La
morte genera la vita: la scomparsa di Diego Armando Maradona ha
generato una nazione composta di individui che altrimenti mai si
sarebbero trovati insieme a piangerlo, a sentirne il vuoto, ad
eleggerne il mito.
C’è un popolo
che non sapeva di essere una nazione finché Diego Maradona non ha
lasciato il corpo, la terra, la storia. È bastato un istante per
radunare quelle genti eterogenee che mai avrebbero sospettato di
potersi unire in un abbraccio necessario, sentito e voluto. Un gesto
di concreta congiunzione, richiesto da quell’insorto senso di
solitudine in cui Diego li aveva inattesamente lasciati.
Quel popolo si è istantaneamente radunato in pianto, si è fermato,
si è ritrovato in commossa preghiera. Quel popolo stava
dimostrando la realtà immateriale dello spirito. Un istante dopo
l’intimo cedimento, tutti i suoi individui si sono avvertiti corpo
unico nella risonante celebrazione, nella simbolica santificazione,
nell’elezione a suffragio universale, di uno come noi, a mito. Ed è
accaduto senza diffusa, sconsiderata idolatria. Come se tutti fossero
emancipati nei confronti del culto della personalità. Come se
sapessero pienamente che non era Diego l’artefice di quanto li
aveva ammaliati. Ma che, semplicemente, in lui si erano raccolte in
un solo punto di forza tutte le invisibili linee della sorte
necessarie all’eureka del genio del campo, mentre erano andate
disperdendosi, più disodinatamente che in altri, quelle che le
consuetudini sociali apprezzano ed ammirano.
“Fa
più notizia l’addio a un uomo poco apprezzabile piuttosto che
l’addio a tante donne violentate”. Frase evitabile?
«La Pausini forse non sa che Maradona è stato molto di più del
miglior calciatore della storia. Diego è un fatto sociale, è il
riscatto dei poveri e degli ultimi. Se un’artista non se ne rende
conto forse non capisce nemmeno dove vive».
Ci
racconta il “suo” Maradona?
«Ho avuto la fortuna di giocarci contro e di conoscerlo fuori dal
campo. A me non frega niente del privato delle persone. Mi ha
stregato da giocatore e mi ha emozionato come uomo. Diego trattava
tutti allo stesso modo: presidenti, compagni di squadra,
magazzinieri, massaggiatori, dirigenti, tifosi. Era unico». Da:
https://www.corrieredellosport.it/news/calcio/serie-a/roma/2020/11/29-76903403/nela_maradona_uomo_del_popolo_roma_da_vertice_
Quella
moltitudine eterogenea che lo spirito di Maradona ha coagulato in
organismo comune non è composta solo dai compagni di squadra, da chi
gli ha giocato contro, né da chi ha lo ha preso a modello ancora al
tempo dei respiri e dei tacchetti. Vi si trova anche il giudice che
lo ha condannato per frode fiscale e così i suoi colleghi di toga
che, per altre colpe storiche commesse dal caro estinto, piangono,
insieme ai mafiosi coi quali faceva spensierata baldoria, come il
resto del suo – lo si può dire – popolo. Si avverte il senso
caldo nel magistrato e nel picciotto, per averlo conosciuto, per
averci parlato. Loro, stroncatori di vite per mestiere, compiono
insieme il salto della storia per abbeverare il proprio spirito da
una fonte pura. Quantomeno, non così corrotta da quelle comuni.
Il 25 novembre
2020, insieme al corpo sono svaniti i suoi eccessi accettabili e
quelli deprecabili, (per andarci leggeri). Tuttavia, per una catarsi
intellettualmente prevedibile ma comunque carnalmente sorprendente,
non se ne è andato il suo sentimento. O meglio, per una
trasmutazione magica come le sue giocate, è vivido in quegli uomini
e in quelle donne per i quali Diego – contestualmente alla notizia
della sua morte – ha rappresentato una sorta di purezza elevatrice
dalle pesantezze della vita di tutti e a maggior ragione dei
semplici. E lo ha fatto senza elevarsi su scranni e balconi, lo ha
fatto vivendo senza il peccato della debolezza e della meschinità.
Senza nascondersi, senza viltà. Con coraggio. Cioè con una modalità
che affascina quel popolo così grande da comprendere tutti.
Quel giorno,
passando l’ultima soglia, lo spazio lo licenziava dalla vita
materiale e, contemporaneamente, il tempo lo accoglieva in quella
mitica. Vive ora, possibilmente più di prima, nel regno mondato
dalle debolezze, ovvero dalle premesse del cosiddetto lato peggiore
dell’essere umano. La purificazione è stata istantanea. Già
prima, c’era nei suoi confronti un’indulgenza piuttosto rara. Una
diffusa disponibilità a chiudere un occhio sull’uomo affinché
l’altro, fissato sul genio del calcio, non si perdesse una sola
occasione per toccare la bellezza. La condiscendenza, un privilegio
riservato a chi è una dimostrazione di se stesso più che ai
bacchettoni che dimostrano saperi e morali. Un beneficio che non gli
ha mai fatto credere d’essere superiore agli altri, che non gli ha
dato diritto di arroganze e pretese. Che lo ha fatto comportare come
un capitano altro dai suoi compagni. Senza lamento e senza
vittimismo, ha pagato tutto e se non è tutto, tutto avrebbe pagato
se qualcuno gli avesse presentato i conti ancora in sospeso. A volte,
è sembrato che certe vicende amare siano state per lui un’endovena
di intrugli guerrieri. La sua indipendenza non è mai venuta meno e
così la sua spontaneità. Così, per amore e orgoglio ha messo la
faccia e con essa, il suo inconsapevole peso politico, in vicende che
normalmente intimano ai deboli di stare lontani. Come la vicenda
delle Malvine e il diritto all’impiego della mano de dios
per umiliare a sua volta, quasi lui da solo, gli inglesi e con loro i
britannici; come l’abbraccio a Fidel Castro che era
contemporaneamente un dissenso alle politiche estere degli Stati
Uniti. O più semplicemente, a carriera giocata esaurita,
partecipando sempre alle partite internazionali di beneficienza.
Portava la
maglietta del Che e ora altri portano quella con il suo volto. Spesso
è modificato affinché qualcuno ci veda il Che e altri vedano
l’astro del calcio. Ma non è per inganno. È una celebrazione
disegnata, simbolica, in nome della sua solidarietà con gli ultimi,
quelli per cui Fidel e il Che hanno fatto del loro meglio. Che dalle
t-shirt escano gli sguardi di Ernesto Guevara o di Diego Armando, una
volta osservati e socchiusi gli occhi, entrambi ci mostrano il senso
della libertà e la ragione per la quale possono sovrapporsi,
mimetizzarsi dentro un solo volto. E per conoscere quella sensazione,
forte come una scossa, leggera come una speranza, non serve studiare.
Basta il nostro sentimento per giustificare che di verità si tratta,
per giurare che sappiamo di cosa stiamo parlando. Di cosa serve
all’uomo.
In tutti noi la
dimensione razionale si afferma nell’infanzia. A volte si rinforza
così tanto che, come un’aliena mano di Giger rinchiude
l’infinito che siamo in poche norme socio-morali. Ci prende allora
una patologia che ci estranea dalle doti profonde e potenti che
abbiamo. Da creatori, ci riduciamo a esecutori. Ci riduciamo a
credere che la realtà esista davvero al pari di un luogo dalle
strade già tracciate. Un territorio mentale, in cui il solo obbligo
e impegno per vantare autostima è seguirle. Per altri e per Diego
emancipati nei confronti del canale amministrativo della vita, per
quelli che si sono difesi da quella mano avvolgente, la vita è un
campo dove ricamare arte. Forse è in questo il magnete al quale quel
popolo si rivolge come segatura di ferro. Un punto di ammirazione per
noi comuni e di non semplice gestione per chi lo rappresenta. Il
degrado cocainico e il colonnello Kurz (Apocalypse Now) ce lo
dicono.
[Prima
che la ragione avvenga a dominare l’eros e la vis siamo nel pieno
dell’attuazione della potenza. Senza rischio di scoraggiamento
realizziamo forse la cosa più complessa dell’esistenza, imparare a
camminare. In quel periodo nessun ostacolo costituisce un
impedimento. Così accadrà ancora per qualche tempo, in cui una
scopa è davvero un cavallo e una fiaba la formula magica per volare.
Quell’età, in ambiente motorio e psicologico viene definita
condizione psicomotoria. È un periodo della vita in cui nessuna
mediazione interviene tra intenzione e azione, nessuna separazione
tra pensiero e realtà. Psicomotorio è quel comportamento che rivela
sempre la nostra intima condizione sentimentale. È una
caratteristica delle emozioni che, anche negli adulti, si rivelano
sempre attraverso le espressioni del corpo. È quell’abbraccio che
saltando sul posto non esiti a rivolgere allo sconosciuto vicino di
gradinata quando la tua squadra segna.]
Superata l’infanzia si inizia a calcolare cosa fare e dire,
si avviano le doti strategiche per ottenere lo scopo per le quali
vengono messe in campo. È quello il bimbo che abbiamo visto
in Diego più di quanto non si veda nella media delle persone. È lì
che abbiamo sentito il fascino e il richiamo subliminale, che ci ha
permesso di identificarci con lui nella spuma della vita, quella che
così tanto la cultura ha castrato. Un meccanismo di identificazione
che nulla ha di diverso da quello che accade al cospetto di certe
pubblicità dove le caratteristiche del prodotto neppure appaiono nei
titoli di coda, dove tutto è organizzato con un solo unico fine:
emozionare. Infatti, alla faccia dei razionalisti, è sugli eterei
ponti quantici delle emozioni che passano le comunicazioni. Non certo
su quelli strutturati e presuntuosamente ritenuti perfetti e solidi
della razionalità e della logica. Questi servono solo la superficie
di noi stessi, quella dove si depositano i saperi cognitivi. In
profondità, nel regno di ciò che è collettivo, sussistono altri
ordini, assai più utili per comprendere gli uomini.
[Tutti
noi, con sede neurale nella corteccia cerebrale, organizziamo il
controllo neuromotorio, indispensabile coordinazione per tutti i
gesti quotidiani e non solo. Tutti noi siamo soggetti ad automatismi
neuro-motori che ci permettono di compiere gesti che, se pensati o
scomposti in segmenti non saremmo capaci di creare o replicare a
creazione avvenuta. Dunque, per l’apprendista pensare come eseguire
per esempio una curva con gli sci o un palleggio con i piedi frena
invece che accelerare la ri-creazione del gesto desiderato.
Riducendolo alla sua struttura ritmica, per poi seguirla durante
l’esecuzione del gesto in questione – come si fa ballando – si
avvia l’affermazione di quei processi neuromotori chiamati
automatismi sottocorticali. Circuiti privi di uno scheletro
razionale, che permettono esecuzioni, personalizzazioni, prestazioni
altrimenti impossibili. Chi più è estraneo a relazionarsi al mondo
con atteggiamento di controllo e distanza, più si allontana dalla
propria creatività naturale e da se stesso. Cioè dalla linea
genetica del suo successo nella vita.]
Ma l’ego di Diego
è una formuletta facile e anche rappresentativa, ma sostanzialmente
fuorviante. Per riconoscere il quid che ha fatto esclamare come un
solo intonato canto di vuoto la sua nazione, è necessario non vedere
cosa ha fatto in campo ma come ha potuto farlo.
Diego Armando
Maradona era un esponente di quello che si intende per destrutturato.
Una modalità di espressione che pone il suo punto di attenzione non
sui particolari ma sull’insieme. Una modalità tutt’altro
che razionale, spesso definita magica in quanto in grado di
relazionarsi al tutto, in grado di sentire le energie del campo, di
vederne le forze, quindi di essere preveggente. Come altrimenti
interpretare molte sue giocate dove gli avversari sembrano recitare
una parte della scena, piuttosto che apparire determinati ad impedire
l’azione del 10 argentino.
Contrariamente
all’idea lombrosiana, la sua struttura brevilinea celava
un’intelligenza motoria immacolata. Una sorta di monolite puro
totalmente adatto ad avvertire la realtà del campo di calcio in
forma energetica, vibratoria. La sua azione poteva essere
rappresentata da una sua relazione con il tutto nel quale si muoveva.
Ragionamenti e idee, intenzioni e pretese erano per lui impedimenti
alla percezione fine del mondo. Così coglieva il tempo per allungare
la palla, coglieva su che piede poggiava il peso del difensore per
scegliere la parte dalla quale superarlo, sentiva lo spazio libero e
l’accorsa dei terzini. Vedeva la porta e aveva un pibe de oro.
La sua missione si
compiva e la sua vita vibrante si è compiuta. Ne resta un fatto
magico per molti, inspiegabile ma palpabile. È questo che vive e
pulserà nel corpo della nazione di Diego.
Quel popolo non
inseguiva l’ego di Diego ma lo spirito di libertà che lo ha
attraversato.
Lorenzo Merlo