Helena P. Blavatsky, la società teosofica ed il materialismo scientifico...



Nella  trasmissione “Il Pentagramma Segreto”  il sig.  Guerrieri ha definito  H.P.B. e tutti i teosofi maghi neri   https://www.youtube.com/watch?v=yPWDxSWxoCE&feature=youtu.be  - a 1h,17 ca –

 

Affermazione che lascia attoniti tutti coloro che hanno letto  anche   pochi scritti di Helena P. Blavatsky, quali ad esempio il suo libro “La chiave alla Teosofia”. E’ noto che la Società Teosofica venne istituita a fine ottocento per arginare il materialismo scientifico e le lotte dogmatiche tra le varie religioni,  lotte sovente  strumentalizzate dallo scientismo globalista.    E’ altrettanto noto che nel 1908 i teosofi fondarono, tra le altre, la lega contro vaccinazioni e vivisezione  perché in quel periodo, dopo il vaccino antivaioloso,  le persone morivano come mosche.

Se si fossero seguite le  ricerche di  H.P. Blavatsky, che l’antropologo-teosofo Bernardino del Boca ha aggiornato con le sue del   secolo scorso, forse non ci saremmo trovati in un mondo dominato dalla paura di un invisibile virus  e la maggior parte della popolazione mondiale avrebbe già da tempo confutato le basi stesse della virologia

In questo sito si possono trovare alcune delle ricerche di Blavatsky e di Bernardino del Boca sufficienti a sfatare molte menzogne  http://www.teosofia-bernardino-del-boca.it/

 

Nelle  facoltà di medicina, antropologia, genetica ecc. la mente-anima-spirito non sono menzionati, conseguentemente nella ricerca delle cause delle malattie o epidemie,  viene spesso aprioristicamente esclusa  l’esperienza personale,   il proprio vissuto/sentito,  alimentando  in tal modo la  separazione fra scienza-mente-psiche-spirito e, conseguentemente,  il  divide et impera che perdura da millenni.

 

Fra i commenti di alcuni articoli  pubblicati su siti web  ho inserito i miei  seguenti:

 

“Stefan Lanka:  “Poiché questi virologi hanno chiaramente violato le leggi del pensiero, la logica e le regole del lavoro scientifico con le loro affermazioni e con le loro azioni, possono essere colloquialmente descritti come imbroglioni della scienza. Ma poiché la frode scientifica non si verifica nel diritto penale e non ci sono precedenti per questo, suggerisco, e lo farò io stesso, di far stabilire in tribunale e nel diritto penale la frode occupazionale dei virologi - che fingono di essere scientifici ma agiscono e argomentano in modo antiscientifico. Le autorità governative responsabili sono chiamate a perseguire questi truffatori occupazionali antiscientifici per impedire loro di fare cose antiscientifiche e, di conseguenza, antisociali e pericolose. Dal momento in cui un primo tribunale stabilirà i fatti descritti di seguito e condannerà il primo virologo della frode occupazionale, la fine della crisi della corona sarà annunciata e sigillata dal tribunale e la crisi globale del corona si rivelerà un'opportunità per tutti.

https://evokeagents.blogspot.com/2020/12/i-responsabili-della-crisi-del-corona.html

 

Il dr. Scoglio nel suo intervento: Dove sbaglia la Bolgan   https://www.databaseitalia.it/dott-stefano-scoglio-dove-sbaglia-la-bolgan/

  “Forse dovremo seguire l’esempio di Stephan Lanka, e mettere un premio a disposizione di chiunque voglia cimentarsi con la dimostrazione sia dell’isolamento che della patogenicità del fantomatico SARS-Cov2…così vedremo se c’è qualcuno che si farà avanti non con arrampicamenti sugli specchi, ma con prove scientifiche vere, che però sono molto più difficili da produrre dei discorsi…”

 

Speriamo che Lanka possa  finalmente  riuscire in questo suo intento. Non se ne  può più di assistere ad un mondo  devastato,  con il supporto della virologia che continua  sostenere lo spillover o salto di specie, suffragando in questo modo  la farsa  che la spagnola, e i suoi 50 milioni di decessi, sia stata causata dagli uccelli.   


Un caro  saluto.  Paola  Botta  Beltramo




 

 











Alcuni  link  https://www.ingannati.it/2017/09/05/vaccini-anche-fra-complottisti-qualche-scivolone-carpeoro/

 

http://accademiadellaliberta.blogspot.com/2020/10/vaccini-ogm.html

 

http://accademiadellaliberta.blogspot.com/2018/07/vaccini-e-dna-accadde-nel-2017.html

 


 

L'illusione dell'apparenza...



Viviamo in un mondo dove il falso e l’artifizio hanno preso il posto del vero e del semplice. Questo è il meccanismo della “seduzione” -dell’apparenza- che prende il posto del “naturale” -dell’intrinseca verità. “se-ducere” letteralmente significa “condurre a sé” e ciò avviene attraverso una caleidoscopica mascherata che sterilmente si avvicenda nel riflesso degli specchietti. 

Gira e rigira il caleidoscopio e gli specchietti mostrano fugaci composizioni. Un gioco sterile dell’esteriorità. La seduzione è allusione e miraggio, con essa si mostra ciò che l’altro vorrebbe vedere, è semplice barbaglio proiettivo di una immagine costruita a misura per attrarre l’altro. E chi è l’altro? Chi svolge la funzione separativa dell’io e dell’altro? Perché si sente la necessità di appropriarsi della attenzione dell’altro?

La fissità dello specchio, come nella storia di Narciso, è imbroglio erotico spirituale, è fascinazione che conduce alla morte, sebbene lo specchio sia nato per uno scopo magico, lo scopo di vedere “attraverso le forme” riflesse. Ricordate la storia di Don Juan che istruisce Castaneda ad attrarre gli spiriti (l’alleato) attraverso uno specchio immerso nell’acqua corrente?

Lo specchietto per le allodole è un altro eufemismo utile a capire come la fascinazione seduttiva sia una trappola mortale, in cui sia il seduttore che il sedotto giocano a perdersi vicendevolmente. La seduzione insomma è camuffamento, un mescolamento dell’apparente bello e di desiderio mentre la chiara visione, potremmo dire la “chiaroveggenza” è la vera capacità percettiva di scorgere il bello in ciò che è, senza orpelli, senza luminarie, senza zavorra inutile di finzione incipriata. 

Questo il significato di Santa Lucia, la santa della Luce?

Paolo D'Arpini




La domanda essenziale, tra ignoranza e conoscenza...



Esistono due modi di fare domande. Uno di essi non nasce perché non sai, ma perché sai qualcosa: scaturisce dalla tua cosiddetta conoscenza. Hai già la risposta e quindi sollevi la domanda. È così stupido!

Qualunque cosa tu sappia, non la sai per davvero, altrimenti non ci sarebbero domande. In secondo luogo, dal momento che la domanda è nata da una risposta preconcetta, non sei pronto a ricevere una nuova risposta. Con domande del genere è assolutamente inutile, non ti portano da nessuna parte.

Non chiedere mai perché sai qualcosa. Se sai, va benissimo e non c’è alcun bisogno di chiedere. E se non sai, chiedi come se fossi ignorante, come se non sapessi. Se non senti di non sapere, non sarai mai vulnerabile, aperto, ricettivo. E la ricettività è necessaria, altrimenti fai una domanda e non permetti alla risposta di entrare.

Più o meno tutte le domande sono così. Abbiamo già la risposta e cerchiamo una conferma. Non siamo sicuri, perché non sappiamo per davvero, ma abbiamo semplicemente raccolto determinate informazioni. Ora vogliamo che qualcuno ci convinca ulteriormente, qualcuno che sia testimone della nostra conoscenza, in modo da poter sentire: “Sì, ho ragione”.

Questo è assurdo. Se sai, la conoscenza stessa, il fatto stesso di sapere, ti dà fiducia e fornisce una prova di se stessa. Se sai qualcosa, anche se il mondo intero lo nega, non fa alcuna differenza. E allo stesso modo, se non sai nulla e tutto il mondo dice: “Sì, è vero”, anche questo non fa differenza. Conoscere è auto-provante e anche l’ignoranza rivela se stessa.

Quindi non chiedere basandoti sulle tue conoscenze. Se sai, va bene così. Se non sai, sii consapevole di non sapere e chiedi basandoti sulla coscienza della tua ignoranza.

Il secondo modo di fare domande, che è quello autentico, sincero e onesto, proviene sempre dalla sensazione di non sapere. Le tue porte sono aperte e sei pronto a invitare l’ospite. Altrimenti, inviti l’ospite e la tua casa è completamente chiusa e quindi non è un vero invito. 

Se fai un invito, crea lo spazio per l’ospite! Se hai delle risposte già pronte, non hai spazio per ricevere la risposta.

Fare domande è inutile se non c’è lo spazio per ricevere. 

Quando fai una domanda, osserva se c’è lo spazio per ricevere la risposta. Prima crea lo spazio, poi chiedi. Così la domanda non è solo intellettuale, non è solo mentale. Tu sei totalmente coinvolto, è in gioco tutto il tuo essere, il tuo essere totale. Questo è ciò che si intende con “esistenziale”. Ora la domanda arriva dalla tua stessa esistenza, dal tuo essere.

Il primo modo di fare domande è sempre condizionato dagli altri e questo va compreso molto chiaramente. L’ignoranza è tua, ma la tua cosiddetta conoscenza ti è data dagli altri. L’ignoranza è più esistenziale della cosiddetta conoscenza. Se non sai, questo non-sapere è tuo. Ma se dici: “Lo so perché ho letto la Gita. Lo so perché qualcuno da qualche parte ha detto una cosa del genere. Lo so perché Buddha aveva una teoria simile e io ne ho sentito parlare, quindi, lo so”, questa conoscenza non è tua! 

E ricorda, persino la tua ignoranza è più preziosa della conoscenza altrui, almeno è tua, è possibile fare qualcosa. È reale, è esistenziale. 

Con una finzione non si può fare nulla. 

Ciò che è reale può essere trasformato e cambiato, ma con una finzione non puoi fare nulla, con l’immaginazione non puoi fare nulla. La conoscenza immaginata, basata solo sull’informazione, è fittizia, non è esistenziale.

Quindi poni una domanda, indaga su qualcosa, ma attraverso i tuoi sentimenti esistenziali, non attraverso le informazioni mentali accumulate. 

Se chiedi davvero a partire dalla tua ignoranza, la tua domanda sarà universale in un senso e individuale in un altro, perché quando chiedi basandoti sulla tua ignoranza, sollevi una questione che è uguale per tutti. Se chiedi a partire dalla tua conoscenza, la questione sarà diversa. Un hindu non farà mai la stessa domanda di un musulmano; un cristiano non farà mai la stessa domanda di un giainista. La conoscenza di un musulmano è completamente diversa dalla conoscenza di un hindu, ma non esiste l’ignoranza del musulmano o l’ignoranza di un hindu. L’ignoranza è universale, esistenziale, ma la conoscenza si differenzia. La conoscenza musulmana è diversa dalla conoscenza hindu, giainista o cristiana.

 

Se la tua domanda scaturisce dalla tua conoscenza, è inevitabile che provenga dal tuo condizionamento sociale. Quindi non è universale, esistenziale. Quando un musulmano chiede qualcosa, in realtà non è lui che chiede. Chi chiede è ciò che gli è stato imposto, ciò che gli è stato inculcato, ciò per cui è stato condizionato. È quel condizionamento che pone la domanda. 

L’uomo reale è nascosto dietro il musulmano e il musulmano imposto (o l’hindu imposto) fa la domanda. E allora è superficiale e qualunque risposta riceverà non arriverà in profondità, perché la domanda non è nata dalla profondità.

Le domande esistenziali implicano che attraversi tutti gli strati condizionati della tua mente e chiedi in quanto esistenza pura e nuda, non come musulmano, sikh o giainista. Chiedi come se non ti fosse mai stata fornita alcuna risposta prima. Metti da parte tutte le tue risposte. 

E allora la tua domanda sarà individuale in un certo senso, perché è arrivata da te, e sarà contemporaneamente universale, perché ogni volta che una persona entra dentro di sé così profondamente, arriva la stessa domanda.

Quindi sii esistenziale nel chiedere e non chiedere mai a partire dalla tua conoscenza, chiedi in base alla tua ignoranza. Se vuoi trasformazione, mutazione, chiedi in base alla tua ignoranza. Sii consapevole della tua ignoranza. Scava in profondità e trova quelle domande che arrivano dalla tua ignoranza e non dalla tua conoscenza.
 

Tratto da: Osho, The Eternal Quest #12




 






Fonte: Osho Times n. 271

Calcata, un “proto-ecovillaggio” non riconosciuto...


Secondo il mio parere il vivere  in comunità non può essere il risultato di considerazioni aprioristiche. Abbiamo visto infatti innumerevoli esempi nella storia di comunità sorte con la funzione di soddisfare intenti collettivi e che per lo più o si frantumavano o perdevano la spinta iniziale. Magari nel tempo cambiando completamente le finalità. Partendo da questo presupposto, la mia “discesa” a Calcata non fu in conseguenza di un atto deliberato o di una propensione idealistica. Semplicemente avvenne che cercando un nuovo modo di vita comunitario, sotto la spinta delle mie esigenze spirituali ed ecologiste, capitai in questo paesino in corso di definitivo abbandono da parte della popolazione originaria e che era stato addirittura dichiarato inabitabile per ragioni di (presunta) pericolosità sismica. 

Ciò avvenne nei primi anni ’70 del secolo scorso, da poco tornato dai miei primi viaggi in India. A Calcata trovai uno spazio vuoto dalle immense possibilità per rinnovate azioni culturali, abitato da una “comunità” di vecchietti che volevano morire dove erano nati. Questi vecchietti, custodi di un sapere antico e di un rapporto unico con la natura che circonda Calcata, furono i miei maestri per un nuovo – antico vivere nell’ecologia, nel sociale e nella totale semplicità e mancanza di pretenziosità nelle funzioni svolte. Da ciò nacque una successiva aggregazione di amici e parenti che come me sentivano l’esigenza di un “ritorno alle origini” e che trovarono sull’acrocoro di Calcata una nuova e promettente casa. Nel corso dei primi anni da quel primo gruppo di sperimentatori fu portato avanti un laboratorio assolutamente libero da finalità concrete. 


Tutto si svolgeva all’insegna del gioco, dell’innovazione fantasiosa, della ricerca culturale in piena libertà espressiva, nella ricerca di nuovi/vecchi mestieri da praticare con le mani oltre che con la mente. Un riconoscere la capacità di convivere con gli altri animali come componenti della stessa comunità umana (ovviamente non parlo di cani e gatti, ma di capre, pecore, asini, maiali, galline, ecc. ecc.) e del poter vivere fra esseri umani in forme anticonvenzionali. 
Questo meraviglioso esperimento nel vecchio borgo si ampliò e progredì e giunse ad un suo climax. Il culmine avvenne allorchè la comunità, inizialmente di pochi elementi, raggiunse il numero di un centinaio di abitanti, mentre il resto della popolazione calcatese, composta da circa 800 persone, si era definitivamente trasferita in un nuovo centro geograficamente separato. A quel punto soese il problema della inabitabilità delle vecchia Calcata. Non essendoci più residenti autoctoni (i vecchietti erano morti tutti), il rischio che il paese potesse subire la demolizione prevista nella legge sulla pericolosità sismica, divenne più tangibile. 
A quel punto fummo costretti a tentare la via istituzionale per modificare la suddetta legge. A quel tempo le mie amicizie politiche e giornalistiche erano consistenti e solide e non fu difficile far presentare una legge specifica di riqualificazione del vecchio borgo da parte di consiglieri regionali del Lazio. Purtroppo, salvata “istituzionalmente” la rupe e quindi restituito un valore reale agli immobili e quindi riportato il contesto comunitario all’interno di un contesto di economia utilitaristica, il destino di Calcata mutò irreversibilmente. Da libero e giocoso esperimento per un nuovo vivere libero dal limite dell’utile, divenne un “meccanismo” per la sopravvivenza di chi operava in una qualsiasi attività a quel punto divenuta remunerativa. Insomma, da emanatore di luce propria, il paese divenne uno specchietto per le allodole. Da teatro di strada a teatrino. 
Certo, non tutto è andato perduto: alcuni elementi hanno tenuto fede allo spirito originario continuando nella sperimentazione e nella “resistenza”, pur relegati in una sorta di esilio interno. Io ebbi la fortuna, dopo 35 anni, di poter lasciare Calcata, senza una ragione, ovvero, non per fuga da una situazione che lasciavo, bensì perchè attirato nel vortice di un nuovo inizio, intriso d’amore.
Paolo D'Arpini









"Chi è chi?", ovvero: "Chi fa la parte di chi fa la parte?" (Seconda parte di una non-intervista)

Cari amici quella che segue è la trascrizione di uno stralcio di una "non-intervista" per interposta persona che è andata in onda il 14 ottobre 2008 su Radio Brussellando, l'emittente multilingue della Comunità Europea, emessa nell'etere a Bruxelles. La storia di questa non-intervista è alquanto complicata da raccontare, nasce tutto dall'idea di uno scherzo radiofonico alla Orson Wells... Nel giorno in cui erano attesi gli extraterresti ecco che qualcuno per un'ora ha recitato la parte di qualcun altro, un "chi è chi" complicato sul personaggio "Paolo D'Arpini".

All'epoca della non-intervista nel giardino del Circolo VV.TT. di Calcata


Ecco, per cominciare, una lettera introduttiva  di Mari D.

"Le persone coinvolte sono Mari D e Massimiliano Bonne. In regia Dani M. In radio  Mari D.  (e non Marilena, le due immagini corrispondono ma non i loro spiriti... sono due anime che appartengono alla stessa persona ma in qualche modo differiscono... l'una è proiezione dell'altra, l'altra trova in essa conforto, a volte scontro spesso anche ribellione... convivono in un sottile equilibrio di momenti ora colorati, ora tristi, ora intensi, ora folli o irosi... ebbene si, s'alimentano anche di sentimenti di cui spesso si tende a dimenticare, come l'ira non "funesta", ma creativa... fonte di analisi e riflessione). Potremmo coordinarci e presentare il materiale in contemporanea sul sito della radio e il tuo. Che ne dici? Poi io e Massimiliano (il poeta che ti ha interpretato alla radio) ti telefoniamo insieme. Così vi conoscete almeno telefonicamente. Ho evitato di farlo prima per rendere la recita più credibile. Ho preferito che tu andassi in onda quando il mio collega in radio, Georges Laurand non era con noi, per avviare un dialogo a due voci, il più vicino possibile alla tua intervista...".
Mari D


Stralcio dell'ntervista a Paolo D'Arpini 1. Raccontaci di te Giusto oggi scrivevo ad un'amica spiegandole "..lavoro per un mezzo sderenato che si chiama Paolo D'Arpini, lo conosci?". In verità identificarsi con uno specifico nome forma non corrisponde assolutamente al vero ed inoltre se ci si identifica con la "persona" non si può fare a meno di assumerne i pregi ed i difetti, di accogliere le sue sfumature e macchie, ma siamo noi Arlecchino e Pulcinella? Per questo dicevo che "io" (in quanto coscienza) lavoro per quel personaggio "Paolo D'Arpini" il quale solo attraverso la mia osservazione consapevole può manifestarsi e compiere le nefandezze a cui è avvezzo. Allo stesso tempo gli voglio bene come voglio bene a chiunque mi si presenti davanti, che entra nella mia sfera cosciente. 2. Questa è realizzazione? L'esperienza dello stato ultimo, della coscienza libera da identificazione, è esposta in varie scuole spirituali come: Satori, Spirito Santo, Samadhi, Shaktipat, etc. Di solito si intende che questa "esperienza" del Sé sia conseguente ad una particolare condizione di apertura in cui la "grazia" può manifestarsi ed impartire la conoscenza di quel che sempre siamo stati e sempre saremo. Purtroppo dovuto all'accumulo di tendenze mentali "vasana" non sempre l'esperienza vissuta si stabilizza in permanente realizzazione. Il risveglio quindi non corrisponde alla realizzazione (oppure solo in rari casi di piena maturità spirituale). E qui ci troviamo di fronte ad un paradosso, da un lato c'è la consapevolezza inequivocabile dello stato ultimo che non può mai più essere cancellata, dall'altro un oscuramento parziale di tale verità in seguito all'attività residua delle vasana che continuano ad operare nella mente del cercatore... 3."Può la conoscenza essere persa una volta che è stata ottenuta?" "La conoscenza una volta rivelata prende tempo per stabilizzarsi. Il Sé è certamente all'interno dell'esperienza diretta di ognuno, ma non come uno può immaginare, è semplicemente quello che è. Questa "esperienza" è chiamata samadhi. Ma dovuto alla fluttuazione delle vasana, la conoscenza richiede pratica per stabilirsi perpetuamente. La conoscenza impermanente non può impedire la rinascita. Quindi il lavoro del cercatore consiste nell'annichilazione delle vasana. E' vero che in prossimità di un santo realizzato le vasana cessano di essere attive, la mente diventa quieta e sopravviene il samadhi. In questo modo il cercatore ottiene una corretta esperienza alla presenza del maestro. Per mantenere stabilmente questa esperienza un ulteriore sforzo è necessario. Infine egli conoscerà la sua vera natura anche nel mezzo della vita di tutti i giorni. C'è uno stato che sta oltre il nostro sforzo o la mancanza di sforzo ma finché esso non viene realizzato lo sforzo è necessario. Ma una volta assaggiata la "gioia del Sé" il cercatore non potrà fare a meno di rivolgersi a questa ripetutamente cercando di riconquistarla. Una volta sperimentata la gioia della pace nessuno vorrà indirizzarsi verso qualche altra ricerca" I belong to everyone No one can own me The whole world is my home All are my family (Neem Karoli Baba)
Con l'ultima compagna di vita: Caterina Regazzi

7. Paolo e le sue donne Ho sempre amato le donne da quando son nato, cominciando ovviamente da mia madre, poi le ho amate come sorelle (ne ho due) poi le ho amate come amiche (a scuola e nella vita in generale) e finalmente le amate come amanti e da esse ho avuto anche diversi figli, che senza dubbio amo. Insomma il mio amore per le donne è totale, infatti amo anche la Shakti, l'energia divina o Madre Divina che tutti ci compenetra (maschi e femmine), tant'è che una volta a Viterbo un amico ateo un po' misogino, mi definì "adoratore di Kali", quando io gli parlavo di spiritualità laica, pensando così di offendermi in modo "bestiale"... io gli risposi con una bestemmia ma l'accusa di essere un seguace di Kali non la rinnegai, anzi mi fece piacere, anche perché è la verità! 8. Libertà di amare e di essere amati La coppia monogamica che noi conosciamo non è un riscontro dell'amore o perlomeno non lo è nel modo in cui essa viene oggi vissuta. E qui dobbiamo iniziare un percorso per capire cos'è il libero amore ed in quali modi esso si manifesta. Cominciamo ad esaminare la propensione evolutiva che dall'inizio della specie spinse le donne in età feconda spontaneamente e liberamente ad unirsi con quei maschi che ritenevano più idonei alla sopravvivenza, tali maschi erano molto probabilmente i più intelligenti, cioè quelli che mostravano di possedere un patrimonio di conoscenze ed una maggiore adattabilità all'ambiente ed alle condizioni sociali, in grado di far progredire la specie. Mai un maschio sceglieva una donna se non contemporaneamente all'accettazione di lei. La selezione, sino a circa cinquemila anni fa (siamo in pieno periodo matrista) veniva sempre sancita dalle femmine ed è per questo che l'umanità ha mantenuto una costante spinta evolutiva, lenta ma consona alla propagazione sul pianeta. Questa qualità "elettiva" è stata una risposta evolutiva nonché afflato emozionale endemico. Forse con l'avvento dell'allevamento e dell'agricoltura (e del surplus produttivo conseguente) pian piano questo approccio fra i sessi fu corrotto dal modello utilitaristico e possessivo patriarcale in cui alcuni maschi furono in grado di "acquistare" una femmina (matrimonio) per fini riproduttivi. Questa tendenza divenne sempre più forte con l'affermazione delle religioni monoteiste che sancirono la sudditanza femminile in forma definitiva e la consuetudine del matrimonio divenne una regola sociale obbligatoria. Da quel momento scomparve -o quasi- l'amore ed apparve la prostituzione e la "infedeltà". Ma cosa vuol dire prostituzione? Non è forse una forma di "matrimonio" limitato ad un breve lasso di tempo per la mera soddisfazione sessuale? E cos'è l'infedeltà se non la spontanea aggiustatura, lo sfogo, per un rapporto coniugale obbligato? Insomma la conseguenza dello sposalizio sancito per legge. E ove si manifestano prostituzione ed infedeltà vuol dire che l'amore non è più sincero e schietto ma solo una comoda formula sociale ed economica, insomma un commercio... un gioco di potere. Il libero amore è la riscoperta della piena libertà espressiva è quindi la sola riposta alla condizione corrente in cui l'anormalità è diventata norma. Ma il libero amore presuppone il rapporto fra persone libere, un rapporto non preconfezionato, né legato ad interessi altri se non l'amore stesso quindi non può esser mercenario in alcuna forma, né -ovviamente- il risultato di prevaricazione o plagio fisico o psichico. Libero amore è l'incontro fra esseri umani consenzienti che durante un percorso di vita scelgono spontaneamente di sostenersi reciprocamente e condividere esistenza intelligenza e sessualità. *------------------------------------------* Ringrazio Danielita per avermi presentato Mari D. che ringrazio per aver creduto in questa intervista non intervista. Ringrazio Massimiliano per essersi prestato al gioco di interpretarmi e ringrazio lo staff di Brussellando. Ciao a tutti, Paolo D'Arpini


P.S. Leggete la prima parte della storia su: https://riciclaggiodellamemoria.blogspot.com/2020/12/chi-fa-la-parte-di-quello-che-fa-la.html

Per chi volesse ascoltare il parlato integrale della non intervista è possibile collegandosi sul podcast: http://radioalma.blogspot.com/2008/10/brussellando-del-14-ottobre-2008.html

“Chi fa la parte di quello che fa la parte?” – Cronistoria di una intervista radiofonica “ad personam” di un vivo-morto… (prima parte)



Essere degli attori in questa vita, in cui noi tutti siamo personaggi più o meno consapevoli  in una commedia, è già una bella prova. Ma chi non ha avuto la curiosità di sentire o vedere come la nostra recitazione è stata percepita dagli altri attori protagonisti? Quante volte ci siamo soffermati nel pensiero “vorrei vedere dopo che son morto come questo o quello si comporta…” o “come  è stato giudicato il mio operato, chissà se quando quello o quella mi parlava  era sincero o no?”. Queste ed altre domande appaiono nella mente di ognuno, è chiaro che queste sono speculazioni in cui si presuppone che gli altri personaggi del sogno possano avere intendimenti “propri” diversi dal solo ed unico sognatore ma è indubbio che dal punto di vista dell’io individuale questa curiosità viene percepita,   magari  sperando di poter ottenere una risposta coerente    da un ipotetico aldilà… 


Questo interrogativo non è solo il racconto della trama di “Wang Tzi raggiunge il grande Tao” (di cui leggerete più sotto), è anche il resoconto di uno “scherzo” reale compiuto  martedì 14 ottobre 2008 a Radio Brussellando di  Bruxelles.


In quel giorno ci si aspettava da più parti la discesa degli extraterrestri, che vari medium e veggenti avevano pronosticato. Il destino ha voluto che un extraterrestre apparisse, almeno nell’etere radiofonico di Radio Brussellando,  e  -non volendo-  ha così confermato la “veggenza” di un’aliena apparizione su questa terra.  Negli “studios” radiofonici c’è stata quella reminescenza-intervista  virtuale che ha reso possibile l’impossibile.


Un vivo che interpreta un altro vivo (ma dato per morto) per interposta persona. Un poeta chiamato Max che fa la parte di un ipotetico altro Max. Ma non è lui né l’altro. Insomma per capirci… dovete sapere che in gioventù mi facevo chiamare Max e quel Max, che ora è diventato Paolo, era curioso di sapere chi  e come la sua presenza su questa terra fosse stata percepita. Così è stato organizzato un bello scherzo alla Orson Well in cui un  vero Max  ha interpretato la parte del finto Max, ovvero di Paolo, spacciandosi per lui in un’intervista radiofonica di un’ora. Raccontando la sua vita, esprimendo emozioni, raccogliendo commenti, diffondendo nell’etere il profumo di una verità finta, di una finzione vera.


La trasmissione è stata curata da Marilena D.,  su mia diabolica istigazione, ed è stata una ottima pensata per immaginare il morto che osserva il vivo, oppure per scoprire il vivo che rigurgita  il morto….  Forse non avete capito granché di quello che vi sto dicendo… allora vi consiglio di richiedermi in replay il CD che attendo da  Marilena,  ovvero la registrazione della trasmissione “Incontro radiofonico con Max Paolo D’Arpini” di cui leggerete qualcosa   nella corrispondenza intercorsa che segue.



Mail  del 15 ottobre 2008 da  Paolo a Marilena:

 “Cara Marilena, ti chiami come la più amata donna del mondo, Marylin, ed evidentemente meriti il nome.  Ho ascoltato la tua telefonata un po’ emozionata ed impacciata, però la tua voce mi è sembrata soddisfatta e orgogliosa dell’opera compiuta, sia pur nella modestia espressiva. Bene!

Sai,  nella  recita teatrale che stiamo per mettere in scena “Wang Tzi raggiunge il grande Tao” si narra la storia del saggio Wang discepolo di Lao Tzi, che avendo avuto una diatriba con la moglie sulla ipotetica fedeltà delle donne (in caso di vedovanza) e volendo mettere alla prova quanto da lei affermato “che non si sarebbe mai più sposata per tutta la vita”, con i suoi poteri psichici simulò una morte fisica, il suo cadavere –come era consuetudine in  Cina per i nobili ed i maestri- venne conservato nella casa in un feretro per parecchi giorni di veglia. Nel frattempo lo spirito di Wang, sempre con l’aiuto dei suoi poteri, prende la forma di un bellissimo giovane che si presenta con un vecchio servo (che era sempre lui stesso) nella casa dove la vedova piange il morto…

Dopo pochi giorni, anche per il mefistofelico approccio del servo che fa da mediatore tentatore, la vedova si innamora del giovane e malgrado  il cadavere di Wang sia ancora in casa decide di sposarlo… senza ulteriori indugi.  Mentre stanno per accoppiarsi, ecco che il giovane ha un colpo apoplettico, il servo dice alla vedova che l’unica cura è quella di fargli mangiare il cervello di un uomo morto da pochi giorni (con del vino caldo), la vedova ormai presa dalla passione per il giovane che sembra in procinto di morire non esita a cercare di scervellare il defunto marito con un ascia   ma proprio mentre si accinge a farlo.. ecco che Wang Tzi si risveglia,   svergognando così la donna infedele…  Insomma ti ho raccontato tutta questa storia per farti capire la sensazione di sentirmi  “interpretato” da vivo-morto, attraverso la recitazione di Max. Ringrazialo da parte mia e bacialo in fronte, già che ci sei dai un bacio sulla guancia anche a Danielita per te invece è riservato un bacio dal “vivo” all’occasione favorevole… Ciao carina, Paolo  

 

Lettera  del 15 ottobre da Marilena a Paolo

Caro Paolo, sì ero molto emozionata… perché la puntata è stata emozionante… erano le 22h04 e avevamo appena terminato… Ho cercato di trasmetterti al telefono le mie sensazioni più immediate piuttosto che riportartele più tardi (oggi) magari dal vivo. Al massimo entro sabato ti invio il Cd. Saluti anche da Max… che conosce Calcata molto bene. Magari riuscirete anche ad incontrarvi… Restiamo comunque in contatto… O.K? Un caro saluto. Mari. D.


 Ma a queste punto vi chiederete: perché svelare questa parte dell’arcano dopo il  mistero iniziale, cos’è sta manfrina?Beh non potevo mica mandare inosservata  questa notizia così giornalisticamente divertente, ognuno è fatto a modo suo e voi mi conoscete bene…

Ciao, Paolo D’Arpini



8 dicembre - Celebrazione dell'Energia Primordiale identificata nella Madre Universale


"Cammino accecato verso la luce
e cerco di raggiungere la sua mano
Non chiedere nulla
e non cercare di capire
Apri la mente e
apri il tuo cuore
vedrai che io e te
non siamo distanti l'uno dall'altra
perché io credo
che l'amore é la risposta
Io credo
che l'amore mostrerà il cammino"

La tradizione vuole che a partire dall'8 dicembre,  festa dell’Immacolata Concezione di Maria,  si dia inizio ad una serie di celebrazioni. Ovviamente si parla della Energia primordiale che è stata identificata nelle varie religioni in forme femminili: Parvati, Lakshmi, Iside, Giunone, Gea, Proserpina... e Maria.  Ma si tratta sempre di Lei: la Madre Universale.  Queste celebrazioni culminano con il festeggiamento del solstizio invernale, che nella tradizione cristiana è fatto combaciare con la nascita di Gesù.  


Ma facciamo un excursus sulle festività che ricorrono in questi giorni, la prima è appunto quella dell'Immacolata Concezione, simbolo dell'eterna purezza e freschezza con cui Madre Natura crea e da forma allo spirito attraverso la manifestazione della vita.  C'è poi  il trasporto della casa materna di Maria,  da Nazareth a Loreto,  trasportata da uno stuolo d'angeli in volo a certificare la presenza sul suolo italico della divina madre, questo avviene la notte  tra il 9 ed il 10 dicembre. 

Sulla storia della Madonna Nera  ci sono comunque varie versioni, tanto per cominciare si identifica  questa immagine ad una  forma di Iside, ove soprattutto nelle Marche risultavano esservi parecchi templi a lei dedicati. Il nome stesso di Treia  è derivante dalla dea Trea, un appellativo di Iside. Il culto della "Grande Madre"  è a Treia molto antico... Ai lati di un chiesa, ora tenuta da frati Francescani, che sorge sopra l'antico tempio di Iside sono state ritrovate diverse immagini della Dea  ed ex voto, ed in una chiesa di suore risalente al 1200 circa è tutt'ora conservata una immagine lignea della Madonna Nera, che si dice più antica di quella di Loreto.    

Viene poi il 13 dicembre  con i festeggiamenti per Santa Lucia, protettrice dell’intelligenza umana. Questa santa simboleggia la rinuncia a fissare la propia attenzione sulle cose "oscure" del mondo concentrandosi invece sulle cose "celesti". Le cose oscure sono l'apparenza e la vanità mentre le cose celesti sono la verità e l'amore.

E qui vorrei inserire un importante aspetto di questa capacità della Madre di illuminare il percorso spirituale.  La Madre è chiamata Maya quando illude le creature e prende il nome di Vidya quando invece trasmette loro la Conoscenza Suprema.  Sta a noi scegliere quale di queste due forme adorare e privilegiare. Nella storia dell'uomo -e non solo oggi-  ci sono stati momenti in cui prevalgono nel  mondo il falso e l'artifizio. Questo è il meccanismo della "seduzione" -dell'illusione  o dell'apparenza- che oscura il "naturale" dell'intrinseca verità....

"Se-ducere" letteralmente significa  "attirare a sé" (all'ego) e ciò avviene attraverso una caleidoscopica mascherata che sterilmente si avvicenda nel riflesso degli specchietti. Gira e rigira il caleidoscopio e gli specchietti mostrano fugaci composizioni. Un gioco sterile dell'esteriorità. La seduzione è allusione e miraggio, con essa si mostra ciò che l'altro vorrebbe vedere, è semplice barbaglio proiettivo di una immagine costruita a misura per attrarre l'altro. E chi è l'altro? Chi svolge la funzione separativa dell'io e dell'altro? Perché si sente la necessità di appropriarsi della attenzione dell'altro?

La fissità dello specchio, come nella storia di Narciso, è imbroglio erotico spacciato per amore della bellezza, è fascinazione che conduce alla morte, sebbene lo specchio sia nato per uno scopo magico, lo scopo di vedere "attraverso le forme" riflesse. Ricordate la storia di Don Juan che istruisce Castaneda ad attrarre gli spiriti (l'alleato) attraverso uno specchio immerso nell'acqua corrente?

Lo specchietto per le allodole è un altro eufemismo utile a capire come la fascinazione seduttiva sia una trappola mortale, in cui sia il seduttore che il sedotto giocano a perdersi vicendevolmente. La seduzione insomma è camuffamento, un mescolamento dell'apparente bello e di desiderio mentre la chiara visione, potremmo dire la "chiaroveggenza" è la vera capacità percettiva di scorgere il bello in ciò che è, senza orpelli, senza luminarie, senza zavorra inutile di finzione incipriata. Questo il significato di Santa Lucia, la santa della Luce.

Poi giunge  il 21 dicembre, giorno del Solstizio d’inverno. Il Natalis Sol Invictus. Con il cristianesimo questa simbologia viene spostata alla notte del  24 dicembre, e rappresenta  il momento della vittoria della luce sulle tenebre. Il  Sole Invitto è l'attesa di ogni uomo, che ripete l'attesa del cosmo, dall'alba al tramonto e dal tramonto all'alba, senza fine. In un eterno ritorno.  periodo temporale fu pure scelto da tutte le civilizzazioni le cui religioni furono fondate sulle leggi della natura. La festa della nascita del Sole la più grande di tutte perché rappresenta l'inizio di una nuova era. Non solo la fine di un ciclo, ma la formazione di uno nuovo.

Cicli che ogni cercatore sperimenta nella propria evoluzione, attraverso il mondo dello spirito, come una grande ora per la libertà dell'anima.

Paolo D'Arpini




Il popolo di Diego Armando Maradona... oltre lo sport

 


La morte genera la vita: la scomparsa di Diego Armando Maradona ha generato una nazione composta di individui che altrimenti mai si sarebbero trovati insieme a piangerlo, a sentirne il vuoto, ad eleggerne il mito.


C’è un popolo che non sapeva di essere una nazione finché Diego Maradona non ha lasciato il corpo, la terra, la storia. È bastato un istante per radunare quelle genti eterogenee che mai avrebbero sospettato di potersi unire in un abbraccio necessario, sentito e voluto. Un gesto di concreta congiunzione, richiesto da quell’insorto senso di solitudine in cui Diego li aveva inattesamente lasciati. Quel popolo si è istantaneamente radunato in pianto, si è fermato, si è ritrovato in commossa preghiera. Quel popolo stava dimostrando la realtà immateriale dello spirito. Un istante dopo l’intimo cedimento, tutti i suoi individui si sono avvertiti corpo unico nella risonante celebrazione, nella simbolica santificazione, nell’elezione a suffragio universale, di uno come noi, a mito. Ed è accaduto senza diffusa, sconsiderata idolatria. Come se tutti fossero emancipati nei confronti del culto della personalità. Come se sapessero pienamente che non era Diego l’artefice di quanto li aveva ammaliati. Ma che, semplicemente, in lui si erano raccolte in un solo punto di forza tutte le invisibili linee della sorte necessarie all’eureka del genio del campo, mentre erano andate disperdendosi, più disodinatamente che in altri, quelle che le consuetudini sociali apprezzano ed ammirano.

Fa più notizia l’addio a un uomo poco apprezzabile piuttosto che l’addio a tante donne violentate”. Frase evitabile? «La Pausini forse non sa che Maradona è stato molto di più del miglior calciatore della storia. Diego è un fatto sociale, è il riscatto dei poveri e degli ultimi. Se un’artista non se ne rende conto forse non capisce nemmeno dove vive».

Ci racconta il “suo” Maradona? «Ho avuto la fortuna di giocarci contro e di conoscerlo fuori dal campo. A me non frega niente del privato delle persone. Mi ha stregato da giocatore e mi ha emozionato come uomo. Diego trattava tutti allo stesso modo: presidenti, compagni di squadra, magazzinieri, massaggiatori, dirigenti, tifosi. Era unico». Da: https://www.corrieredellosport.it/news/calcio/serie-a/roma/2020/11/29-76903403/nela_maradona_uomo_del_popolo_roma_da_vertice_


Quella moltitudine eterogenea che lo spirito di Maradona ha coagulato in organismo comune non è composta solo dai compagni di squadra, da chi gli ha giocato contro, né da chi ha lo ha preso a modello ancora al tempo dei respiri e dei tacchetti. Vi si trova anche il giudice che lo ha condannato per frode fiscale e così i suoi colleghi di toga che, per altre colpe storiche commesse dal caro estinto, piangono, insieme ai mafiosi coi quali faceva spensierata baldoria, come il resto del suo – lo si può dire – popolo. Si avverte il senso caldo nel magistrato e nel picciotto, per averlo conosciuto, per averci parlato. Loro, stroncatori di vite per mestiere, compiono insieme il salto della storia per abbeverare il proprio spirito da una fonte pura. Quantomeno, non così corrotta da quelle comuni.

Il 25 novembre 2020, insieme al corpo sono svaniti i suoi eccessi accettabili e quelli deprecabili, (per andarci leggeri). Tuttavia, per una catarsi intellettualmente prevedibile ma comunque carnalmente sorprendente, non se ne è andato il suo sentimento. O meglio, per una trasmutazione magica come le sue giocate, è vivido in quegli uomini e in quelle donne per i quali Diego – contestualmente alla notizia della sua morte – ha rappresentato una sorta di purezza elevatrice dalle pesantezze della vita di tutti e a maggior ragione dei semplici. E lo ha fatto senza elevarsi su scranni e balconi, lo ha fatto vivendo senza il peccato della debolezza e della meschinità. Senza nascondersi, senza viltà. Con coraggio. Cioè con una modalità che affascina quel popolo così grande da comprendere tutti.

Quel giorno, passando l’ultima soglia, lo spazio lo licenziava dalla vita materiale e, contemporaneamente, il tempo lo accoglieva in quella mitica. Vive ora, possibilmente più di prima, nel regno mondato dalle debolezze, ovvero dalle premesse del cosiddetto lato peggiore dell’essere umano. La purificazione è stata istantanea. Già prima, c’era nei suoi confronti un’indulgenza piuttosto rara. Una diffusa disponibilità a chiudere un occhio sull’uomo affinché l’altro, fissato sul genio del calcio, non si perdesse una sola occasione per toccare la bellezza. La condiscendenza, un privilegio riservato a chi è una dimostrazione di se stesso più che ai bacchettoni che dimostrano saperi e morali. Un beneficio che non gli ha mai fatto credere d’essere superiore agli altri, che non gli ha dato diritto di arroganze e pretese. Che lo ha fatto comportare come un capitano altro dai suoi compagni. Senza lamento e senza vittimismo, ha pagato tutto e se non è tutto, tutto avrebbe pagato se qualcuno gli avesse presentato i conti ancora in sospeso. A volte, è sembrato che certe vicende amare siano state per lui un’endovena di intrugli guerrieri. La sua indipendenza non è mai venuta meno e così la sua spontaneità. Così, per amore e orgoglio ha messo la faccia e con essa, il suo inconsapevole peso politico, in vicende che normalmente intimano ai deboli di stare lontani. Come la vicenda delle Malvine e il diritto all’impiego della mano de dios per umiliare a sua volta, quasi lui da solo, gli inglesi e con loro i britannici; come l’abbraccio a Fidel Castro che era contemporaneamente un dissenso alle politiche estere degli Stati Uniti. O più semplicemente, a carriera giocata esaurita, partecipando sempre alle partite internazionali di beneficienza.

Portava la maglietta del Che e ora altri portano quella con il suo volto. Spesso è modificato affinché qualcuno ci veda il Che e altri vedano l’astro del calcio. Ma non è per inganno. È una celebrazione disegnata, simbolica, in nome della sua solidarietà con gli ultimi, quelli per cui Fidel e il Che hanno fatto del loro meglio. Che dalle t-shirt escano gli sguardi di Ernesto Guevara o di Diego Armando, una volta osservati e socchiusi gli occhi, entrambi ci mostrano il senso della libertà e la ragione per la quale possono sovrapporsi, mimetizzarsi dentro un solo volto. E per conoscere quella sensazione, forte come una scossa, leggera come una speranza, non serve studiare. Basta il nostro sentimento per giustificare che di verità si tratta, per giurare che sappiamo di cosa stiamo parlando. Di cosa serve all’uomo.

In tutti noi la dimensione razionale si afferma nell’infanzia. A volte si rinforza così tanto che, come un’aliena mano di Giger rinchiude l’infinito che siamo in poche norme socio-morali. Ci prende allora una patologia che ci estranea dalle doti profonde e potenti che abbiamo. Da creatori, ci riduciamo a esecutori. Ci riduciamo a credere che la realtà esista davvero al pari di un luogo dalle strade già tracciate. Un territorio mentale, in cui il solo obbligo e impegno per vantare autostima è seguirle. Per altri e per Diego emancipati nei confronti del canale amministrativo della vita, per quelli che si sono difesi da quella mano avvolgente, la vita è un campo dove ricamare arte. Forse è in questo il magnete al quale quel popolo si rivolge come segatura di ferro. Un punto di ammirazione per noi comuni e di non semplice gestione per chi lo rappresenta. Il degrado cocainico e il colonnello Kurz (Apocalypse Now) ce lo dicono.

[Prima che la ragione avvenga a dominare l’eros e la vis siamo nel pieno dell’attuazione della potenza. Senza rischio di scoraggiamento realizziamo forse la cosa più complessa dell’esistenza, imparare a camminare. In quel periodo nessun ostacolo costituisce un impedimento. Così accadrà ancora per qualche tempo, in cui una scopa è davvero un cavallo e una fiaba la formula magica per volare. Quell’età, in ambiente motorio e psicologico viene definita condizione psicomotoria. È un periodo della vita in cui nessuna mediazione interviene tra intenzione e azione, nessuna separazione tra pensiero e realtà. Psicomotorio è quel comportamento che rivela sempre la nostra intima condizione sentimentale. È una caratteristica delle emozioni che, anche negli adulti, si rivelano sempre attraverso le espressioni del corpo. È quell’abbraccio che saltando sul posto non esiti a rivolgere allo sconosciuto vicino di gradinata quando la tua squadra segna.] Superata l’infanzia si inizia a calcolare cosa fare e dire, si avviano le doti strategiche per ottenere lo scopo per le quali vengono messe in campo. È quello il bimbo che abbiamo visto in Diego più di quanto non si veda nella media delle persone. È lì che abbiamo sentito il fascino e il richiamo subliminale, che ci ha permesso di identificarci con lui nella spuma della vita, quella che così tanto la cultura ha castrato. Un meccanismo di identificazione che nulla ha di diverso da quello che accade al cospetto di certe pubblicità dove le caratteristiche del prodotto neppure appaiono nei titoli di coda, dove tutto è organizzato con un solo unico fine: emozionare. Infatti, alla faccia dei razionalisti, è sugli eterei ponti quantici delle emozioni che passano le comunicazioni. Non certo su quelli strutturati e presuntuosamente ritenuti perfetti e solidi della razionalità e della logica. Questi servono solo la superficie di noi stessi, quella dove si depositano i saperi cognitivi. In profondità, nel regno di ciò che è collettivo, sussistono altri ordini, assai più utili per comprendere gli uomini.

[Tutti noi, con sede neurale nella corteccia cerebrale, organizziamo il controllo neuromotorio, indispensabile coordinazione per tutti i gesti quotidiani e non solo. Tutti noi siamo soggetti ad automatismi neuro-motori che ci permettono di compiere gesti che, se pensati o scomposti in segmenti non saremmo capaci di creare o replicare a creazione avvenuta. Dunque, per l’apprendista pensare come eseguire per esempio una curva con gli sci o un palleggio con i piedi frena invece che accelerare la ri-creazione del gesto desiderato. Riducendolo alla sua struttura ritmica, per poi seguirla durante l’esecuzione del gesto in questione – come si fa ballando – si avvia l’affermazione di quei processi neuromotori chiamati automatismi sottocorticali. Circuiti privi di uno scheletro razionale, che permettono esecuzioni, personalizzazioni, prestazioni altrimenti impossibili. Chi più è estraneo a relazionarsi al mondo con atteggiamento di controllo e distanza, più si allontana dalla propria creatività naturale e da se stesso. Cioè dalla linea genetica del suo successo nella vita.]

Ma l’ego di Diego è una formuletta facile e anche rappresentativa, ma sostanzialmente fuorviante. Per riconoscere il quid che ha fatto esclamare come un solo intonato canto di vuoto la sua nazione, è necessario non vedere cosa ha fatto in campo ma come ha potuto farlo.

Diego Armando Maradona era un esponente di quello che si intende per destrutturato. Una modalità di espressione che pone il suo punto di attenzione non sui particolari ma sull’insieme. Una modalità tutt’altro che razionale, spesso definita magica in quanto in grado di relazionarsi al tutto, in grado di sentire le energie del campo, di vederne le forze, quindi di essere preveggente. Come altrimenti interpretare molte sue giocate dove gli avversari sembrano recitare una parte della scena, piuttosto che apparire determinati ad impedire l’azione del 10 argentino.

Contrariamente all’idea lombrosiana, la sua struttura brevilinea celava un’intelligenza motoria immacolata. Una sorta di monolite puro totalmente adatto ad avvertire la realtà del campo di calcio in forma energetica, vibratoria. La sua azione poteva essere rappresentata da una sua relazione con il tutto nel quale si muoveva. Ragionamenti e idee, intenzioni e pretese erano per lui impedimenti alla percezione fine del mondo. Così coglieva il tempo per allungare la palla, coglieva su che piede poggiava il peso del difensore per scegliere la parte dalla quale superarlo, sentiva lo spazio libero e l’accorsa dei terzini. Vedeva la porta e aveva un pibe de oro.

La sua missione si compiva e la sua vita vibrante si è compiuta. Ne resta un fatto magico per molti, inspiegabile ma palpabile. È questo che vive e pulserà nel corpo della nazione di Diego.

Quel popolo non inseguiva l’ego di Diego ma lo spirito di libertà che lo ha attraversato.

Lorenzo Merlo





La filosofia della scienza di Joules-Henri Poincarè

 


Il grande matematico e fisico francese Joules-Henri Poincarè (1824-1912), professore di fisica matematica e calcolo probabilistico e accademico di Francia, fu uno studioso versatile i cui interessi riguardarono vari campi(1)(2)(3)(4). Un primo settore fu quello dell’algebra e delle equazioni differenziali, equazioni molto adatte ad interpretare fenomeni fisici ed usate già dai tempi di Newton. In questo settore mise a punto – sulla scia di Abel ed Hermite e delle funzioni ellittiche (v. N. 86) - un tipo di funzioni dette “automorfe” atte a risolvere equazioni differenziali di tipo molto generale. Sotto l’influenza dell’opera di Michel Chasles – la Geometria Superiore” – non trascurò nemmeno gli studi di geometria in cui adottava sia il metodo analitico (analisi matematica e metodi algebrici), sia quello grafico basato sull’immaginazione spaziale, lasciando alla logica il compito della dimostrazione. Divenne, così, uno dei più importanti esperti di Topologia (la scienza che studia la continuità e le proprietà delle forme geometriche e le loro trasformazioni) di cui già si erano interessati Riemann e Felix Klein (N. 86) con cui fu in proficuo contatto epistolare. Ben nota è la sua “congettura” (cioè affermazione non dimostrata) del 1904 secondo cui qualsiasi superficie finita a “n” dimensioni che non abbia “buchi e bordi” può essere trasformato in una sfera. Questa congettura è stata dimostrata solo negli anni 2000 da un geniale ed originale matematico russo – Perelman – che ha rifiutato il premio di un milione di dollari offerto dal milionario Clay per la sua risoluzione.

Poincarè aveva raggiunto una grande fama già nel 1889 quando aveva risolto il noto Problema dei tre Corpi, vincendo il primo premio in un concorso sull’argomento messo in palio dal Re di Svezia Oscar II. Il problema era già stato affrontato da Laplace, ma con eccessive semplificazioni che ne mettevano in dubbio il risultato finale. La soluzione aveva una grande importanza per verificare la stabilità del Sistema Solare, in quanto riguardava le traiettorie di tre astri i cui moti si influenzino a vicenda a causa delle forze gravitazionali. Poincarè dedusse che non vi era pericolo imminente di instabilità anche se le traiettorie potevano oscillare erraticamente intorno ad un punto di equilibrio (situazione definita di “caos deterministico”) con possibilità di instabilità in un futuro lontano.

Nel campo della fisica, ed in particolare dell’elettrodinamica, Poincarè si impose come uno dei fondatori della Teoria della Relatività Ristretta (o “Speciale”) insieme allo stesso Einstein ed al grande fisico olandese Hendrik Lorentz (1853-1928). In un precedente articolo abbiamo visto come il grande fisico olandese già nel 1892 aveva elaborato delle equazioni definite poi dallo stesso Poincarè “Trasformazioni di Lorentz” che correggevano le precedenti analoghe “Trasformazioni di Galileo”. Poincarè, tra il 1905 ed il 1906, in particolare con lo scritto “Sulla Dinamica dell’Elettrone”, rielaborò ed ampliò la equazioni di Lorentz, ma già nel 1902, nell’opera “Scienza ed Ipotesi“, aveva criticato i concetti di spazio e tempo assoluti (cioè non relativi) e quello di simultaneità temporale in sistemi diversi, anticipando temi relativistici. La teoria della Relatività Ristretta è stata poi - giustamente – attribuita ad Einstein perché il grande fisico tedesco, in particolare nello scritto “Sulla Dinamica dei Corpi in Movimento” del 1905, seppe trasformare le equazioni di Lorentz e Poincarè in una teoria fisica coerente, come meglio vedremo in seguito.

Poincarè fu anche un valente epistemologo, cioè un filosofo della scienza. Le sue posizioni realiste, che lo caratterizzarono come fiero avversario della deriva spiritualista ed irrazionalista dilagante nella Francia di fine ‘800, lo portarono ad affermare che “l’esperienza è l’unica fonte della verità: solo essa può insegnarci qualcosa di nuovo, solo essa può darci certezza”. Affermava che il fatto bruto è il fenomeno osservato, la scienza è la sua interpretazione. Il linguaggio scientifico è solo più preciso, ma non puramente convenzionale. Fu anche un determinista coerente: diceva che parlare di “caso” è solo la misura della nostra ignoranza. In matematica fu un sostenitore del “convenzionalismo”. Sosteneva – cioè – che la matematica era basata su assiomi iniziali arbitrari, ma fu anche sempre molto critico verso gli eccessi del “logicismo” e del “formalismo” tipici di Hilbert, Frege o Russell, valorizzando anche l’intuizione ed apprezzando il linguaggio matematico in quanto il più adatto a descrivere i fenomeni fisici. Ammetteva che alla base della geometria vi era una grande libertà creativa e contribuì a sviluppare le geometrie non euclidee; ma riteneva che certi sistemi – come quello euclideo – si erano affermati nei secoli perché adatti ad interpretare la realtà, essendo basati su assiomi suggeriti dall’esperienza. Nel caso della matematica numerica era comunque imprescindibile adottare un principio (o assioma) generale non deduttivo, quello di induzione completa secondo cui una proprietà, se può passare da un numero naturale al successivo, e se vale per il numero “1” (o “0”), vale per tutti i numeri.

Su posizioni molto diverse si pose David Hilbert (1862-1943), a lungo professore nella prestigiosa Università di Gottinga, cuore della matematica tedesca insieme a Berlino(1)(2)(3)(5). Hilbert, grande estimatore e sostenitore di Cantor (N. 92), riteneva che la matematica fosse una costruzione logico-formale di tipo deduttivo creata dalla mente umana sulla base di “assiomi” arbitrari e simboli astratti che nulla avevano a che fare con la realtà. Gli assiomi, per essere “veri”, dovevano essere “coerenti”, cioè bastava che non portassero a contraddizioni nei successivi sviluppi logico-deduttivi. Altre caratteristiche degli assiomi dovevano essere la loro reciproca “indipendenza” e la “completezza”, cioè la capacità di poter dimostrare, partendo da essi, qualsiasi teorema matematico. Il suo pensiero si distingueva da quello di altri “logicisti” come Frege e Dedekind (N. 92) che invece ritenevano – in un’ottica di tipo “platonico” - che gli assiomi dovevano essere “veri” di per sé in quanto verità evidenti ed assolute desunte dalla realtà (come già per Euclide, Kant ed Aristotele).

All’inizio Hilbert – dopo aver raggiunto la fama nel 1888 per aver risolto il “problema di Gordan” sulle entità “invarianti” nelle trasformazioni di un polinomio - si interessò degli assiomi della geometria (ridotta a puri simboli privi di significato e di intuizione spaziale) con l’opera “Fondamenti della Geometria” del 1899. Nel 1900 fu il principale relatore del Congresso matematico di Parigi, dove espose i famosi 23 problemi la cui risoluzione avrebbe interessato i matematici del ‘900. Pose al primo posto l’ipotesi della continuità di Cantor, che risulta ancora indimostrata (nel 1938 il logico ceco Gödel – di cui ci interesseremo anche in prossimi numeri – dimostrò che non se ne poteva dimostrare la falsità; ma nel 1963 il matematico statunitense Paul Cohen – 1934/2007 - dimostrò che non se ne poteva nemmeno dimostrare la veridicità). Altro importante problema era la coerenza degli assiomi dell’aritmetica (tuttora irrisolto). Erano presenti anche altre congetture, come quella di Goldbach (N. 58), e l’Ipotesi di Riemann (N. 86), tuttora indimostrate. Nei 20 anni successivi il grande matematico tedesco si interessò di problemi di matematica applicata alla fisica (che cercò di “assiomatizzare” rendendola un sistema logico-deduttivo, a partire da assiomi iniziali), disputando nel 1915 ad Einstein la paternità delle equazioni della Teoria della Relatività Generale. Queste furono attribuite giustamente ad Einstein, che - pur se più scarso in matematica e preso in giro da Hilbert (“anche un ragazzino di strada di Gottinga capirebbe meglio di Einstein le equazioni dello spazio quadridimensionale”, spazio usato nella teoria della relatività) - aveva però una visione più profonda della realtà fisica. In questo periodo Hilbert - partendo dallo studio delle equazioni “integrali” (che sono le equazioni che contengono l’incognita sotto il segno di integrale) - sviluppò anche la cosiddetta “analisi funzionale” (che si interessa delle funzioni la cui variabile è un’altra funzione, ed è connesso all’antico “calcolo delle variazioni”: vedi NN. 58 e 66). Paradossalmente questa sua attività più tradizionale fu quella che si dimostrò più utile in futuro. Il suo allievo Von Neumann (di cui ci interesseremo in prossimi numeri) se ne servì per definire il cosiddetto “spazio di Hilbert”, un sistema matematico comprendente più funzioni, che riuscì – come vedremo - a riunificare due celebri prodotti della Fisica Quantistica: le matrici di Heisemberg con l’equazione di Schrödinger.

Dopo il 1920 Hilbert si dedicò invece completamente alla costruzione del suo astratto sistema assiomatico, tenendo presente anche i risultati del cosiddetto sistema ZF sviluppato da Ernst Zermelo (1871-1953) nel 1919, ed integrato da Abraham Fraenckel (1891-1965), che aveva lo scopo di neutralizzare le contraddizioni sorte nei sistemi di Frege e di Russell-Whitehead (N. 92). Il suo decennale ed intenso lavoro, contenuto nelle opere “Fondamenti matematici di Logica Teoretica” del 1928 – scritto insieme a Wilhelm Ackermann - e “Fondamenti della Matematica del 1934scritto insieme all’allievo Paul Bernays - si infranse nel corso del Congresso di Königsberg del 1930, quando – dopo che Hilbert aveva orgogliosamente dichiarato: “dobbiamo sapere, e sapremo” (motto iscritto anche sulla sua tomba) – un giovane logico ceco ancora sconosciuto (ma poi divenuto famoso), Kurt Gödel (1906-1978), dimostrò che il sistema di Hilbert era “incompleto” (cioè conteneva necessariamente affermazioni indimostrabili). Successivamente Gödel dimostrò (con il suo “secondo teorema”) che non era nemmeno possibile dimostrarne la “coerenza”. Lo stesso Zermelo aveva affermato che l’aritmetica conteneva necessariamente elementi di arbitrarietà (cosiddetto “Problema della Scelta”), mentre anche il matematico polacco Alfred Tarski (1902-1989) aveva dimostrato che una teoria aritmetica coerente del “primo ordine” non poteva esprimere il vero. Questo fallimento ci indica – come abbiamo più volte sottolineato – che la logica esasperata, avulsa dalla realtà, spesso è sterile e contraddittoria. Vale la sarcastica battuta pronunciata da Poincarè qualche anno prima: “la logica non è sterile: produce contraddizioni”. Poincarè riteneva Hilbert un “impostore” perché, nascosta sotto il suo sistema assiomatico astratto, rispuntava in realtà – secondo lui - la vecchia geometria di Euclide.

Vincenzo Brandi


  1. L. Geymonat, “Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico”, Garzanti

  2. C. Singer, “Breve Storia del Pensiero Scientifico”, Einaudi

  3. Adorno, “Storia della Filosofia”

  4. RBA, “Le Grandi Idee della Scienza – Poincarè”

  5. RBA, “Le Grandi Idee della Scienza – Hilbert”