotta e religione. A quel tempo avrei potuto anche decidere di farmi prete ma evidentemente quella non era la mia strada. Non sono però irriconoscente verso i santi cristiani, malgrado abbia abbandonato ogni credo religioso precostituito, continuo a provare solidarietà e rispetto verso Don Bosco. Egli è il mio primo maestro e padre spirituale.
Paolo D’Arpini
Naturalismo: "La morte è vita..."
La morte secondo il concetto della ciclicità naturalistica non è altro che un rinnovarsi delle forme in altre forme. Una trasformazione che non danneggia in sé la vita. Anzi la vita non è altro che il rincorrersi del processo vita-morte. I nostri progenitori, come d'altronde tutti gli animali, riconoscevano questa ciclicità quindi non erano particolarmente attaccati alla forma, al senso dell'io. Essi erano in grado di godere l'esistenza, con tutte le sue bellezze e le sue bruttezze, come fosse una meravigliosa avventura. Al termine della quale, senza rimpianti, erano in grado di lasciarsi andare all'ultimo sonno ristoratore consapevoli che al risveglio avrebbero trovato una nuova forma. Per questo erano in grado di affrontare pericoli e difficoltà, lotte e rischi, esplorazioni e nuove scoperte, a cuor leggero. Forse con timore, forse con dubbi sul da farsi, ma senza demordere nel loro percorso. L'uomo che viaggiava con la morte al fianco era un eroe.
Purtroppo nel corso dei secoli e dei millenni la compagnia della morte è stata rinnegata, sino al punto che oggi siamo persino disposti al "commercio spirituale" per accaparrarci un futuro garantito. Non che il commercio spirituale sia una novità di questa epoca, in effetti tale commercio è iniziato il momento stesso in cui l’uomo si è inventato un “aldilà”, ovvero un ipotetico mondo dello spirito contrapposto al mondo terreno.
Ma se vogliamo cercare un'evidenza della nascita e del parallallelismo fra mondo materiale, dell’aldiqua, e della creazione di un mondo virtuale, dell’aldilà, scopriamo che appare nelle società umane con il culto degli antenati. Gli antenati vengono considerati vivi nell’aldilà ed è per questo che sono richieste continue cerimonie per il loro nutrimento “spirituale” e addirittura in Cina fu inventata la “cartamoneta” -che veniva bruciata assieme all’incenso, per trasmettere ai defunti quei titoli in forma sottile, in quanto si presupponeva che l’affluenza nell’oltretomba derivasse da tali offerte.
Ma non solo questo, nell’Europa medioevale -ad esempio- si era giunti alla vendita delle indulgenze, in cui si pagava –non con cartamoneta fittizia ma in oro sonante- alla chiesa un conquibus che poi veniva trasferito (a detta dei preti) alle anime dei defunti o dello stesso donatore che si assicurava così il paradiso. Il "commercio spirituale”, basato sulla paura della morte, non conosce confini, si manifesta in mille modi, con la vendita di rosari, libri sacri, immaginette, reliquie…. davanti ai santuari ed alle cattedrali (ed anche al loro interno), tale compravendita è accettata come un corollario della religione (e senza tasse). Ci sono pure le donazioni devozionali per le missioni, per i poveri (della stessa specie religiosa connessa) e per le opere di bene (tipo IOR ed affini).
Le religioni dell’aldilà sono proprio un bell’affare… Se c’è bisogno di manodopera a buon mercato, di combattenti pronti a tutto, ecco che si escogitano le guerre sante e l’onorevole martirio, che garantisce un aldilà bellissimo, pieno di flauti, di arcobaleni, di vergini ed angeli compiacenti.
In fondo meglio lavorare e risparmiare per l’aldilà, visto che ormai questo mondo sta andando a rotoli e tutti sono convinti che occorre fregare la morte. L’unica speranza è credere in un altro mondo, e su questo assioma le sette e le religioni prolificano e si ingrassano…. qui sulla terra, ingrassano qui nella nostra società… mica là… nei cieli dove esiste solo spazio vuoto.
Sia la religione che il materialismo considerano inutile il mantenimento della vivibilità sulla terra… in fondo qui siamo tutti di passaggio.. tanto vale guadagnare beni per il futuro in una altra terra fantasistica e trascurare questa terra terrestre, oppure godere qui sin che si può senza rispetto per le generazioni future. Questo pianeta può andare a remengo, ci si possono compiere le peggio nefandezze: distruggerlo, sfruttarlo all’inverosimile, inquinarlo e offenderlo con tutti i suoi abitanti (alberi, piante, animali) che sono alla mercé delle necessità di guadagno, accumulo e spesa…
In verità noi dovremmo assimilare nella nostra società il culto dei successori e lasciar perdere quello degli antenati…..
Per fortuna di tanto in tanto appare un essere umano che è in grado di affermare che “la pura Terra Promessa è qui su questa terra”. Diceva ad esempio Tich Nhath Hanh: “Se riuscirete a lasciare passi di pace e liberi da ansia su questa nostra terra, non avrete più bisogno di pensare di entrare nel “regno dei cieli”. Il motivo è semplice, il samsara ed il regno dei cieli sono entrambi invenzioni della mente. Se siete in pace, liberi da presupposti e pieni di gioia di vivere avrete trasformato il samsara in Pura Terra e non ci sarà più bisogno di pensare ad un aldilà….”
Paolo D’Arpini
La donna è immobile... Una storia fantastica di Simon Smeraldo
Nei lontanissimi anni ’50 era in voga una canzone che diceva: “Donna, tutto si fa per te/donna, gioia di vivere…”.
Sottoscrivo di cuore.
Ciononostante, bisogna anche considerare il lato oscuro di questa meravigliosa creatura, senza la quale la vita sarebbe molto grama. Come dice un sano proverbio, “essere preparati è metà dell’opera” e “il buon giorno inizia al mattino precedente, se non è rosso di sera”.
Tanto per cominciare, vorrei citare un poeta che forse qualcuno di voi conosce per sentito dire. Costui raggiunse una certa notorietà con il seguente enunciato:
“Al contadin non far sapere quanto sa di sale mangiare la pera sull’altrui scale”, lanciando ovviamente in questo modo un trend che ancor oggi va per la maggiore. Avete mai visto infatti qualche contadino mangiarsi una pera sulle scale, soprattutto di qualcun altro?
Ma la citazione di cui parlavo è questa: “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita: guidava mia moglie”
Ebbene sì, è ovvio che una professione a cui, ad onta della parità dei sessi, la donna potrà difficilmente dedicarsi è quella di guida indigena. Ella riesce, più spesso di quanto non si creda, a perdersi nel tragitto da casa al supermercato, per non parlare delle volte in cui avete ricevuto una sua affannosa telefonata: “Ma piazza Venezia è a Roma o a Venezia? No, perché non so se devo prendere l’A 1 o l’A 3”. Ma sorvoliamo su questi dilemmi che qualcuno potrebbe considerare estremi e veniamo ad un’esperienza che ogni uomo ha fatto almeno una volta nella vita; a dir la verità probabilmente ogni giorno della sua vita.
Il parcheggio. Lo scenario è questo: avete una certa fretta e non vi riesce di trovare un parcheggio. A un certo punto adocchiate una donna (giovane, anziana, di mezz’età, non importa) che entra nella sua macchina parcheggiata non lontano dalla vostra posizione, e quindi pensate con sollievo: “Oh, meno male! Adesso esce e mi lascia il posto!” E vi mettete in seconda fila con le luci di emergenza, attendendo che la signora/signorina/vedova esca dal parcheggio. Illuso! Vorrei citare , a questo punto, lo stesso poeta di cui si parlava più sopra. Egli doveva avere una qualche esperienza con le donne, per essere così saggio. Scrisse infatti: “lasciate ogni speranza, o voi che parcheggiate” (o meglio, vorreste parcheggiare).
E veniamo al nostro scenario melodrammatico. La prassi per qualsiasi donna che entra nella sua auto è di guardarsi immediatamente allo specchietto retrovisore, scrutando con attenzione ogni particolare del suo volto e l’acconciatura. Ma l’esame allo specchietto delle sue brame la getta nello sconforto più totale: ha scoperto che un brufoletto le sta spuntando sulla fronte! Orrore! Le ci vogliono almeno cinque minuti per riprendersi dallo shock, e mettersi a guidare in queste condizioni di forte stress neanche a parlarne. Una volta accettato con filosofia il responso dello specchio (“la devo smettere di mangiare tutta quella cioccolata!”) giunge il momento di esplorare la borsa, alla ricerca delle chiavi della macchina.
“E che ci vorrà mai?” Direte voi.
Ha! State scherzando o dite sul serio?
L’estrazione inizia: Le chiavi di casa, lo stick del rossetto, il portacipria, la matita per gli occhi, la boccetta dei sali per la zia Agata che soffre di svenimenti, la pistola giocattolo del bimbo, il bigliettino da visita del geometra, del ginecologo, dello psicanalista, del fruttivendolo, dell’idraulico, la bussola (glie l’ha messa il marito) la radiolina portatile anni ’70 (un caro ricordo di gioventù, del mare), il cellulare, il repellente spray in caso di aggressione, il deodorante, il profumo, il borsellino, il portafoglio grande circa tre volte quello di un uomo anche se molto spesso con tre volte meno soldi, due o tre pezzi di lego, la mangusta (???? No, non chiedetemi perché, vi prego), la chiave inglese, la penna multicolore, il bloc notes, gli occhiali da sole, la lista della spesa, gli ultimi venti scontrini del parrucchiere, lo specchietto, un pezzo di formaggio ammuffito, la copia tascabile di “Cinquanta sfumature di verde- il giardino come lo sogni”, il bacio Perugina che le regalò il fidanzato prima di diventare il marito, il tagliaunghie, la limetta, la pinzetta, la tenaglietta, il cacciavitino, la zampa di lepre (portafortuna) il piede di porco (“Come?” direte voi “Ma come può avere un piede di porco in borsa?” E se la donna in questione fosse una scassinatrice? Tutto può darsi) il coltellino multiuso, due monete da cento delle vecchie lire, e – “Ma che ci fa questa nella mia borsa?” (è la torcia da minatore che usava al campeggio) una candela mezza consumata dalla serata romantica con cui il sempre futuro marito le si dichiarò, la scatoletta delle aspirine, un medaglione-ricordo con la foto dei nonni il giorno del loro matrimonio, una lattina di tonno per le fami improvvise, il bracciale della cresima del primogenito, e infine la statuina di zucchero di lei e il marito proveniente dalla torta di nozze.
E la chiave della macchina? “Ah, che sbadata!” L’ aveva già inserita.
Viene il momento della riflessione sul funzionamento dell’auto: “Ma la pressione delle gomme sarà calata nelle sette ore e mezzo che sono stata dall’estetista? Ma perché quello sciagurato di Alfonso (è il nome del marito) non me le controlla mai? E adesso cosa faccio? Mi tocca andare dal gommista! Ma guarda un po’ tu cosa mi doveva capitare, proprio oggi che vado di fretta! E l’olio? E l’acqua?” (Poi si rassicura ricordandosi che le auto non vanno ad acqua ma a benzina). Infine parte, controllando a destra e sinistra che non vengano auto (ma come fanno a venire da destra se è parcheggiata lungo il marciapiede sulla destra della strada?) “Ma non si sa mai, non si è mai troppo prudenti!” E’ la sua conclusione assennata. E poi in un nanosecondo schizza fuori dal parcheggio alla Schumacher, per agevolare la collisione col motorino che stava sopraggiungendo e che aveva calcolato male i tempi….delle donne. Dimenticavo: a questo punto voi non siete più già lì da un pezzo….. e anche oggi avete dovuto parcheggiare in divieto di sosta.
Auguri a tutti gli aspiranti parcheggiatori.
Simon Smeraldo
Facciamo "Vela verso Itaca" con Simon Smeraldo...
Dialogo con l'autore Simon Smeraldo:
INTERVISTATORE: “Smeraldo, il titolo di questa sua opera è molto suggestivo ma anche piuttosto enigmatico. Cosa intende per VELA VERSO ITACA?”
AUTORE: “Itaca, nell’immaginario omerico, più che un luogo vero e proprio è un archetipo: il simbolo dello stato interiore in cui si risolvono i propri conflitti. Un porto di approdo, insomma, a uno stato d’animo acquietato, dopo il travaglio di un viaggio periglioso e sfiancante attraverso gli imprevisti e le trappole della vita, come quello di Ulisse, che a sua volta è l’archetipo dell’uomo in cammino verso sé, al nucleo autentico del suo essere, alla scoperta del suo senso di esistere. Nell’immagine simbolica di Itaca si potrebbe appunto riconoscere l’approdo al sé; come dicevo, quello vero, sostanziale, la propria autentica essenza. Per questo ho incluso nel testo, come sigillo finale, la famosa lirica di Konstatin Kavafis, intitolata appunto “Itaca”, in cui egli delinea magistralmente, in toni splendidi e pittoreschi, l’arduo e al tempo stesso entusiasmante viaggio della vita, e l’arrivo a ciò che si può definire un punto fermo dell’animo. Questa poesia sintetizza in pochi versi ispirati tutto il senso del mio romanzo e della vita stessa”
D: “Tutto ciò che riscontro trova nel suo romanzo?”
R: “Il personaggio centrale della storia affronta una sua odissea personale, costellata di avventure e disavventure, incontri belli e sgradevoli, pericoli e momenti di pace, avventure amorose e perdite sentimentali. In più, come nel poema omerico, c’è l’intervento di forze non umane, a favore del protagonista ma anche a lui ostili. E’ tutto uno snodarsi di vicende colorite e a volte picaresche, anche se il tono sottostante è quello, fantastico e incantato, della fiaba. Un percorso alla ricerca di sé, simboleggiato nelle fiabe dalla conquista della principessa di turno, come nei romanzi cavallereschi dalla “cerca” del Graal. In termini moderni comunque lo si potrebbe definire un romanzo “on the road”, con tutti i suoi annessi e connessi. La simbologia occulta qui gioca un ruolo preminente nel percorso dell’eroe protagonista. Il mito, la leggenda, la fiaba e perfino la storia si intrecciano inestricabilmente sullo sfondo di una vicenda apparentemente bizzarra che invece ha un suo senso profondo, magari non del tutto evidente perché da decodificare”
D: “I suoi personaggi sono molto pittoreschi, e ognuno spicca per il suo carattere che si staglia in modo netto nello scorrere delle vicende narrate”
R: “Una frase trita è che la realtà supera la fantasia. Non voglio allinearmi a frasi fatte di una certa banalità, ma devo dire che ognuno dei personaggi del libro può percepirsi molto reale, in un mondo, quello tratteggiato nel romanzo, in cui l’individualità non è ancora stata sottomessa dalla generale anonimità che vediamo attorno a noi nel mondo cosiddetto “reale”.
D: “In questo suo romanzo lei mette sul tavolo il tema dell’alchimia. Ce ne può illustrare brevemente gli scopi e le caratteristiche?
R: “L’alchimia è una disciplina molto stimolante, che sfugge però a una classificazione ben definita; perciò non si può inquadrare secondo parametri esatti come quelli scientifici. Più che un metodo o una serie di tecniche è un sistema di vita, un’impostazione di vita”
D: “Può essere più specifico?”
R: “Come gli alchimisti stessi sostengono, la si può definire una forma d’arte: l’arte di mettersi in gioco costantemente, perseguendo una meta che si sa che c’è ma non si sa bene qual è e seguendo una mappa immaginaria, non tracciata chiaramente: queste indicazioni, per aleatorie e paradossali che possano sembrare, hanno lo scopo di sviluppare nel cercatore il fiuto, per così dire, per seguire la traccia giusta. D’altronde il paradosso è la cifra peculiare dell’alchimia”
D: “Ma questo approccio è del tutto empirico…come si può esser certi di ottenere dei risultati in questo modo così poco scientifico?”
R: “E’ ben questo il punto: una sfida che si intraprende, quale che sia, non permette di intravederne in partenza il risultato. Potrei citare, applicandola all’alchimia, la massima che si dice sia iscritta all’ingresso dei monasteri tibetani: “mille monaci, mille religioni”. In altre parole, la soggettività e l’interpretazione personale sono la chiave per sviluppare un sistema di alchimia – cioè, in termini pratici, di trasformazione interiore - a propria misura, con lo scopo di ottenere, idealmente, uno spostamento interiore permanente. Come vede, si tratta di una via individuale, soggetta al livello di impegno e alla lungimiranza del praticante”
D: “Ma ci saranno pure dei punti fermi, dei principi di base da cui partire, immagino?”
R: “Certo: bisogna trasformare il piombo in oro”
D: “Lei mi sembra volutamente enigmatico. Non crederà certo che tale leggendaria trasmutazione sia davvero possibile, no?”
R: “Invece sì, se il piombo è, come lo è nell’ambito alchimico, simbolico di uno stato interiore confuso, aggrovigliato, inerte, addormentato, come quello dell’umanità in generale. In questo caso l’oro, in accordo alla stessa metafora, è la conquista di un risveglio a una consapevolezza superiore, che apre orizzonti talmente vasti da permettere il passaggio ad un altro livello di realtà, un altro piano di esistenza. Un salto quantico, si direbbe nei termini della fisica moderna”
D: “Tutto ciò è molto misterioso e di difficile comprensione”
R: “Difatti. La comprensione, in questo processo delicato e difficile che ben poco ha di razionale, va lasciata da parte, perché l’intuizione non ne ha bisogno, ed è guida sufficiente per la psiche”
D: “In conclusione ci può lasciare, in sintesi, una descrizione atta a darci un’idea del metodo alchemico in poche parole?”
R: “Spiritualizzare il corpo e corporizzare lo spirito”
Per ulteriori informazioni: Vela verso Itaca di Simon Smeraldo | Cartaceo (youcanprint.it)
Il valore del dubbio...
"Credere è monotono. Dubitare, invece, è profondamente appassionante" (Oscar Wilde)
Il grande inganno della religione…
“…c’è gente che ancora gli crede…” (Saul Arpino)
Il Vaticano vuole avere il controllo assoluto dottrinale e politico su tutti i cattolici che operano sul pianeta terra. Soprattutto i vertici ecclesiastici, vescovi e cardinali, debbono essere tutti nominati dal Vaticano.
Cosa contraria persino all’antica tradizione cristiana. Infatti sino al V secolo le nomine dei vescovi (i cardinali non esistevano) venivano effettuate dal popolo, dai fedeli stessi. Il vescovo di Roma, che poi si tramutò in papa, era eletto dall’ecclesia dei credenti, con una votazione libera.
Di secoli ne son trascorsi ed ormai il papa è solo un monarca assoluto, ed il vaticano è uno stato totalitario e un potentato economico.
Il papa, uno specialista in storie costruite per ingannare le masse, può continuare a sperare che qualcuno creda alla sua “religiosità”, ma quelli che gli “credono” son solo i suoi sottoposti e gli scherani politici di convenienza.
Ma forse “alcuni” non sono al corrente di tante nefandezze ecclesiastiche… a quando bruciavano la gente o mandavano i fedeli a scannarsi alle crociate affermando che “dio lo vuole”….
Magari “qualcuno” dirà che la mia è una battaglia contro i mulini a vento, ma trovo che agire ed intervenire sui mali correnti delle religioni sia utile e necessario per l’elevazione della coscienza.
Sospetto però che non sarà facile scardinare il potere vaticano, che non è spirituale ma economico e politico. Inoltre se vogliamo parlare di “religione” facciamo prima un’analisi sul termine che significa “unire” (e non dividere)…. poi seguiamo un tracciato solido per stabilire ciò che “non” è coscienza religiosa, neghiamo ogni costrutto, assioma, assunzione, pretesa di descrivere ed incarnare la coscienza (o lo spirito, che è comune a tutti e non ha bisogno d’intermediari).
Ed è proprio in questi termini, di spiritualità laica, che si configura la mia opposizione verso fedi cieche ed ideologiche, soprattutto quelle ipocrite e funzionali al potere dei “sepolcri imbiancati”.
Purtroppo di fronte all’acquiescenza di tanti “fedeli” serve solo la discriminazione ed il distacco, una partita a scacchi del pensiero.
Paolo D’Arpini
Il disastro meccanicista che imperversa...
“La scienza la fanno gli uomini: considerazione banale, ma troppo spesso dimenticata”. (Werner Heisenberg, Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti 1929-1965, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, p. 17.)
Finché l’incantesimo materialista contiene i pensieri e la creatività, nulla di quanto osservabile diviene reale se non è misurato, quantificato, scomposto, separato.
Tutta la scienza – fino a poco fa – come la quasi totalità degli uomini della strada, ovvero esperti e profani, è rimasta impigliata tra le fitte maglie della sindone newtoniana-cartesiana.
Sotto il ferreo regime del sortilegio tutto il reale è stato compresso entro le quattro regolette del meccanicismo. Non solo pianeti e pietre, ma anche l’uomo.
La legge è uguale per tutti, è lì davanti allo scranno del giudice, o sopra il crocifisso, in mostra a tutti, a decretarlo. Ma lo è dappertutto, a scuola con il pornografico mito della meritocrazia, con la bacchettosa modalità frontale, con il potere del giudizio e del voto che decreta, come la legge, chi si è comportato secondo il modello di riferimento cui attenersi. Lo è nello sport, dove qualcuno può dire a chiunque tu sei negato. Tutti attori della medesima recita meccanicista. Tutti intenti alla competizione dove conta solo vincere. Nessuno in grado di cogliere il potere presente in tutti noi e majeuticamente coltivarlo, secondo l’ordine che tutti abbiamo, secondo il percorso della nostra realizzazione oltre i binari dell’irreggimentazione, dell’uniformizzazione, dell’assoggettamento, della sottomissione, della classificazione. Ma alla cultura non interessa, tantomeno alla politica, vagolante entità alla quale è opportuno non riferirsi, per evitare almeno l’imbambolamento della falsa democrazia. Il futuro dell’assegno di cittadinanza, antipasto del reddito universale, è luminoso. Neppure le veline dei tg, parlano più degli investimenti per la riduzione della disoccupazione. Lo stato progressista-ordoliberista – che include le false destre a pieno titolo – è fallito. Il sistema Occidente è in agonia. L’accanimento terapeutico per tenerlo in vita ha molti effetti detti collaterali, ma estremamente funzionali alla residua speranza di mantenimento dell’egemonia sul mondo. Chi non li vede sta marciando al passo dell’oca. Alla fine, se dovesse andargli male, non gli resterà che nascondersi dietro al solito stavo solo ubbidendo agli ordini.
Ma il disastro meccanicista non ha bisogno di grandi teatri per essere mostrato. Esso circola liberamente in ogni relazione ordinaria tra persone. Quando la cultura dell’ascolto si radicherà in noi – suerte – tutti i conflitti avranno di che spegnersi, nella misura in cui, oggi, basta niente per accenderli. Un niente colmo di convinzione che l’altro abbia davanti a sé lo stesso mondo che vedo io. Assolutamente ignaro dell’eventualità che l’altro sia in un punto del suo universo che noi non possiamo immaginare.
Il principio di causa-effetto, i principi della logica, il tempo lineare e non reversibile, tutti i referenti di base della fisica classica, hanno dominato su di noi fino a ignorare la dimensione umana, fino a nascondere a noi stessi l’autoreferenzialità della scienza, fino a farci inginocchiare ad essa. Poter dire o scrivere scientificamente provato è ancora – purtroppo – una mannaia che taglia la testa a tutti i tori. E tutti cercano di metterselo in bocca o un qualunque motivo per stamparlo.
La cultura scientista, come il pesce, al quale se chiedi “Com’è l’acqua oggi?”, ti guarda allibito rispondendo “Acqua? Quale acqua?”, non ha consapevolezza di sé. Anche, si gonfia il petto per avere sconfitto nel duello della conoscenza i suoi nemici. Almeno, così crede lei che non ha neppure la dignità di ammettere di aver barato. In che altro modo si può definire chi detta le regole del gioco, senza renderle note?
“Eravamo attratti dalla ricerca d’una spiegazione definitiva, della chiave che avrebbe svelato la nascita dell’universo e della vita. Da questo punto di vista la fisica teorica ci sembrava molto più adatta che non la vecchia filosofia che si studiava nei licei. Platone, e Aristotele, Cartesio e Kant e Hegel, ci sembravano insufficienti di fronte alle domande fondamentali […] Einstein, Planck, Bohr, Eddington, Born, Ruthenford erano i veri maestri della conoscenza che con il lume della ragione e della scienza sperimentale avrebbero definitivamente scacciato le tenebre dell’ignoranza e della superstizione religiosa, svelando i misteri e lacerando il velo di maya che nasconde la realtà agli occhi degli uomini. […] Il principio di indeterminazione scoperto da Heisenberg […] ci calò sulla testa come una mazzata”. Werner Heisenberg, Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti 1929-1965, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, p. 7-8, (dall’introduzione di Eugenio Scalfari).
Sì, regole del gioco. Null’altro che questo. E niente di più di quelle del Monopoli, del poker e dei quattrocento rana (se li ripristineranno).
Se l’organizzazione richiede una norma e se la norma ha ragione d’essere per amministrare la storia, ciò non significa, né dovrebbe comportare, che l’intera dimensione umana ne sia sottomessa, ovvero che dell’infinito che è in noi si tenga buona soltanto qualche squama.
Sebbene la conoscenza suprema, mica quella superficiale cognitiva, sia disponibile agli uomini da diversi millenni, ci sono evidentemente state ragioni e motivi che ne hanno impedito l’avvento. Forse quella più accreditabile è relativa ad una sorta di equilibrio della natura che implica la dimensione esoterica della conoscenza, in quanto, se essoterizzata non ne resterebbe che una vulgata superficiale e quindi il rischio di disperdere, ancora una volta nella democrazia, il bene dell’uomo.
Fanno da sfondo a quella conoscenza profonda una serie di dinamiche che – semplicemente – non sono compatibili con l’attuale concezione quantitativistica del mondo e degli uomini.
Alcune di queste possono essere descritte come segue.
Campi
Tutti noi, sempre cerchiamo di permanere in campi di coerenza, ovvero in situazioni a noi idonee, dove non ci sentiamo spaesati, perduti, impauriti. Vale per il pusillanime quanto per il coraggioso. Estremi tra i quali il genere umano tutto gongola, soffre e sciama, trovando i suoi convenuti, a volte nel campo dei codardi, altre in quello degli intrepidi.
In sostanza, dire campo è come dire coerenza, insieme, compatibilità, autoreferenzialità. È anche dire destino e recinto. È dire storia, identità, separazione, giudizio.
I campi sono detti chiusi quando tutti i giocatori sanno tutto il necessario per giocare la partita che si sta svolgendo all’interno, come nel Monopoli. Non sono ammesse scelte differenti da quelle dettate e concesse dal regolamento, come per fare una raccomandata, gonfiare una ruota, combattere sul ring. Chi non conosce le regole, ma vuole entrare in campo, desidera impararle per assoggettarsene e quindi dialogare – senza rischio di equivoco – con gli altri avventori.
I campi chiusi, amministrativi, di gioco o condivisi sono rappresentabili e sottostanno alle dinamiche del principio di causa-effetto, della logica aristotelica e al tempo lineare, tutti pilastri della meccanica classica.
Relazioni
In Il codice cosmico – La fisica moderna decifra la natura, di Heinz R. Pagels, Torino, Bollati Boringhieri, 2016, a pagina 68 si legge: “Per qualche ragione il linguaggio corretto per descrivere l’atomo era quello delle matrici anziché quello dei semplici numeri” e, nelle prime righe di pagine 69, “il cui prodotto non è necessariamente commutativo”.
Sono parole che offrono una sintesi delle dinamiche nelle relazioni aperte, le più comuni. Se i numeri erano utili per definire il comportamento di una parte in contesto chiuso, meccanico, uno spettro assai più vasto, come quello offerto da una matrice, diviene più consono a predire il fare in contesti privi di dominio comune e condiviso. Non solo, invertendo i ruoli delle parti o spostando la relazione in altro tempo, se ne riscontra anche la similitudine con il concetto di non commutabilità.
Quando due campi – che significa anche noi stessi, in relazioni con il prossimo, in quanto di momento in momento vediamo la realtà secondo noi – entrano in contatto, in relazione, entrambi credono che l’altro riconosca le regole del gioco, ovvero il proprio punto di vista, la propria interpretazione, il proprio linguaggio, verbale e non, e le sue accezioni, la propria ironia e l’illuminazione che le proprie metafore gli recherebbero, che abbia l’identico sentimento e le stesse esigenze. Entrambi credono che l’altro riconosca le nostre esigenze emozionali e sentimentali, sebbene entrambi, spesso, neppure percepiscono come sorgente del mondo che vedono nelle loro reciproche visioni.
Nel contatto tra campi aperti il gioco non è oggettivo, il mondo non è lo stesso per entrambi e quello dell’altro non è riconosciuto, a volte anche con la disponibilità dell’ascolto. La possibilità di dialogo ha uno spettro limitato ed è, tendenzialmente, sempre incerta. Il campo individuale fa sempre testo anche quando viene apparentemente tralasciato per esprimersi poi in frustrazione, a sua volta una determinatrice di campo.
Entrambi si aspettano infatti di trovare opportuna corrispondenza alle proprie affermazioni. Fintanto che questo accade, magari condividendo per qualche tempo il medesimo contesto, sussiste il dialogo, l’intesa, l’esonero dell’equivoco.
Quando la corrispondenza cessa si aprono le cateratte del fraintendimento, dell’incomprensione, della delusione, del risentimento, del conflitto, della sopraffazione, della squalifica.
Basta poco per passare da uno stato amichevole e disponibile, dalle buone relazioni, ad uno governato da qualche sentimento negativo, di chiusura in se stessi. Una diversa morale, una differente interpretazione di un evento, una certa accezione non intesa. Dunque passare dallo scambio, neutro o accorato, al conflitto è frequente. È una specie di dimostrazione dell’inconsapevolezza che siamo universi diversi, con regole personali. Consapevolezza quindi utile per ridurre il gradiente di rischio di conflitto e contemporaneamente alzare quello di vivere esperienze relazionali soddisfacenti, fenomenologicamente vissute, e insufflate di rispetto autentico, non buonistico-politico.
Universi che solo l’arroganza assolutista dello scientismo applicato all’umano si arroga il diritto maldestro di uniformare e poi di classificare e giudicare sempre, anche fuori dai contesti dei campi chiusi e condivisi, nei quali invece risulta fisiologico alla concezione bidimensionale della realtà.
“Ma Niels Bohr risponde: ‘Il contrario di un’affermazione corretta è un’affermazione falsa, ma il contrario di una verità può darsi che sia un’altra verità.’”. Werner Heisenberg, Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti 1929-1965, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, p. 13, (dall’introduzione di Eugenio Scalfari).
Se le relazioni amministrative sono rappresentabili dalla meccanica classica, quelle aperte si possono vestire con la foggia di quella quantistica. In queste non è possibile prevedere la posizione che gli interlocutori assumeranno nel corso della relazione. Un’imprevedibilità che assomiglia tanto a quella della particella della quale non è possibile prevedere, se non statisticamente, la posizione e la quantità di moto contemporaneamente, come accade invece nella meccanica classica. Non solo, ma la sovrapposizione tra fisica quantistica e relazioni aperte si estende ulteriormente riconoscendo che il comportamento dei due interlocutori risente dell’altro. Esattamente come avviene in occasione dell’osservazione di esperienti con le particelle, il cui comportamento oltre che imprevedibile, risente della presenza dell’osservatore.
“Tra i fenomeni osservabili e l’apparato mentale che li osserva esistono reciproche interferenze […]. Il concetto stesso di realtà subisce da queste osservazioni un attacco dal quale non si è mai più ripreso”. Werner Heisenberg, Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti 1929-1965, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, p. 12, (dall’introduzione di Eugenio Scalfari).
Inoltre, le reazioni delle parti della relazione aperta possono variare anche nel gradiente, nell’intensità o nella sostanza, proprio come una particella che può essere onda o materia.
Infine, come nell’uomo un’idea aggrega l’energia necessaria alla sua realizzazione, si può considerare che la materia non è altro che energia condensata.
L’infinito
L’insieme di tutti i campi corrisponde all’infinito. Un volume che tutto contiene, dal quale gli uomini pescano secondo la loro biografia il necessario per alimentarla e mantenerla, al fine di potersi riconoscere in essa e avere una direzione di vita, fosse anche nichilistica, patologica, disperata.
L’Iperuranio di Platone è un infinito, un volume abitato da tutti gli opposti riuniti insieme, cioè da quelle parti che gli uomini estraggono a metà per loro gusto e necessità. Se da un lato l’infinito è rappresentabile dall’Uno, dall’altro si può riconoscere quanto la consapevolezza di questo stato delle cose possa implicare sia l’elevazione all’evoluzione umana che tende alla invulnerabilità e, non disponendo in sé dell’idea della storia come territorio evolutivo, la forte eventualità di subirne il peso fino al nichilismo e alle patologie. Ovvero la difesa di qualunque faccenda umana, o meglio, l’identificazione di noi stessi con qualunque faccenda umana, tende ad impedire l’evoluzione e a procurare sofferenza.
Fisicamente parlando, l’infinito è limitato in un concetto nella fisica classica, ed è invece il solo ambito concreto che permette alla fisica quantistica di recuperare la dimensione alogica, di vedere il tempo nella sua circolarità e la durata nella sua variabilità, di liberarsi dai vincoli materiali come l’entanglement permette di pensare. Tutti aspetti che riscontriamo nell’umano a mezzo delle emozioni e dei sentimenti, ma forse, quantisticamente parlando, certe categorie e differenziazione non hanno più ragione d’essere intese in senso stretto o algebrico. Forse è opportuno intenderle come matrici sensibili alle relazioni.
Comunque, con le prime – le emozioni – ritorniamo nel passato, con i secondi – i sentimenti – manteniamo legami più forti di una gomena, indipendentemente dalla distanza del nostro affetto o nemico. Con entrambi replichiamo l’eterno ritorno. Sono infinite emozioni e infiniti sentimenti, potremmo muoverci su una linea retta che in ogni momento si allontana via via di più dal punto di origine.
Recuperare la dimensione della realtà è recuperare la dimensione magica, che non è un coniglio dal cilindro, ma semplicemente, se non banalmente, il saper vedere e maneggiare i flussi di energia che andranno a concretizzarsi in scelte e oggetti, che permettono o impediscono una relazione.
Il finito
Ogni affermazione comporta l’estrazione del volume degli elementi utili a realizzarla. Questa crea un campo, detto anche bidimensione in quanto l’affermazione è possibile soltanto in un’istantanea del volume vorticante. Come in un’immagine fotografica potremo allora sostenere che il nonno è a sinistra del nipotino e che sullo sfondo c’è un grande tiglio. Cioè potremo descrivere la realtà e credere nella nostra descrizione. Dell’arbitrarietà e parzialità di fondo non ce ne avvediamo. Così fa anche il prossimo e, come detto, se le estrazioni dal volume, se l’esigenza biografica, se il linguaggio e se l’intento non è il medesimo per entrambi, la relazione si interrompe o diviene conflittuale.
Come detto, l’ordine è realizzato nel campo quando ci si trova in riflessione e nelle interlocuzioni se queste hanno carattere amministrativo. Anche un’esperienza-emozione vissuta insieme, rientra nel campo tutti che sano tutto. È quanto accade in contesto meccanicistico. Non solo, è anche quanto la concezione meccanicistica sia dilagata anche in campo umanistico. Di essa è pregna la cultura, nonostante le sue falle. Ovvero la messa in evidenza che la dimensione logico-razionale del pensiero e del linguaggio speculativo-analitico, in quanto gabbia di contenimento, non potrà mai, sua ontologia, indagare ciò che essa definisce mistero. Non farà sentire la liberazione del nostro potenziale profondo e si limiterà a godere di se stessa seduta al tavolo a giocare a Monopoli.
Siamo atomi dal potere enorme – che la fissione e la fusione nucleare ben rappresentano in quanto a quantità – ma con il denotatore inceppato. Una messe di pulviscolo di convinzioni e consuetudini di superficie, cioè autoreferenziali, tappi dell’effervescenza creativa, che impediscono la conoscenza di noi e del prossimo, relegati in categorie inventate, che annullano il paradiso terrestre che immaginiamo e che, nel tentativo di raggiungerlo, distruggiamo.
“Ne risulta in modo particolarmente efficace il percorso che la fisica teorica compì nel primo quarantennio del XX secolo: la scoperta di un universo profondamente diverso da quello che la scienza precedente aveva trasmesso”. Werner Heisenberg, Fisica e oltre. Incontri con i protagonisti 1929-1965, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, p. 11, (dall’introduzione di Eugenio Scalfari).
Stabilità dei campi
Come un’idea, che è necessaria per generare un tavolo che non sia una replica di idee altrui, rappresenta la stabilità di un campo, così si può convenire che ogni campo stabile implica la materializzazione di quanto vi è contenuto. Un cinico, un intrepido, un pauroso, uno studioso e un atleta, hanno davanti a sé una visione costante e ferma, un campo impermeabile che permette loro la concentrazione, la continuità, la fiducia e la capacità di soffrire che, se dovessero venire a mancare, le loro aspirazioni si vanificherebbero.
Vivere entro un campo instabile, positivisticamente parlando, corrisponde infatti ad una conduzione di se stessi vagolante, incerta, debole. Ma corrisponde anche alla permeabilità serendipidica latente e alla disponibilità creativa, in quanto permette una relazione con il flusso energetico libero, dagli esiti imprevedibili, non più strumentalmente irreggimentato, razionalmente ordinato e strumentalmente predefinito.
“L’ordine che voi vedete nella creazione è quello che ci avete messo voi, come un filo in un labirinto, per non smarrirvi. Infatti l’esistenza ha il suo proprio ordine, tale che nessuna mente umana possa abbracciarlo, perché la mente stessa non è che un fatto in mezzo ad altri fatti”. Cormac McCarthy, Meridiano di sangue, Torino, Einaudi, 2014, p. 219-220.
Microcosmo
L’energia che transita nel corpo e lo costituisce, in quanto esigenza della natura o del cosmo, attraverso il microcosmo che siamo, reifica il mondo a nostra immagine e somiglianza, cioè in coerenza con la nostra biografia aggregandosi in campi richiamati dal senso di coerenza o mente condivisa.
Nient’altro che un procedere magico sotto gli occhi di tutti i disponibili a vederlo. Se le particelle risentono della presenza dell’osservatore e se il campo d’azione ha a che vedere con l’infinito, la fisica quantistica ha a che vedere con la magia. Se essa mina le basi della meccanica classica, così la consapevolezza dei campi e delle dinamiche relazionali ci svincola dal tentativo meccanicista di intendere l’uomo e i suoi comportamenti, come educabili secondo l’ordine storico vigente e – questo è il punto – credendo di fare opera universale, dimenticando infatti che la coerenza non è quella delle categorie della logica o della scienza, è quella dell’osservatore, dei suoi bisogni e scopi. Sono gli stessi vincoli della particella osservata?
L’architettura della fisica quantistica ci permette di riconoscere nella sua interpretazione della realtà le caratteristiche che si possono riscontrare nelle relazioni aperte, quelle senza recinzione né assoggettamento, che in sede delle regole condivise, hanno a che fare con l’infinito autoreferenziale che è in noi.
Lorenzo Merlo
Nel 2022 al Salone del Libro di Torino c'ero anch'io... (in remoto)
Intervista di Alvin Crescini con Paolo D'Arpini al Salone del Libro di Torino, 22 maggio 2022 - Presentazione del libro "Chi sei tu?"
Domanda - Il tema emblematico, il filo conduttore, che qualifica questo salone del libro di Torino del maggio 2022 è "Cuori selvaggi" ha qualche attinenza con il tuo libro "Chi sei tu?", basato sull'I Ching e sul sistema archetipale cinese con integrazioni del sistema elementale indiano?
Risposta - Nella filosofia taoista, che è una componente essenziale della cultura cinese, si dà una grande importanza alla naturalezza ed alla selvaticità. L'armonia tra l'uomo e la natura è la condizione che consente al cuore dell'uomo di battere in sintonia con tutto ciò che vive. Il taoismo, di cui la cultura cinese è imbevuta, non è una religione ma una sorta di naturalismo che affonda le sue radici nell’intuizione analogica, nelle espressioni sacre della coscienza di appartenere ad un Tutto.Domanda - Come è nata questa tua ricerca di interezza, e che attinenza ha con l'integrazione tra autoconoscenza e conoscenza del mondo?
Risposta - La mia curiosità innata di conoscere me stesso, sia dal punto di vista dell'identità personale che da quello dell'identità ambientale e sociale, mi ha sempre accompagnato e spinto all'analisi. Avendo vissuto varie esperienze -e quindi definibili dirette- in chiave di riconoscimento degli aspetti psichici e comportamentali che contraddistinguono l'uomo e il mondo dei viventi, insomma avendo cercato per quasi l'intero capitolo della mia esistenza di giungere alla conoscenza, ho percorso diverse vie e finalmente ho trovato un modo idoneo, un punto d'incontro, che unisce varie scuole e che trova conferma sia in campo analogico che logico.
Domanda - Nel tuo libro si fa riferimento ad alcuni ricercatori maceratesi che ti hanno preceduto nella indagine da te perseguita, in particolare a Matteo Ricci e Giuseppe Tucci. Perché ritieni che vi siano delle attinenze con questi personaggi?
Risposta - Credo che un filone di ricerca abbia le sue origini attraverso le spinte sincroniche che l'hanno messo in atto. Non sono nativo di Macerata ma una parte della mia esperienza è radicata nel maceratese. Mio padre morì ed stato sepolto a Macerata, da dodici anni mi sono trasferito a Treia, una cittadina del maceratese, la casa editrice Ephemeria è di Macerata ed è gestita da un maceratese, Antonello Andreani, ed è per la sua insistenza che ho infine messo nero su bianco la mia esperienza con la stesura di questo libro, che per tanti anni era rimasto "nel cassetto".
Debbo dire perciò che ho trovato molto significativa la ricerca di chi mi ha preceduto, ovvero i due insigni maceratesi, Matteo Ricci e Giuseppe Tucci, attraverso i quali ho ricevuto una sorta di incentivo a scrivere questo libro, pieno di premonizioni psichiche e di riflessioni filosofiche, utili alla “conoscenza di sé”.
Nel riconoscere l’importanza di chi mi ha preceduto nella conoscenza culturale dell’estremo oriente vorrei descrivere alcuni aspetti dell'investigazione di questi due precursori maceratesi…
Il primo fu il gesuita Matteo Ricci (1552/1610), che soggiornò lungamente presso la corte imperiale cinese scrivendo diversi libri in Mandarino (la lingua dotta); la sua più importante composizione fu il Grande Mappamondo, la cui sesta edizione fu fatta ristampare su ordine dell’imperatore stesso. Egli cercò di integrare la cultura cinese con quella occidentale in una sintesi più apprezzata in Cina, ove morì a Pechino, che presso la chiesa cattolica che lo aveva inviato in Cina come "missionario“.
L’altro grande indagatore fu il professor Giuseppe Tucci (1894/1984), fondatore e curatore dell’ISMEO, l’istituto italiano per lo studio della cultura orientale che ha sede nel museo di Via Merulana a Roma. Io ebbi la fortuna di visitare quel museo e fui toccato dal rispetto con il quale le reliquie di religioni esterne alla nostra cultura avessero trovato ospitalità e idonea spiegazione. In particolare apprezzai l'interesse dimostrato da Tucci nei confronti della cultura nepalese e tibetana estremamente affini all’antica matrice cinese rivolta al benessere dello stato e del popolo. In particolare Giuseppe Tucci è stato in grado di offrire un quadro suggestivo dei due indirizzi culturali originari della Cina, il Confucianesimo ed il Taoismo, la via della correttezza e la via della spontaneità, successivamente integrati dal buddismo. e perfettamente evidenti anche nel Libro dei Mutamenti
Domanda - Date queste premesse chi ritieni possa essere interessato a leggere il libro "Chi sei tu?"
Risposta - Chiunque sia interessato a conoscere se stesso può trarre giovamento dalla lettura di questo testo, che non è pedante o di difficile comprensione, bensì basato su esempi concreti e buoni consigli. Una sorta di mappa utile al viaggio verso l'autoconoscenza. Sempre considerando però che la mappa non è il territorio e che quindi la vera conoscenza subentra allorché si intraprende il viaggio. Nel concludere questa presentazione del mio libro debbo confermare che la fonte primaria degli aspetti trattati è l' I Ching, forse il testo di saggezza più antico dell’umanità. In esso sono integrati diversi commenti di Confucio e di Lao Tze, nonché considerazioni più tardive di matrice Chan (meditazione Buddista), oltre alle considerazioni di Jung e di altri studiosi della psiche collettiva. All’I Ching, sono riconducibili anche gli archetipi psichici basilari dello zodiaco cinese. La mia pluridecennale ricerca, compiuta sia attraverso contatti personali con vari insegnanti che su testi originali di matrice cinese e indiana (come ad esempio Il Potere del Serpente di Arthur Avalon), mi ha portato a elaborare un sistema archetipale integrato, basato sugli esagrammi radice dell’I Ching, sui cinque elementi indiani e su altri aspetti. Ed ora, grazie alla fiducia dimostratami dall'editore del libro, posso trasmettere i miei studi e le mie sperimentazioni nella speranza che possano ispirare il lettore verso la conoscenza di sé, anche in senso spirituale…
Disse un saggio: "Il cuore dovrebbe essere il capo, allora tutto si sistemerebbe spontaneamente. Se riesci a fidarti della natura, a poco a poco diventerai quieto, silenzioso, felice, gioioso, festoso, perché la natura è in festa. La natura è una festa...”