RAZZISMO E IPOCRISIA DEMOCRATICA - Evian 1938, quando le democrazie tradirono gli ebrei...

 


Giunto al potere nel Gennaio del 1933, Hitler attuò nei confronti degli ebrei una politica di restrizione dei diritti civili per spingerli a lasciare la Germania. L’incoraggiamento all’emigrazione degli ebrei tedeschi trovò, però, forti resistenze da parte della comunità internazionale e sfociò nel fallimento della conferenza di Evian del 1938, dove i trentadue Stati aderenti alla Società delle Nazioni avrebbero dovuto ognuno farsi carico di un numero di ebrei provenienti da Germania e Austria proporzionale alle loro dimensioni.

     Le uniche nazioni che accettarono di accogliere i rifugiati ebrei furono la Repubblica Dominicana e la Bolivia. Tutte le altre, con motivazione che oggi potremmo definire sconcertanti, rifiutarono ogni forma di accoglienza, soprattutto USA, Francia e Gran Bretagna, le nazioni che maggiormente si erano prodigate - a parole - a favore degli ebrei… Il resto lo conosciamo.

Circolo Culturale Excalibur 











Nota - Per avere copia del libro, autografata dall'autore, scrivere a: circolo.excalibur@libero.it

Una domanda facile facile: "Chi sei tu ?"...

 

Se vi chiedessi chi siete, cosa mi rispondereste? La maggior parte delle persone che conosco pensano di essere un corpo ed i pensieri che popolano la propria mente. Fino a qualche tempo fa anch'io la pensavo così. Poi un giorno ho scoperto che in realtà sono l'amministratore del mio corpo e della mia mente. Certo che ero un amministratore fallimentare: il corpo sfuggiva al mio controllo ammalandosi e la mente era popolata di pensieri che non controllavo. Non ero io che guidavo ma corpo e mente che guidavano me verso l'autodistruzione fisica e pensieri automatici indipendenti dalla mia volontà.

Come se portando un cane al guinzaglio improvvisamente vi accorgete che è il cane a portarvi al guinzaglio.


Una scoperta sorprendente: non sono libero. 


Ma cos'è la libertà? Per diversi anni ho praticato la meditazione yoga ed ho imparato a controllare il corpo e soprattutto i pensieri che affollavano la mia mente. Lo yoga, come anche anche altre discipline olistiche è un ottimo strumento per tornare ad essere i padroni della propria vita e sperimentare la libertà. Ma purtroppo spesso accade che lo yoga viene praticato come una ginnastica e quindi diventa un passatempo o come una dottrina di fede e quindi diventa una religione. 


Fin quando non si prende coscienza che la strada della liberazione si può percorrere solo imparando ad ascoltare i bisogni del corpo, proprio come fa una madre con il proprio neonato. Il corpo è il nostro maestro di vita, il vero guru che non mente mai. Trattando male il nostro corpo ci incateniamo con le nostre mani e soprattutto perdiamo il controllo della nostra mente.


Nasciamo liberi e veniamo istruiti dagli "adulti" a diventare schiavi. Infatti diceva Gesù: se non ritornerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli, ovvero non riconquisterete la libertà.


Paolo Mario Buttiglieri





Mio commentino: "Anch'io ho posto la domanda "Chi sei tu?", come titolo di un mio recente libro, mi permetto di consigliarlo ai lettori di questo blog...



Qui una recensione:  https://gognablog.sherpa-gate.com/tornare-a-se/


Filosofi del '900 critici verso la scienza sperimentale...

 


Oltre a filosofi apertamente irrazionalisti (come Bergson, Heidegger, Jaspers) ed idealisti (come Bradley, Croce o Gentile), delle cui filosofie ci interesseremo in un prossimo articolo, è necessario segnalare le figure di alcuni filosofi, che – pur partendo a volte da posizioni vicine a quelle empirico-logiche del Circolo di Vienna (N. 106) – sono approdati a posizioni critiche verso la scienza sperimentale, basata sul principio di induzione (che consiste nel risalire dai singoli fatti sperimentali ad una legge generale) e sulla verifica sperimentale delle teorie(1)(3)(7).

L’austriaco Karl Popper  (1902-1994), dopo essersi staccato dal Circolo di Vienna, ne contestò le posizioni “neo-positiviste” dichiarandosi contrario allo “scientismo”. Il criterio della “verifica” sperimentale dell’enunciato scientifico non sarebbe valida, ma andrebbe sostituito con il criterio della “falsificazione”. Ogni teoria (che – secondo Popper - è molte volte di origine metafisica, e non sperimentale, e nascerebbe da nostri schemi mentali, intuizioni e ragionamenti logici preesistenti all’esperienza), per essere considerata scientifica, dovrebbe dare sempre la possibilità a chi la esamina di dimostrarne la falsità. Ciò avverrebbe controllando le singole conclusioni che si potrebbero ricavare per via strettamente logico-deduttiva a partire da un’asserzione di carattere generale che la teoria dovrebbe sempre contenere per essere considerata scientifica. Basterebbe una singola conclusione contraddittoria per “falsificare” l’intera teoria. Quindi, non sarebbe mai possibile verificare la verità di una teoria, ma solo verificarne la falsità.

Popper, di fede liberale ed anti-comunista, e sostenitore di una “open society” dove tutte le opinioni (anche quelle metafisiche) dovevano essere poste a confronto, affermava che le teorie di Marx non sarebbero scientifiche perché non obbedirebbero al criterio della falsificazione. Il principio di induzione non sarebbe mai valido. Sia l’induzione per “enumerazione” illustrata da Aristotele (in cui si esaminano un gran numero di casi per costruire un’affermazione generale), sia il criterio di “eliminazione” adottato da Bacone e Stuart Mill, in cui si scartano man mano le ipotesi che non rispondono ai fatti, non hanno valore perché i casi e le ipotesi sono infiniti ed è sempre possibile trovare un caso per cui la teoria sia falsa.

Coerentemente con queste posizioni Popper auspicava che – in alternativa alla Scienza sperimentale – si tornasse ad una Scienza “dimostrativa”, e giungeva ad affermare che anche una buona teoria metafisica coerente andrebbe presa in considerazione per essere sottoposta al criterio della “falsificazione”. Popper metteva in evidenza l’importanza della connotazione sociale e persino della psiche dello sperimentatore nella formulazione delle teorie, anche se poi parlava anche dell’importanza della verifica sperimentale che porta all’eventuale falsificazione.

Willard Von Orman Quine (1908-2000), ex frequentatore dello stesso circolo, considerato il massimo filosofo americano del secolo, professore ad Harvard, nega che vi sia differenza tra enunciati analitici (basati sulla logica) e sintetici (basati sull’esperienza), e quindi “verificabili” sperimentalmente con una “riduzione” alle osservazioni sperimentali di partenza, posizione sostenuta dai neo-positivisti del Circolo di Vienna e da Bertrand Russel (N. 106).

Nell’opera “I due dogmi dell’Empirismo” si ripromette di sconfessare l’empirismo. Ad ogni evidenza empirica possono corrispondere molte teorie diverse di varia natura, a seconda del contesto in cui stiamo agendo, e le teorie sono sempre complesse e riconducibili all’esperienza solo con molte mediazioni. Quine giunge a sostenere che credere nell’esistenza degli Dei omerici avrebbe la stessa dignità teorica del credere nelle onde elettromagnetiche!

Inoltre anche il linguaggio con cui esprimiamo un enunciato dipende dal contesto, e quindi il suo significato rimane ambiguo. Famoso è il suo esempio, divenuto quasi una barzelletta: cosa significa la parola “gavagai!” urlata da un selvaggio? Può assumere tanti significati a seconda dei punti di vista, per cui non è possibile prescindere dal contesto reale in cui viene pronunciata e dall’ambiguità dei molti significati del linguaggio.

Quine riprende anche un’idea del fisico francese, e storico della ricerca scientifica Paul Duhem (1861-1916) già sostenitore delle teorie convenzionaliste ed energetiste di Mach (N. 95). Secondo Duhem e Quine ogni teoria scientifica è una somma di tante singole teorie (concezione “olistica”, dal greco antico “olùs”, che significa “tutto”). È quindi molto difficile “falsificarla” (ed anche “verificarla” sperimentalmente, in accordo con le concezioni “riduzioniste” dei neo-positivisti) in quanto non è chiaro quale particolare teoria stiamo considerando falsa (o vera); per cui restano molti margini di ambiguità sulla validità di una teoria complessiva e possibilità di correzioni parziali per validarla.

Nonostante queste posizioni che sembrano portarlo verso forme di scetticismo antiscientifico, Quine mantenne una pur critica fiducia nella struttura della realtà, rappresentata dalla fisica (“Fisicalismo”). Egli fu inoltre sostenitore di una “Scienza naturale” in cui l’apprendimento umano dipende dalla fisiologia (intesa come potenzialità concreta delle terminazioni nervose) e dalla psicologia dell’individuo concreto, che egli interpreta essenzialmente in maniera comportamentale (“Behaviorismo”: vedi N. 100).

Decisamente più astioso verso la conoscenza scientifica basata sull’esperienza è il pensiero di un allievo di Popper e Wittgenstein, l’austriaco Paul Feyerabend (1924-1994) poi vissuto in Gran Bretagna, Stati Uniti, Nuova Zelanda, Italia e Svizzera. Egli nelle opere “Contro il Metodo” del 1975, e “La Scienza in una Società libera” del 1978, critica l’intera tradizione razionalista e positivista, e persino il “razionalismo critico” del maestro Popper. La Scienza non va valutata per i presunti valori di conoscenza, ma pragmaticamente per i contributi, o gli ostacoli, posti al progresso umano. Essa sarebbe determinata da fenomeni storico-culturali, che variano continuamente, e sarebbe priva di oggettività. Feyerabend attacca apertamente anche Galilei, che in realtà non avrebbe seguito coerentemente il suo stesso metodo sperimentale. Feyerabend sottolinea il soggettivismo dello sperimentatore. Afferma che la scienza è vicina al mito e non è detto che sia la forma di conoscenza migliore. Gli scienziati adattano le loro ricerche alla loro ideologia ed alle esigenze dei loro referenti.

Su posizioni non molto diverse troviamo il professore di Harvard Nelson Goodman (1906-1998), che nell’opera del 1978 “Modi di costruire il Mondo” afferma che il mondo ha la struttura che noi gli diamo in base a ciò che pensiamo e facciamo. Su posizioni analoghe troviamo N.R. Hanson, secondo il quale gli scienziati costruiscono modelli entro cui i dati diventano per loro intellegibili (“Retroduzione”). Quindi nell’opera “I Modelli della Teoria Scientifica” del 1958 conclude che è il modello teorico ad organizzare le percezioni ed addirittura “creare i fatti”, e non viceversa.

Molte delle idee di Feyerabend e di Quine sono riprese dal noto storico statunitense della Scienza Thomas Samuel Kuhn (1922-1996), professore ad Harvard, Berkeley e ricercatore a Princeton(6). Per lui la Scienza si basa su alcuni “paradigmi” culturali, in cui sono presenti motivazioni politiche, religiose, ideologiche, che ne mettono in dubbio l’oggettività(5) (una tesi simile era stata sostenuta anche dal già citato Duhem che considerava la scelta di una teoria fisica come una costruzione simbolica dettata dalle condizioni storiche). Dopo periodi di “Scienza normale” che si basa su un certo paradigma, l’accumularsi di “anomalie”, cioè di contraddizioni, porta al crollo totale del paradigma che viene sostituito da un paradigma completamente nuovo, assolutamente “incommensurabile” con il precedente. Questo schema fu illustrato soprattutto nell’opera “La Struttura delle Rivoluzioni scientifiche” del 1962, anche se in seguito Kuhn tese a mitigare queste sue molto recise conclusioni approdando ad una visione ispirata ad una maggiore continuità nel progresso scientifico.

Su posizioni simili si schierò l’ungherese Imre Lakatos (1922-1974), ex allievo del marxista Lucaks ed ex esponente comunista, poi fuggito in Occidente nel 1956(8). Lakatos, molto legato sia a Kuhn che a Feyerabend, sostiene – come Quine e Duhem – che le teorie scientifiche sono un coacervo di teorie diverse con un nucleo comune. Quindi è semprea razionalità e dalla logica. Ritiene anche che esista una certa continuità tra le varie teorie che si susseguono, ognuna delle quali è valida in un certo ambito, salvo a subire modifiche ed approfondimenti per il verificarsi di nuove evidenze sperimentali (tesi sostenuta anche da Poincaré). Ritiene errate le critiche alla fisica sperimentale di Galilei - peraltro appassionatamente difeso dal fisico Renzetti(2) - condotte da Feyerabend e Duhem (che valorizzava, in alternativa, la fisica medioevale di Buridano e Oresme: vedi N. 30).

Un’altra forma di atteggiamento anti-positivista ed anti-scientifico – essenzialmente romantica, ed ispirata ad un pensiero del tipo di quello espresso da Rousseau – è quello che nel ‘900 è stato espresso dalla Scuola di Francoforte, ovvero l’Istituto per la ricerca Sociale fondato nel 1923 e poi chiuso dai Nazisti(1)(3)(5). La chiusura provocò la fuga negli Stati Uniti di quasi tutti i membri dell’Istituto, in gran parte ebrei, tra cui i filosofi Max Horckeimer (1895-1973) e Theodor Adorno (1903-1969), che nello scritto in comune “Dialettica dell’Illuminismo” del 1947 affermano che il progresso diventa regresso e che la ragione indifferente alla Natura è strumento di dominio.

Nella “Ecclissi della Ragione” – anch’essa del 1947 - Horkheimer criticherà ulteriormente la società industriale che sfrutta la Natura. Sulla stessa strada si pone Herbert Marcuse (1898 – 1979) che nell’opera “Eros e Civiltà” del 1955 parla di un’esistenza liberata dalla repressione sessuale che per lui è funzionale a questo tipo di società. Altre critiche alla società industriale capitalistica sono contenute nello scritto del 1964: “L’uomo ad una Dimensione”.

Queste idee diverranno idee portanti della frangia più radicale ed irrazionalista della grande rivolta studentesca del 1968 iniziata nell’Università di Berkeley. Alcune delle impostazioni di questo gruppo di filosofi sono state fatte proprie anche dall’ala più fondamentalista del moderno movimento ambientalista, dimentico che solo Scienza e tecnica potranno salvarci dal cattivo uso della Scienza e delle tecniche precedenti. A proposito delle più recenti posizioni ambientaliste, rimandiamo anche al ponderoso ed interessante libro dell’amico Giancarlo Paciello citato in bibliografia(4).

Vincenzo Brandi 
















(1) L. Geymonat, “Storia del Pensiero filosofico e scientifico”, VII, Garzanti Ed. 1970-1972

(2) R. Renzetti, “Dal mondo di Aristotele all’opera di G. Bruno e G. Galilei”, Tempesta 2016

(3) W. Adorno ed altri, “Storia della Filosofia”, Laterza 1987

(4) G.Paciello, “No alla Globalizzazione dell’indifferenza”, Petit Pleasure 2017

(5) Ciccotti, Cini ed altri., “L’Ape e l’Architetto”, FrancoAngeli, 2011

(6) S. T. Kuhn, “La Struttura delle Rivoluzioni scientifiche”, 1962

(7) R. Egidi, “La Svolta relativista dell’Epistemologia contemporanea”, Ed.FrancoAngeli

(8) I. Lakatos,”The History of Science and its rational reconstruction”, 1971

L’inquinamento musicale è diventato il nemico numero 1 per l’uomo...

 

Musicaccia  a Sanremo


"Nella pace e nel silenzio tutto si manifesta" (Saul Arpino)

Solitamente l’immagine che si ha del rumore è legata alle attività lavorative, si pensa ad un martellar di lamiere, colpi d’ascia, motori che sibilano, traffico, ululati di sirene…. Solo a pensarci ci si sente infastiditi sia nell’olfatto che nell’udito! Ma è soprattutto il “rumore da divertimento” che è irritante e dannoso anche se viene considerato fonte di delizia e di esaltazione. Mi riferisco ovviamente ai decibel delle tiritere strombazzate dalle auto in corsa, fuoriuscenti dalle porte di localacci ambigui, dalle finestre delle case con televisioni accesi giorno e notte, dagli stereo dei venditori ambulanti, dalle cadenze hard rock di discoteche e club privati, etc. etc.

Quali sono le conseguenze sulla mente e sul corpo umano di queste cadenze emesse senza sosta? L’elettroencefalogramma evidenzia rallentamento dei ritmi, alterazioni dell’attività elettrica delle cellule nervose, riduzione dei riflessi e della memoria, eccitabilità e mancanza di risposte adeguate alle situazioni contingenti, anche alcune forme di cefalea possono essere collegate a traumi acustici. Il sottoporsi a rumori eccessivi porta a disturbi urinari e mestruali, fertilità e libido ne risentono anch’esse.

Le persone che vivono o lavorano in ambienti rumorosi sono le più soggette a fenomeni quali l’ipertensione o l’improvvisa elevazione della pressione sanguigna, a rischio sono soprattutto le persone soggette a problemi cardiocircolatori. Alcuni test di laboratorio hanno infatti dimostrato che se sottoposti ad un rumore di 90 decibel per 10 minuti i malati presentano evidenti alterazioni nell’elettrocardiogrammma.

Insomma il rumore in eccesso è puro veleno per l’uomo!

“Beati quelli che stanno in Paupasia..” Ma forse pure loro sono ormai resi schiavi dall’auricolare… !

Il rumore di fondo al quale siamo esposti non dovrebbe superare i 60 decibel ma è un limiti ampiamente superato sia in Italia che all’estero. Tutto questo baccano oltre che portare ai disturbi sopra indicati ha anche altre disagevoli conseguenze: disabitua l’orecchio all’ascolto. Infatti l’inquinamento acustico ci porta ad ignorare (nel livello cosciente) quei suoni che il nostro udito non può sopportare, che è una sorta di sordità o distrazione psicologica. Oggi per combattere l’inferno del “baccano” si contrappone la semplice diminuzione (insonorizzazione) delle emissioni ma questo è un approccio meramente negativo.

Dobbiamo invece far sì che gli studi sull’acustica ambientale abbiano un valore positivo. Quali sono i suoni che intendiamo privilegiare, conservare, moltiplicare? Per capire questo discorso dobbiamo imparare a scegliere il rumore al quale sottoporci. Possiamo cominciare discriminando fra l’ascolto volontario della nostra melodia preferita ed il martellamento della musica indiretta. Questa presa di coscienza non ci potrà certo impedire l’ascolto della musica indiretta, spesso ammannitaci nelle forme più subdole come quando si va al supermercato o si ascoltano musiche strane su internet o televisioni (e dir si voglia), ma ci consentirà comunque di abituarci al distacco ed al discernimento in modo da non cadere vittime degli incantatori pubblicitari.

Infatti la sottomissione passiva (ignorante) alla musica indiretta è fonte di stravolgimento culturale e mutazione dei costumi (esattamente ciò che vuole la pubblicità..). Se restiamo vittime di questo influsso la musica, che è l’arte più vicina alla spirito (essendo nata proprio in funzione del nutrimento spirituale) ed orgoglio della nostra tradizione millenaria, smette di essere una cosa nata per “illuminare” la mente umana, allietando il nostro vivere, ma diventa fonte di confusione ed alienazione dalla vita (cosa tanto gradita a satana).

Oggi nella società in cui tutto è consumo ed appropriazione materialistica anche la musica è una merce di cui “godere” senza ritegno sino alla nausea ed alla negazione dell’armonia. “Gli uomini, cosiddetti civilizzati, sono diventati feroci uditori ma in realtà non sanno più ascoltare! Usano il suono come una droga stordente dimenticando così di godere del significato e del valore di quanto viene ascoltato” (Walter Maioli, etnomusicologo).

Come affermavo sopra anche le culture aborigene sono minacciate dalla massificazione musicale in corso, la musica dolce e profonda dell’oriente, delle Americhe o d’Australia rischia di restare contaminata irrimediabilmente dall’ondata volgare di suoni elettronici e decadenti della musicaccia occidentale di taglio consumista. “E’ pur vero che le diverse civiltà possono crescere attraverso ibridazioni e contatti, ciò è sempre avvenuto in passato, ma dovrebbero poter continuare ad evolversi senza subire una colonizzazione assoluta e perciò inaccettabile” (Roman A. Vlad, musicista).

Nell’ascolto non si tratta perciò di mettere in contrapposizione la musica elaborata, ricca di significati simbolici, con quella popolare e primitiva… piuttosto, ai vari livelli, di sottolineare la profonda e radicale differenza delle finalità fra un prodotto di consumo ed opere in cui la ricerca estetica continua ad essere portata avanti.

E qui torniamo al problema dell’inquinamento acustico… (e non solo nelle città, poiché ormai esso impera ovunque) per scoprire che mentre un pubblico sempre più vasto si sottopone, più o meno volontariamente, ai prodotti musicali di consumo, s’impone per “l’ascoltatore” di qualità un eccessivo sforzo discriminatorio e di pazienza per non restare coinvolto e sconvolto dal rumore della diffusione di massa.

Occorre evitare che la capacità melodica, che fece sognare l’uomo per millenni e che è ormai una componente emozionale della sua vita spirituale, cada vittima dei “petrolieri” musicali. La melodia, che ha il silenzio come base, non deve infatti soccombere ad un’era perversa e sordida frastornata da ogni rumore. Il rischio inverso, dicevo sopra, è l’assuefazione inconscia al frastuono e la perdita totale della capacità di ascolto.

E vorrei ora ricordare ai convalescenti desiderosi di cure melodiose un qualcosa che possiamo fare per recuperare l’amore per i suoni naturali. Quando ci rechiamo in campagna, sulla riva di un fiume, in qualsiasi ambito naturale, abituiamo l’orecchio al vuoto, spegniamo ogni brusio tecnologico, non parliamo, lasciamo che la natura trasmetta i suoi messaggi: il ronzio di un’ape sui fiori, il guizzo d’ala di un passero, un refolo di vento tra le foglie, il fruscio dei nostri passi sul sentiero… In tal modo sentiremo nascere dentro di noi una nuova armonia, che parte dal cuore…

Paolo D’Arpini



Chi erano gli Unni?



Quando parliamo di storia e di Eurasia, torna spesso nei nostri discorsi un popolo: gli Unni.

La natura di questi è controversa, poiché provenivano dall'area centrale del blocco euroasiatico (demograficamente ed etnicamente caotica) ed erano dediti al nomadismo. Questo rende tutte le ricostruzioni da ricavare da fonti antiche e indirette, spesso tendenziose.
Conosciamo gli Unni (occidentali), gli Unni bianchi (centroasiatici) e gli Unni rossi (Mongolia, Nord della Cina), ma abbiamo alcune difficoltà a capire se si tratti di diversi rami dello stesso popolo (la distanza e la differenze culturali farebbero pensare di no).
La teoria di un popolo unico deriva forse da una similitudine tra il nome attribuito a questi dalle fonti greco-latino e da quelle persiane. Gibbon sosteneva che gli Xiongnu in Mongolia, respinti dai cinesi, si fossero spostati verso Occidente, arrivando a dividersi in Asia Centrale nelle due diramazioni note: Unni bianchi (iranici) e Unni (europei).
Basava questa teoria sulla somiglianza tra i nomi dei popoli e il comune areale centro-asiatico (in realtà molto vasto).
Contro questa teoria vi erano alcuni elementi: profili fisiologici diversi, grande distanza spaziale e temporale (duecento anni) tra gli Xiongnu e gli Unni occidentali.
Le identità dei popoli nomadi erano spesso molto labili; diverse bande di guerrieri (non necessariamente un popolo) si riunivano dietro un leader carismatico e lo seguivano in migrazioni e saccheggi. Anche le lingue erano più fluide di quanto possiamo pensare oggi.


Ad esempio:
- Dopo la migrazione a Nord dei Rus di Kiev, l'influsso ugro-finnico fu determinante nel ripopolare le città e la nobiltà russa a lungo si mescolò con la nobiltà mongola, che a sua volta riceveva ciclicamente -come pegno di alleanza- giovani principesse cinesi.
- Gruppi come Vandali e Longobardi, nel loro spostamento verso Occidente, avevano incorporato gruppi minori. I Vandali portarono con loro Alani (di etnia iranica) e Suebi; i Longobardi portarono piccoli gruppi di Gepidi e Avari.
- Il dominio di Attila fu sempre composito: più che uno stato unno, dobbiamo immaginarlo come un'entità politica con un gruppo militare-banditesco al vertice (le cui truppe erano composte da: Unni, Gepidi, Ostrogoti, Rugi, Sciri, Eruli, Turingi, Alani e Burgundi).
Dobbiamo dunque chiederci: e se "unno" non fosse il nome di un popolo, ma di una categoria militare? Di una compagnia guerriera?
Nella fucina di popoli e di eventi che fu l'Asia Centrale, la parola "unno" avrebbe potuto indicare un guerriero particolarmente valoroso, forte, feroce, determinate caratteristiche o comportamenti bellici, persino un gruppo di saccheggiatori dediti a una qualche divinità (l'etimologia cinese condurrebbe a un culto del cane - o all'uso dei cani nordici durante il combattimento?).
Gli Unni di Attila erano turcofoni, provenivano dall'Asia Centrale e inglobarono al loro interno alcune bande di combattenti di origine germanica. Mentre, gli Unni Bianchi erano di origine indoeuropea del ramo iranico e provenivano dall'odierna zona tra Iran e repubbliche centro-asiatiche.
Per affrontare lo studio storico-antropologico e linguistico delle steppe dovremo essere disposti a cambiare i nostri parametri e adattarci a una situazione più dinamica, caotica.
Le identità erano più labili, gli spazi più estesi, persino le differenze per noi oggi quasi insormontabili tra lingue e gruppi etnici erano più facili da appianare. Così, poteva capitare che un pastore di renne finnico sposasse nella tundra una donna di etnia slava o germanica; che molti secoli dopo le corti dei mongoli furono le più tolleranti con mercanti e predicatori di ogni tipo.
Alle due estremità dell'Eurasia erano due poli ad alta concentrazione demografica (Europa/Mediterraneo e Cina/Corea/Giappone), nelle aree più calde c'era un corridoio temperato di civiltà complesse (Medio Oriente, India, più tardi Russia e in alcuni periodi Indocina); tutte queste regioni sarebbero diventate imperi, città e stati, identità forti e guerre di religione.
Nella steppa, invece, rimaneva ancora in vita un'alternativa radicale, una strada che tracciava una separazione tra due mondi dai tempi della Rivoluzione Neolitica: quello delle città e quello dei nomadi, fatto di barbarie (almeno così percepite dalle città), ma anche di scambi e alleanze, di mescolanze culturali e tolleranza.
Non possiamo capire la storia d'Eurasia, senza questi pastori nomadi che canta Battiato: "Ancora oggi le renne della tundra, trasportano tribù di nomadi che percorrono migliaia di chilometri in un anno e a vederli mi sembrano felici".

Gabriele Germani





Integrazioni:

Stefano Sacchini
L’etnonimo 'xiongnu' è argomento di controversie in quanto non è traducibile. I due ideogrammi cinesi che lo esprimono, considerati nel loro valore semantico, significano "schiavi urlanti" o "schiavi malvagi". Ma nessun studioso ha mai preso 'xiongnu' nel suo significato letterale. L'opinione prevalente è che le due sillabe debbano considerarsi esclusivamente nel loro valore fonetico, quindi come trascrizione di un nome straniero. Ma quale fosse questo nome, nonostante le ipotesi avanzate, nessuno è stato finora in grado di dire. C’è da dire, inoltre, che gli studiosi non concordano neanche sull’appartenenza linguistica del popolo Xiongnu: oltre alla teoria proto-turca c’è anche quella paleosiberiana
Fabio Fiorillo
Gli unni probabilmente non sono mai stati un popolo, ma in origine una confederazione di gruppi nomadi. Dunque lo spostamento verso occidente sarebbe stato quello di una organizzazione militare (costituita da sempre nuovi elementi etnici) e non di una popolazione migrante.

"Chi domina i nostri dire e fare...?"



Fino a qualche anno pensavo di essere un uomo libero ma condizionato da chi aveva il potere. Mi sbagliavo sul fatto di credere di essere libero e soprattutto sul condizionamento da parte di chi aveva il potere.

In realtà come stavano le cose?


Non sono mai stato libero. Non ho deciso di nascere, da chi e dove. E quando sono nato corpo e cervello erano già impostati. I genitori e prima di tutti mia madre mi hanno condizionato. Crescendo la società in cui vivevo e le persone e i luoghi che frequentavo mi hanno ulteriormente condizionato. Ma di questo non ero consapevole. Pensavo di essere libero anche se notavo che molti miei comportamenti erano automatici, pensieri e azioni non corrispondevano esattamente a quel che avrei voluto pensare e fare.


Poi un giorno mi ammalai di una malattia che avrebbe condizionato il resto della mia vita. E quando decisi di curarmi mi si illuminò la mente e per un attimo intuì cosa mi aveva fatto ammalare e soprattutto che fino a quel momento non ero mai stato libero, che il libero arbitrio non era mai esistito, anche se Stato e Religione me lo avevano fatto credere. 


Ma soprattutto mi resi conto che la malattia era la conseguenza di questa mancanza di consapevolezza di non essere libero. Se uno non sa guidare l'auto e la guida l'unica libertà che ha è quella di farsi del male. Provate a dare in mano un coltello ad un neonato e vedrete subito che l'unica libertà che ha è quella di farsi del male.


Ma cos'è che ci rende liberi? Il compimento dei 18 anni? 

Per la religione, per ogni religione e per lo Stato e per ogni Stato la prima cosa che dobbiamo fare è trascurare il nostro corpo, sacrificarlo obbedendo ai condizionamenti dello Stato e della religione.


Trascurare il corpo e i suoi bisogni è la premessa per perdere il controllo del proprio corpo e della propria mente. E se non controlliamo noi il nostro corpo e la nostra mente ci penserà qualcun altro: Stato, Chiesa, chiunque vuol venderci qualcosa, chiunque vuol farci lavorare come volontario per i suoi interessi.


E così ci viene insegnato che siamo liberi, quando l'unica libertà che abbiamo è di obbedire a questi "insegnanti".


Ma io oggi sono consapevole del livello di libertà che ho. Più ascolto i bisogni del mio corpo e più la mia mente  è rilassata e sgombra di pensieri condizionati. E quello che fa una madre "rilassata" che ascolta i bisogni del neonato e li soddisfa. Ma se la madre non è rilassata a livello fisico e di conseguenza a livello mentale è facile che non colga i bisogni del neonato e lo trascuri. Infatti prendersi cura dei propri bisogni è la premessa per vedere i bisogni degli altri. 


In conclusione ho imparato ad ascoltare i miei bisogni e a rilassarmi e a vedere che spesso gli altri, come facevo io prima, non sono in grado di ascoltare i propri bisogni e di conseguenza non vedono la realtà, ma la vedono filtrata dalla confusione mentale che li domina dovuta al loro non prendersi cura dei bisogni del proprio corpo a causa dei condizionamenti sociali di cui non sono consapevoli.  

 

Paolo Mario Buttiglieri - trentomilano@gmail.com




I cattivi buoni ed i buoni cattivi



Ho sempre avuto gran rispetto per le persone che crudelmente volevano ammazzarmi. Quei loschi figuri che muovevano marionette e me le scagliavano contro.

Le marionette, ad un certo punto, potevano riposare. Loro no.
I cattivi, quelli veri, non si concedono famiglia e pace; nessun amore.
Completamente immersi nel loro mondo sacrificano tutto ciò che hanno di più caro per raggiungere uno scopo.
Ciò che chiamano figli, amore, è solo una parte buona da sacrificare. Magari una delle ultime scintille divine da dare in pasto ad un potere per averne di più.
In una discussione, giorni fa, sono stato spietato. Ho detto tutta la verità; magari appena, solo- un pò, velata.
L’uomo a cui l’ho detta ne è stato investito suo malgrado.
In genere non faccio cose così. A me m’accade che ciò che semino raccolgo…ed amo quando il mondo mi fa maestro poiché io tratto tutti da maestri.
Ma a volte accade.
Accade che per amore si debba dare una sgrullata ad una pianta piena di neve che sta per rompersi, oppure dare un ceffone ad un bimbo che, sonnambulo, s’avvicina ad un burrone.
Quel ceffone lo paghiamo quasi sempre. Pochissimi i casi in cui la forza non venga ricambiata.
Pochissimi quei casi e sempre legati al dover mutare un moto errato, per qualcuno di gran valore, per il fato.
Già.
Alcuni, per il fato, hanno così gran valore da impedire che errino lontano dalla loro orbita prescritta.
Troppe anime in attesa di essere qualcosa, per permettere a qualcuno d’essere una resa.
Ed allora accade che le condizioni spingano qualcuno a dire o a fare la cosa sbagliata che a ben vedere è quella giusta.
Ho sempre avuto gran rispetto per le persone che crudelmente volevano ammazzarmi. Quei loschi figuri che muovevano marionette e me le scagliavano contro.
Sono le marionette che amo molto meno. Coloro che guardano e non vedono.
Forse poiché sono stato uno di loro, forse poiché intimamente so che non hanno alcuna voglia di sfidare il vento contrario.
Le tempeste.
Come quella che si sta abbattendo oggi sul mio laboratorio silenzioso.
Buon giorno della Luna. Avevo bisogno di coraggio, avevo paura e mi hanno protetto.
Chi lo ha fatto sorrideva. Chi lo ha fatto erano molti. E' così che mi hanno insegnato che fare, qualcosa, equivale ad esserlo!
Qualcosa che c’è già. Qualcosa che è lento. Qualcosa che dura. Qualcosa che è amore e mai stucchevole al palato.

Andrea Santini



Una memoria su Marija Gimbutas… ed il ritorno all’umano condiviso!


Nel libro “La civiltà della Dea” l’autrice Marja Gimbutas utilizzava il termine “matristico” per definire le antiche società neolitiche, Riane Eisler per risolvere il problema ha coniato addirittura un nuovo termine, gilania, unendo la radice greca di femminile (gyn) e maschile (an) con una ‘l’, lettera che evoca il termine link, ‘legame’. Invece Heide Göttner Abendroth, che possiamo definire la fondatrice di questa corrente di studi, considera la parola adeguata da usare matriarcato, e lo spiega dal punto di vista etimologico non come ‘potere delle madri’, bensì come ‘antiche madri’, da cui la semplice evidenza che queste società tengono in alta considerazione la funzione materna come principio intorno a cui si organizza la società, per cui essendo il rapporto d’amore e di cura madre-figlio l’aspetto fondante della società non esistono le gerarchie tipiche del patriarcato”.

Ma a partire da cinquemila anni or sono, con il formarsi delle civiltà agricole e dell’urbanizzazione, iniziò la trasformazione in chiave patriarcale della società, anche se il patriarcato per legittimarsi adottò degli schemi matriarcali di facciata, che ovviamente dovevano far presa sulla gente cresciuta in quell’ambito. In tal senso quella dei sacrifici rituali maschili, descritti anche nella Bibbia, è stata una trasposizione letterale del rozzo spirito patriarcale dei miti di vita-morte-rinascita legati al ciclo naturale.

Ma non tutto nel patriarcato può essere considerato negativo. Infatti la società umana si è adattata alle diverse esigenze di vita e se non vi fosse stata una partecipazione attiva da parte dei maschi, nella cura della famiglia e nella conservazione e produzione dei beni (come pure nel mondo del pensiero e dell’arte) difficilmente sarebbero stati fatti passi avanti nella tecnologia e nella scienza empirica. Questo almeno è il mio pensiero e ricordo di averne discusso con fervore in passato con l’amica bioregionalista Etain Addey (che non era molto d’accordo con questa visione). D’altronde non possiamo cullarci in congetture, tipo “come sarebbe stato se…”, ma dobbiamo basarci su quel che è stato e su quel che conosciamo in seguito alle esperienze vissute, non potendo sfuggire alla realtà dei fatti, e dovremmo cercare di trarne insegnamento, anche aggiustando -ove necessario- la rotta da seguire.

Sono dell’idea che è inutile e fuorviante cercare di ricalcare un ipotetico periodo aureo del matriarcato quando sappiamo benissimo che era essenzialmente dovuto all’ignoranza ancestrale del fenomeno riproduttivo. A parte questo mi son trovato spesso in disaccordo con certe “femministe” per la loro mancanza di riconoscimento dello sviluppo della specie umana, nella sua interezza (relativamente all’intelligenza del maschile e del femminile), e ai diversi approcci psichici, comunque entrambi necessari all’evoluzione della specie.

Ed in questo senso una considerazione dell’amica Sabine Eck mi sembra necessaria…”ricordare questi eventi del passato matriarcale non significa voler tornare indietro, bensì cercare di integrare i due aspetti del maschile e femminile nella vita di ognuno, vivendoli in armonia e seguendo le reciproche tendenze senza imitazione né antagonismo”.

Insomma la nostra specie e la società umana hanno bisogno di riscoprire l’unitarietà della vita che si manifesta nei suoi diversi aspetti. Il Sole e la Luna. Femminile e Maschile, entrambi necessari come i due poli (positivo e negativo) che trasmettono la corrente della vita.

Paolo D’Arpini