Shivaismo e Vishnuismo. Nondualismo e dualismo nella filosofia induista

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I due filoni più significativi dell'induismo classico sono lo Shivaismo ed il Vishnuismo, che prendono il nome dai loro capostipiti ovvero Vishnu  il Conservatore e Shiva  il Distruttore.  A dire il vero nella Trimurti indiana c'è anche una terza divinità, Brahma che è il Creatore,  il quale  non ha però nessuna scuola al suo seguito.  Spesso alcuni amici spiritualisti mi chiedono come mai nella filosofia indiana non vengano dedicati templi a Brahma, ossia all'aspetto creativo della Divinità?

Tanto per cominciare occorre spiegare che la Trimurti letteralmente significa «colui che è dotato di tre aspetti». Con tale termine si allude ad un Ente che aduna in sé, come un’unica divinità, tre aspetti di tre divinità differenti. I tre importanti Deva archetipi: Brahma, Vishnu e Shiva  sono riconducibili allo stesso e unico Dio detto anche Īśvara o Saguna Brahman.   Ma questo ancora non spiega la scomparsa di Brahma dal culto ufficiale.

Esistono miti e leggende  che tendono a comprovare la supremazia di Vishnu sugli altri dèi della trimurti e per spiegare il motivo per cui il dio Brahma non è oggetto di culto in India. Esistono ovviamente miti e tradizioni shivaite che sostengono esattamente il contrario e cioè che Shiva è il più grande tra gli dèi, che è l’Assoluto, il principio di tutte le cose. Insomma lo Skanda Purana, Il Lingam Purana o il Vayu Purana narrano  questa  storia:

All’origine dei tempi, quando niente era stato creato o, più precisamente, nel periodo che intercorreva tra la distruzione/assorbimento dell’Universo e la creazione di un nuovo universo, Vishnu stava sdraiato sul serpente Ananta convinto di essere il più potente dio. All'improvviso apparve però   Brahma, attaccato con un cordone ombelicale a Vishnu, il nuovo nato dichiarò di essere il creatore dell’universo, colui dal quale tutte le cose sarebbero state create. Tra i due dèi nacque una disputa.  Ma mentre la discussione  andava avanti, nell’immensità degli spazi si sentì un rombo assordante, un fragore accompagnato da un fascio di luce, e comparve improvvisamente una colonna rifulgente che dagli inferi arrivò fino agli spazi superni trafiggendo gli oceani e la terra. Era un lingam infinito e splendente, fiammeggiante e possente che lasciò stupefatti e terrificati i due dèi.


“Ma cos’è?” si domandarono attoniti Vishnu e Brahma. Per capirlo  Vishnu si trasformò in cinghiale e si gettò nell’oceano, Brahma si trasformò in oca selvatica e volò negli spazi celesti. Il loro viaggio durò più di mille anni, ma per quanto si sforzassero, non riuscirono a raggiungere le estremità della colonna di fuoco che continuava a crescere.
Ritornati in superficie i due si guardarono, Vishnu ammise di non essere riuscito a trovare l’inizio del lingam, Brahma invece, che voleva vincere la sfida, mentì dicendo di essere arrivato in vetta al lingam fiammeggiante.  In quel momento però nella colonna di fuoco si aprì una fenditura dalla quale uscì Shiva, il signore del lingam,  che si auto manifestò e proclamò la propria supremazia come Assoluto, come creatore, preservatore e distruttore dell’universo e di tutto ciò che esiste inclusi i due dèi che a quel punto, prostrati al cospetto del grande dio, lo adorarono riconoscendone la supremazia.

Ma non finì qui. Shiva infatti lanciò un'anatema contro Brahma che aveva mentito sostenendo falsamente di aver raggiunto la vetta del lingam di fuoco. Nessun culto sarebbe più esistito in suo onore. E così fu.

Facendo un'analisi più approfondita sulla tradizione del Sanatana Dharma scopriamo però che sia Vishnu che Shiva sono in realtà due divinità antecedenti alla cultura vedica brahmanica, portata in India dall'invasione ariana di popolazioni pastorali e guerriere provenienti dal Caucaso, le stesse che in epoca tardo neolitica invasero l'Europa cancellando la cultura matristica preesistente sostituendola con la loro cultura patriarcale e con le loro divinità maschili. 

Infatti nella tradizione vedica indiana scopriamo la presenza di  Indra, il dio della folgore (equivalente a Giove) come capo degli dei, Varuna, il dio degli espansi  (equivalente a Poseidone), Agni il dio del fuoco (equivalente a Vulcano), etc. Vishnu e Shiva (quest'ultimo con il nome di Rudra) furono inseriti successivamente nel Pantheon vedico. Dal che si presume che queste fossero divinità autoctone assorbite solo più tardi nel Gotha. In particolare va fatta la considerazione che  Rudra (un aspetto di Shiva) era considerato un dio terribile, evidentemente mal visto dai primi brahmani. Della presenza molto antica in India di questa divinità ne abbiamo le prove in seguito agli scavi compiuti a Mohenjo Dharo ed Harappa nella valle dell'Indo (ora Pakistan) ove furono rinvenute sue immagini  in cui esibisce lunghe corna e indossa pelli di animali, egli era infatti considerato il Signore degli animali (Pasupata).  

Stranamente la cultura Vedica che in un primo tempo tentò di colonizzare l'India a mano a mano che i secoli passavano dovette reintegrare le antiche divinità autoctone finché addirittura queste  non assunsero la predominanza  su tutti gli altri dei importati.  Così forte fu il cambiamento  dal che  si può  intuire come mai il creatore Brahma non fu più oggetto di adorazione, egli restò solo come appellativo appiccicato alla casta dei sacerdoti, detti appunto brahmani, che in verità divennero officianti dei culti  di Vishnu e Shiva.

La storia di Vishnu si perde anch'essa nella notte dei tempi, sue incarnazioni principali, tra le  numerose altre,  furono Rama e Krishna, due personaggi divini, comparabili al nostro Cristo, vissuti diverse migliaia di anni prima dell'era cristiana. Ad essi vennero dedicati le due principali epiche indiane il Ramayana ed il Mahabharata che assieme ai Veda vengono considerate le scritture indiane sacre per eccellenza.  Anche a Shiva sono dedicate parecchie sacre scritture, come gli Shiva Purana ed altri  testi più recenti scritti dal saggio  Shankaracharya che viene considerato una sua  emanazione.

Se dovessimo in poche parole esaminare e descrivere  gli aspetti che contraddistinguono questi due filoni di pensiero induisti possiamo dire che Vishnu rappresenta la devozione all'ideale, il dovere del compiere il bene, l'amore verso il prossimo, l'aderenza all'etica, etc. Shiva invece rappresenta il Maestro, il Guru primordiale, che impartisce la conoscenza del Sé, ed indirizza gli adepti verso la realizzazione dell'Assoluto non-duale.

Sia ben chiaro che in entrambe le tradizioni vi sono stati santi e realizzati, poiché come è detto in vari contesti e scritture la devozione e la conoscenza sono come due ali che aiutano l'uomo a sollevarsi dall'ignoranza e dalla animalità.

L'approccio vishnuita comunque parte dall'adorazione dualistica, definita  Dvaita Vedanta (Vedanta dualistico)  che appartiene al sentiero della Bhakti (devozione).  Dal punto di vista delle credenze questo  è il sentiero  che ha una maggiore affinità con le religioni di origine semitica:  ebraismo, cristianesimo e islam. Cioè i fedeli credono in un Dio personale denominato Vishnu (o le sue incarnazioni Rama e Krishna). Nell'ebraismo questa funzione è rivestita in parte da Mosè, nel cristianesimo da Gesù e nell'islamismo dal profeta Maometto. 

Nella mitologia dualistica vishnuita, come nelle religioni semite, le anime restano sempre separate dal loro creatore ed il massimo bene possibile è l'ascesa ad un "paradiso" in cui godere permanentemente  della presenza divina.

Chiaro però che  tale  paradiso, quasi un luogo spazio-temporale,  occorre guadagnarselo, con opere di fede, di speranza e di carità, ed il visto d'accesso  viene rilasciato dalle incarnazioni  divine, gli Avatar, da qui la necessità di essere a loro devoti per ingraziarsene i favori. Non tutta la filosofia vishnuita è totalmente dualistica esiste anche il Vishishtadvaita, ovvero il non dualismo differenziato. Comunque il  Vishnuismo   è legato alla formulazione di un Dio personale, una forma religiosa  semplice da accettare da parte di persone che non comprendono od ignorano le alte speculazioni filosofiche upanishadiche, ma sentono l'esigenza di un dialogo con il mondo divino. Ecco perché il Vishnuismo dualista si contrappone alla filosofia Advaita Vedanta (Vedanta non-dualistico),  affine allo Shivaismo.

La teologia della scuola dualista è basata sui pancabheda o cinque differenziazioni. Secondo questa dottrina il divino è differente dai jiva e dalla prakriti (natura). I jiva sono differenti l'uno dall'altro e dalla prakriti, e i vari evoluti da essa sono anche differenti l'uno dall'altro. La metafisica dvaita formula due categorie, alla prima, realtà indipendente, appartiene solo Dio, alla seconda, realtà dipendente, appartiene tutto il resto.  Vishnu è sì interpretato come un Dio personale, ma nell'accezione più alta non ha una forma fisica, un'immagine antropomorfica, ma si manifesta attraverso i suoi avatar, fra cui Rama e Krishna sono i suoi principali impersonificatori.

Per fortuna in India tutte le scuole sono considerate valide al fine di una evoluzione personale,  ogni scuola conduce i suoi allievi sino al punto in cui la loro mente è in grado di accettare una verità, quindi tutte sono utili all'evoluzione. Un po' come avviene nella cultura scolastica in sui si va avanti dalla scuola d'infanzia sino all'università seguendo una trafila d'insegnamento che non esclude i diversi aspetti educativi, dalle  asticciole alle elucubrazioni scientifiche più profonde.  Ma alla fine la "laurea", ovvero la realizzazione di Sé, non viene raggiunta per l'accumulo di conoscenze bensì per il sorgere di  una esperienza  mistica trascendentale che si fa strada nel cuore del ricercatore sino al punto di superare ogni concettualizzazione.

Nello Shivaismo, in effetti,  esiste lo stesso un approccio devozionale, ma viene indirizzato verso lo Shiva interiore, il Sé, ovvero l'essere-coscienza che noi tutti siamo,  come ben descritto nel mantra impartito da Shankaracharya:  "Shivo-ham", Io sono Shiva. Ma questa, esposta da Shankaracharya, può essere intesa come la forma più pura dello Shivaismo,  non intesa  ovviamente come un  sistema monastico  o sacerdotale  nella tipica struttura religiosa induista. 

Comunque, dal punto di vista della ricerca interiore, non vedo sostanziali differenze tra la via della spiritualità laica di cui spesso faccio menzione e lo Shivaismo, soprattutto nella sua forma kashmiri.  La definizione stessa di   “spiritualità laica” serve a  stabilire la sua assoluta e totale indipendenza da ogni credo (ateismo compreso). In verità diverse forme di spiritualità laica sono riconoscibili nello shivaismo del Kashmir e nell’adavaita vedanta che di tale spiritualità  sono  le espressioni più antiche...

Shankaracharya, dicevamo, è una delle manifestazioni di Shiva. Shiva dal punto di vista tradizionale viene considerato l’aspetto della Trinità preposto alla distruzione. Ma tale distruzione è indirizzata soprattutto verso l’ego, ovvero quell’identità separata che impedisce all’uomo di riconoscersi Uno con l’Assoluto. Perciò Shankara, che uno degli appellativi di Shiva, sta a significare “favorevole, propizio” . Egli è l’Assoluto stesso, l’amore indicibile che sorge dal principio “Io” privo di ogni identificazione, la pura consapevolezza di Sé (in sanscrito Atman). Shiva viene anche definito: “Satyam-Shivam-Sundaram” cioè Vero, Auspicioso e Incantevole.

Non si può affermare che il Nondualismo possa venir perfezionato, ma per quanto concerne il modo descrittivo possiamo dire che questa affermazione è appropriata nel caso degli insegnamenti  di Ramana Maharshi, il saggio che visse ai piedi di Arunachala, la montagna sacra emanazione di Shiva (che si dice essere il residuo della colonna di fuoco descritta all'inizio di questo articolo), ove egli restò in ritiro permanente nella prima metà del secolo scorso. Ramana è universalmente riconosciuto come il moderno divulgatore dello Shivaismo nondualista oltre i confini dell’India. Egli, nella strofa X del suo ‘Quaranta Versi sull’Esistenza’ così afferma: “Non vi è conoscenza separata dall’ignoranza, non vi è ignoranza separata dalla conoscenza. Di chi sono questa conoscenza e quest’ignoranza? Vera Conoscenza è quella che conosce la coscienza che conosce, che è il principio base”.  

Paolo D'Arpini - spiritolaico@gmail.com

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Gadadhar Chattopadhyay, conosciuto come Sri Ramakrishna Paramahamsa, nelle vesti di Shiva

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Era la notte del "Maha Shivaratri" dedicata a Shiva (l'Assoluto), e il piccolo Ramakrishna adorava Dio nella forma di Shiva, in onore di quella festività.
 
La stessa sera, a Karmarkupur, nei pressi di Calcutta, cʼera uno spettacolo in cui dei bambini recitavano davanti al pubblico le storie di Shiva. Purtroppo, il bambino che doveva recitare il ruolo di Shiva non poteva più venire, così cercarono un attore che potesse giocare il suo ruolo e qualcuno  consigliò il piccolo Ramakrishna.
 
I bimbi allora andarono dal piccolo Ramakrishna, impegnato ad adorare Shiva
e a cantare inni sacri, e gli dissero: “Gadadai (nome con cui veniva
chiamato Ramakrishna da bambino), lʼattore che doveva recitare il ruolo di
Shiva non cʼè a causa di un contrattempo. Sei stato scelto tu come attore.”
 
Il piccolo Ramakrishna rispose: “Ma oggi è la notte di Shiva. Se vengo a
recitare, come posso meditare su Shiva? Significherebbe interrompere la mia
meditazione.”
 
I bimbi risposero: “Non ti preoccupare. Se impersoni il ruolo di Shiva,
manterrai la mente su di Lui per tutto il tempo. E questo è identico alla
meditazione.”
 
Il piccolo Ramakrishna quindi accettò.
 
Si vestì come Shiva, con i capelli uguali, con gli abiti e le collane
identiche, e così entrò in scena.
 
Quando il pubblico vide il piccolo Ramakrishna entrare in scena con
lʼaspetto di Shiva, ebbe una sensazione luminosa che lo fece rabbrividire;
e sembrava che fosse realmente Shiva, al punto che tutti gridarono: “Om
Namah Shivaya!” (Onoro il Nome di Shiva).
 
Ma accadde qualcosa di strano: Ramakrishna andò subito in estasi e la sua
coscienza lasciò il piano terra, sollevandosi fino al Divino. Quindi,
entrato in scena, rimase in trance, felice e beato, senza riuscire a
recitare la scena.
 
Dopo qualche tempo discese da quelle altezze divine della coscienza per
ritornare nella normale coscienza corporea, ma lo spettacolo era ormai
finito.
 
Ramakrishna non era in effetti una persona ordinaria: era un Avatar, cioè
unʼIncarnazione Divina pari a Cristo, Buddha, Krishna.
 
Questo episodio fa comprendere che si può chiamare “meditazione” anche il
mettere in pratica la piena convinzione di essere Shiva (Dio) che recita
nello spettacolo del mondo, e realizzarLo in questo modo.
 
“Io sono Shiva”, “Io sono Dio”, “Io sono Amore”, “Io sono Divino”, “Io sono
Brahman”, “Io sono un perfetto strumento attraverso cui fluisce la
Divinità”. Questo è il metodo.
 

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(Testo inviato da Anna Dossena)

Advaita Vedanta. Il nondualismo da Shankaracharya a Ramana Maharshi…


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Il Nondualismo (in Sanscrito: Advaita) è l'espressione più sottile e "scientifica" del pensiero umano. Agli effetti pratici non può essere definita una filosofia, in quanto si pone "prima" ed "aldilà" del pensiero, quindi non potrà mai divenire un argomento di studio o di dibattito. Il Non-dualismo è stato intelligentemente rappresentato da uno dei suoi più recenti fautori,  Sri Poonja di Lucknow (detto Papaji), con queste parole: "Immagina l'Uno non seguito dal due e poi abbandona il concetto stesso di Uno".  Non è possibile alcuna speculazione mentale su quanto viene significato con questa netta e assoluta indicazione della realtà.

La concezione Nonduale si affaccia sulla scena del pensiero umano già cinquemila anni fa, nelle ultime porzioni dei Veda (Vedanta) dette Upanishad, in cui si afferma: "Dall'Uno sorge l'Uno, se dall'Uno togli l'Uno solo l'Uno rimane". Nel VI° secolo a.C. la civilizzazione Indiana è preda di depressioni empiriche e matematiche,  in quel periodo vennero accantonate  le sottigliezze vedantiche e sostituite da formalismi rituali, teismi e sofismi di vario genere, per questo motivo la venuta del Buddha segnò un rifiorire dell’autentico spirito nel tentativo di superare il materialismo spirituale.

      Avvenne così che la dottrina buddhista della "sunyata" (vacuità o vuoto), in cui si nega la sostanza ed il valore alle forme e alle manifestazioni del mondo, riportasse l'attenzione al percipiente. La descrizione dell'esistenza empirica come origine e fonte della sofferenza restituì stamina ed impeto alla realizzazione del puro spirito, ma già nel V° secolo d.C. le  diatribe interne ai vari sistemi buddhisti andavano deteriorando la pulizia dell'insegnamento originario del Buddha.

     Ed è proprio in quel contesto storico che apparve sulla scena il grande saggio Adi Shankaracharya, che fin da giovanissimo iniziò a riportare la società induista verso la comprensione dell'Uno senza un Due. Lo fece indicando la pratica spirituale quotidiana della rinunzia alle forme pensiero dualistiche: "Neti…Neti" (non questo... non questo). Il grande movimento che ne nacque è ancora vivo e vegeto ed ha quindi prodotto innumerevoli saggi che si riferiscono a questa linea.

     Non si può affermare che il Non-dualismo possa venir perfezionato, ma per quanto concerne il modo descrittivo possiamo dire che questa affermazione è appropriata nel caso di Ramana Maharshi, il saggio di Arunachala, la solitaria montagna sacra del Tamil Nadu, ove egli visse in ritiro permanente nella prima metà del secolo scorso. Ramana è universalmente riconosciuto come il divulgatore dell’Advaita Non-dualista oltre i confini dell'India. Egli, nella strofa X del suo ‘Quaranta Versi sull'Esistenza’ così afferma: "Non vi è conoscenza separata dall'ignoranza, non vi è ignoranza separata dalla conoscenza. Di chi sono questa conoscenza e quest'ignoranza? Vera Conoscenza è quella che conosce la coscienza che conosce, che è il principio base".

     Secondo l'esperienza di Ramana, non vi è alcuna separazione, e tutto perciò viene ricondotto al Sé. Questa sublime espressione della Coscienza che conosce se stessa è stata susseguentemente spiegata, in modo raffinato e culturalmente accettabile per la nostra mente speculativa, dal saggio indiano Nisargadatta Maharaj, il quale nella sua estrema semplicità descrittiva si limitò ad affermare: "Io sono Quello". Nella diretta realizzazione del Sé non esistono descrizioni che possano adeguatamente trasmettere questa ineffabile esperienza, ed è per questo che il diniego o rifiuto di ogni assunzione e proposizione spirituale fu la caratteristica di un ultimo campione della linea, e cioè U.G. Krishnamurti - il santo che negava ogni santità che fosse altra dallo stato puro della consapevolezza - esclamando: "le mie parole sono come il raglio di un asino... esiste solo la vita che meravigliosamente compie il lavoro". Con ciò segnalando il punto finale di "non ritorno" al dualismo empirico.

Paolo D'Arpini


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spiritolaico@gmail.com

                                                                         

I campi elettromagnetici e le quattro equazioni di J.C. Maxwell



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La teoria dei campi elettromagnetici – comportanti linee di forza che si espandono nello spazio – sia stata mirabilmente sviluppata da Faraday, che però non ne dette un’interpretazione matematica. La teoria dei campi di Faraday servì di base per una brillante sintesi fisico-matematica di tutti i fenomeni elettromagnetici operata dal fisico scozzese James Clerk Maxwell (1831-1879). Egli utilizzò i risultati delle ricerche di elettrostatica e sul magnetismo di Gauss, quelli di Ampere sugli effetti magnetici delle correnti elettriche, e quelli dello stesso Faraday sull’induzione elettromagnetica, dandone una visione unitaria dinamica in cui le interazioni elettromagnetiche si trasmettevano non istantaneamente, ma nel tempo mediante flussi continui di onde agenti lungo le linee di forza alla velocità della luce. Secondo Einstein ed altri autori le quattro equazioni di Maxwell, che dettero il via ad una serie di intense discussioni e profonde riflessioni in tutto il campo scientifico, assunsero nell’800 la stessa importanza per i fenomeni elettromagnetici assunta delle equazioni di Newton nel ‘600 per i fenomeni meccanici e gravitazionali(1)(2)(3).

Maxwell fu professore ad Edimburgo e poi anche di fisica sperimentale a Cambridge (benché fosse essenzialmente un fisico teorico) dove fondò l’Istituto Cavendish da cui uscirono ben 29 premi Nobel. Nelle sue prime opere: “Sulle linee di Forza di Faraday” (1856) e “Sulle Linee fisiche di Forza” (1861-62), costruì modelli ancora meccanici per spiegare la presenza dei campi. Nelle opere successive: “Una Teoria dinamica del Campo Magnetico” (1865) e “Trattato di Elettricità e Magnetismo”, (1873), considerata il suo capolavoro, il fisico scozzese – dopo aver rinunciato anche alla teoria dell’etere (un fluido leggerissimo che supporterebbe i campi) – usò sempre più metodi matematici privi di espliciti modelli fisici. La sua matematica, molto sofisticata e formale (che suscitò qualche perplessità tra i ricercatori dell’epoca, anche da parte dello stesso grande sperimentatore Faraday), si servì di metodi molto avanzati, derivati da precedenti studi di Lagrange, Gauss, ed altri, e come quello vettoriale derivato da W. Rowan Hamilton (N. 72).

Le quattro equazioni di Maxwell sono delle equazioni differenziali a derivate parziali in funzione delle coordinate spaziali e del tempo. Hanno quindi un valore localistico, cioè relative ad un singolo punto in un dato istante, ma possono essere anche matematicamente “integrate” acquistando un valore “globale” che si riferisce ad una superficie estesa che racchiude un dato volume, o ad un circuito elettrico chiuso. La prima equazione descrive il campo elettrostatico dovuto ad una carica elettrica prendendo spunto dagli studi di Gauss. La seconda (derivata anch’essa dagli studi di Gauss) indica che un magnete è sempre costituito da due poli inseparabili e che i flussi e le linee magnetiche formano sempre dei circuiti chiusi. La terza descrive il fenomeno dell’induzione magnetica, cioè la creazione di correnti elettriche dovute ad un campo magnetico variabile, prendendo spunto dalle ricerche di Faraday. La quarta tiene conto delle ricerche di Ampere sulla creazione di campi magnetici mediante correnti elettriche, con un integrazione decisiva di Maxwell relativa ai campi elettrici variabili che crea una simmetria tra campi elettrici e magnetici, dimostrando che sono due aspetti di una realtà unica. Le equazioni valgono nel vuoto le cui caratteristiche elettromagnetiche sono espresse da due costanti, la Permettività elettrica e la Permeabilità magnetica il cui prodotto è in stretta relazione con la velocità della luce “c” secondo una semplice equazione: permettività x Permeabilità = 1/c2.

Questa circostanza indusse Maxwell a mettere in relazione le interazioni elettromagnetiche con le onde luminose, soprattutto dopo che nel 1856 due valenti ricercatori tedeschi, Wilhelm Weber (1804-1891) e Rudolf Kohlrausch (1809-1858) scoprirono che il rapporto tra unità di misura elettrostatiche ed unità elettromagnetiche era pari alla velocità della luce. Il fatto che in realtà tutti i tipi di onda (comprese quelle luminose) siano elettromagnetici fu poi provato da Rudolf Hertz, come vedremo alla fine di questo articolo. Maxwell dette inoltre una versione generalizzata delle sue equazioni che valesse anche per mezzi diversi dal vuoto.

Le equazioni di Maxwell furono viste come un superamento del tipico “meccanicismo” seicentesco di Newton, Galilei e Cartesio, ripreso da Laplace, Helmotz, Kelvin e molti altri fisici e chimici moderni. Esse infatti hanno la caratteristica di riferirsi ad una fisica del “continuo”, e non di “azione a distanza” come nella teoria gravitazionale di Newton o nelle forze di attrazione elettrica di Coulomb (NN. 50 e 59). Le grandezze elettromagnetiche (campi elettrico e magnetico) hanno un valore locale e variano anche per minime variazioni nello spazio e nel tempo. Mentre le equazioni di Newton e Galilei non variano per due osservatori che si muovano l’uno rispetto all’altro a velocità costante (cioè per due sistemi cosiddetti “inerziali” le cui rispettive coordinate sono ricavabili con le semplici “trasformazioni galileiane” messe a punto dal grande fisico pisano), le equazioni di Maxwell non godono di questa proprietà e non si accordano con le concezioni di spazio e tempo di ispirazione newtoniana. Questa è la prima breccia nella fisica tradizionale attraverso cui si farà strada la “Teoria della Relatività”, come vedremo in prossimi numeri. Molti autori (per esempio lo storico della fisica Duhem e in parte lo stesso Geymonat) tuttavia dubitano che Maxwell si sia effettivamente posto al di fuori del meccanicismo. Né si deve dimenticare che la presunta crisi del meccanicismo tradizionale (sottolineata da Mach e dallo stesso Engels) vedrà mezzo secolo dopo una rivincita della fisica del discontinuo con la prova dell’esistenza di atomi, molecole ed elettroni ad opera di J.J. Thomson, Einstein, Perrin, e altri, e nella scoperta dei “Quanti” ad opera di Planck.

D’altra parte Maxwell si interessò anche di argomenti tipicamente meccanicisti. Dopo essersi interessato della resistenza dei materiali duttili (argomento poi ripreso da Von Mises) e dopo aver pubblicato un saggio nel 1859 “Sulla Stabilità degli Anelli di Saturno”, il suo secondo campo di indagine per importanza riguardò la Teoria Cinetica dei Gas, già anticipata nel ‘700 da Daniel Bernoulli (N. 58) e ripresa da Clausius (N. 78). Questa teoria ipotizza che l’azione macroscopica di un gas (ad esempio la sua pressione) sia dovuta ad una miriade di piccoli urti dovuti al moto caotico delle molecole del gas. Anche il calore sarebbe un effetto di questi moti caotici. Maxwell scrisse su questi argomenti il saggio del 1860 “Delucidazioni sulla Teoria Dinamica dei Gas”; e successivamente: “Sulla Teoria Dinamica dei Gas” (1866), “La Teoria del Calore” (1871-77), e “Materia e Movimento” (1876). Egli introdusse l’importante ipotesi che la distribuzione statistica della velocità delle molecole sia una curva a campana, come quella degli errori sviluppata da Gauss (N. 72). Anche il fatto che Maxwell abbia introdotto una distribuzione di tipo statistico e probabilistico (aspetto su cui poi Boltzmann costruirà una serie di importanti sviluppi, come vedremo nel numero a lui dedicato) viene interpretato da vari autori come il superamento della tipica fisica deterministica tradizionale (da Leucippo e Democrito, fino a Galilei, Newton e Laplace).

In realtà altri autori, come ad esempio lo stesso Laplace (di cui chi scrive condivide sostanzialmente l’impostazione) ritengono che il ricorso a leggi di tipo statistico-probabilistico sia dovuto solo al fatto che non è possibile seguire l’andamento di ogni singolo micro-fenomeno e di ogni particella elementare. Torneremo sull’argomento a proposito della fisica quantistica. Una caratteristica che contraddistingue la fisica di Maxwell è invece indubbiamente l’uso della matematica (equazioni differenziali a derivate parziali con uso di operatori vettoriali) senza il supporto di un esplicito modello fisico, come già fatto da Fourier e Rowan Hamilton (NN. 67 e 72), e come sarà fatto da molti fisici teorici contemporanei.

Per chiudere l’argomento bisogna ricordare l’importante opera del fisico tedesco Rudolf Hertz (1857-1894), intelligente allievo di Helmotz, morto purtroppo a soli 37 anni. Con abili esperimenti realizzati con apparecchiature da lui stesso messe a punto, Hertz dimostrò che le onde radio, i raggi infrarossi, le onde luminose, i raggi ultravioletti, ed altri tipi di radiazioni che saranno scoperte in seguito (raggi X e “Gamma”), sono tutte onde elettromagnetiche, come intuito da Maxwell, ed ancor prima da Faraday. Ancora oggi la frequenza delle radiazioni è indicata col nome di Hertz, che fu anche brillante teorico nel campo della filosofia della scienza. Respingendo ogni suggestione di tipo idealistico, ed attenendosi ad una filosofia realista, affermò che le grandezze inventate dai fisici (come spazio, tempo, massa) corrispondono a fenomeni ed oggetti reali nel mondo reale, e che le grandezze che derivano dalle equazioni messe a punto dagli scienziati hanno anch’esse una corrispondenza in fenomeni ed oggetti reali.

Vincenzo Brandi

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  1. L. Geymonat, “Storia del Pensiero Fil. e Sc.”, opera citata in bibl.
  2. C. Singer, “Breve Storia del Pensiero Sc.”, op. cit. in bibl.
  3. RBA, “Le Grandi Idee della Sc. – Kelvin”, op. cit. in bibl.


Iconografia ed uso del corpo nelle religioni

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Il rispetto per il corpo e per la fisicità in generale, in quanto mezzi materiali per l'espressione spirituale. non può trasformarsi in un tripudio escatologico in cui lo "spirito", meglio definito "Intelligenza e Coscienza", viene ridotto ad una iconografia materialista. Purtroppo quasi tutte le religioni, soprattutto quelle occidentali, indulgono nelle simbologie fisiologiche nel rozzo tentativo di esaltare il loro credo.

Diceva bene Gustavo Rol  nel suo elogio alla modestia ed alla semplicità:  "Più una cosa è semplice più è veritiera". Al contrario  il sistema politico-religioso resta avvinghiato a forme immaginarie ed alla loro frammentarietà,  con una  sterile avversione  a ciò che  è naturale.  Il risveglio di un nuovo essere umano globale deve emergere dalla modestia anche nell'immagine e nella descrizione, solo così l'uomo  può salire alla consapevolezza  che la sua natura custodisce da sempre.

La radice delle religioni monoteiste mediorientali è giudea, essa  si  basa essenzialmente  su miti e leggende, scelte e stabilite dai  fondatori  con lo scopo di dare un cemento ideologico unitario alle loro sparse tribù seminomadi che  erano state precedentemente politeiste. Idem dicasi per "la Verità Rivelata che si fa carne".  Ciò che ai "cristiani" sembra autoevidente ad altri può apparire come delirio. Quest'ultimo in altri tempi sarebbe stato imposto con la tortura e il rogo. Oggi, perlomeno, questa mostruosità non è più possibile. Rispetto ad ogni questione  la verità è solo una - mentre molte possono essere le menzogne. Si tratta, appunto, di vedere con coraggio e mente libera cosa sia vero e cosa sia falso sia nella storiografia che nell'iconografia di tali  religioni. 


Dal punto di vista ideologico, delle tre fedi di origine semitica, la più povera in quanto a "pensiero sottile" è l'Islam, molto vicina nella sua narrazione a tante fiabe da "mille ed una notte". Ma a differenza delle consorelle almeno l'Islam si limita a descrivere situazioni paradisiache con vergini, vino e miele a disposizione dei beati,  altrettanto fa con la vita "sessuale" del profeta, ma proibisce espressamente ogni rappresentazione del divino in quanto definita  blasfema.

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Per quanto riguarda le punizioni corporali contro infedeli e peccatori  l'Islam  viene definito barbaro, poiché praticava,  e tutt'ora lo fa, la decapitazione o la lapidazione (quest'ultima praticata anche nel giudaismo e nel proto cristianesimo) ma come possiamo giudicare le azioni  nefande compiute in nome di Cristo della chiesa cosiddetta cattolica?  In realtà questa non può essere  la chiesa di Cristo,  in quanto messaggero d'amore universale. Oggi   i sacerdoti,  gli alti prelati ed il papa stesso   cercano di giustificare o nascondere il passato oscurantista della Chiesa, in cui regnavano (e tutt'ora regnano) sovrani vizi, privilegi, sete di potere e di ricchezza, intrighi, sesso sfrenato, congiure, omicidi, torture.

Come ha potuto un’istituzione che ha messo in atto i più crudeli e sofisticati mezzi di supplizio avere l’ardire di definirsi cristiana? Con il falso pretesto che la punizione corporea serviva a salvare l’anima del peccatore, milioni di persone innocenti sono state  squartate, arse vive, impalate... I mezzi di tortura più diffusi dai sicari della santa Inquisizione erano: lo stiramento delle membra del condannato, la storpiatura e rottura delle ossa, il rogo, lo strappo della lingua ecc. Spesso il condannato veniva tagliato a metà con una comune sega da boscaiolo; oppure rinchiuso in una gabbia di ferro o legno appesa alle mura della città dove restava esposto fino al disfacimento delle ossa. Inoltre veniva fatto largo uso della cosiddetta “vergine di Norimberga,” una specie di sarcofago di ferro a due ante con aculei interni destinati a penetrare nel corpo del condannato; poi vi era il metodo della garrota con il suo tipico collare di ferro che uccideva la vittima per strangolamento o per la penetrazione di un aculeo di ferro nelle vertebre cervicali; il supplizio della ruota in cui gli arti umani venivano fatti passare attraverso i raggi come fossero di gomma.

Queste forme trucide  di punizione  religiosa,  finalizzate però al mantenimento del potere temporale, non appartengono solo alla storia scritta ma fanno parte della iconografia, dove spesso di osservano l'ipotetico  martirio dei santi, dei convertiti, delle donne purificate dal connubio demoniaco,  di madonne che scacciano demoni, di angeli che  puniscono i peccatori, etc..   e perché no anche nelle immagini della Via Crucis ed affini. 

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Insomma l'immaginario cristiano è quasi tutto una cacofonia dell'orrore e della sofferenza. Si parla di amore in chiesa ma fuori della chiesa si pratica l'odio. Molti cristiani hanno cominciato a chiedersi se la via del dolore abbia veramente un cuore. A questo proposito un cristiano pentito, Carlos Castaneda, faceva una riflessione: "Qualsiasi via è solo una via, e non c'è nessun affronto, a se stessi o agli altri, nell'abbandonarla, se questo è ciò che il tuo cuore ti dice di fare... Esamina ogni via con accuratezza e ponderazione. Provala tutte le volte che lo ritieni necessario. Quindi poni a te stesso, ed a te stesso soltanto, una domanda... questa via ha un cuore? Se lo ha,  la via è buona. Se non lo ha, non serve a niente." 

Abbiamo più o meno visto come si presenta l'immaginario delle religioni definite "monoteiste" (meglio sarebbe chiamarle monolatriche),  qual'è invece l'immaginario delle fedi orientali? In India si fa largo uso di figure di carattere sessuale, vi sono templi in cui si celebra la sessualità in tutte le sue espressioni, tutte le divinità da quelle inferiori a quelle della Trimurti, Creatore, Conservatore e Distruttore, sono descritte come dedite ad amplessi decisamente erotici. Non ci si vergogna degli stimoli naturali che vengono anzi interpretati come forme devozionali e spirituali. Questo avviene anche nel tantrismo buddhista in Tibet, Nepal ed in tutto l'estremo oriente, dove spesso  i vari Buddha sono affiancati da Dakini o addirittura  impegnati in copule mistiche. Persino nel taoismo  cinese non si disdegnano le forme  di approccio sessuale, tra l'altro si può dire che il taoismo non è altro che una forma di adorazione della Natura, della naturalezza e della spontaneità.   
In altri articoli abbiamo già trattato i vari modi  del  rapporto interpersonale psichico e fisico  tra maschi e femmine delle vie spirituali d'oriente, inutile qui ripeterle. 

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L'apparente liberalità nelle immagini religiose dell'oriente deriva dal fatto che quella spiritualità  non è nemica o separata dalla vita, anzi è proprio attraverso l'integrazione dei due aspetti materialità e spiritualità che si manifesta la pienezza, l'integrazione dell'essere umano, da separato ed incompleto a "pieno" e portatore di un messaggio unitario. Si fa una analogia  con l’organismo vivente che è in stretta correlazione con tutto ciò che lo circonda. Ad alcune cose è affine ad altre è in antagonismo. Saper far fronte a situazioni estreme mantenendo un equilibrio di mente e di corpo, deriva dalla capacità dell’organismo di integrare e aggiustare al suo funzionamento le diverse energie vitali. L’acqua, il cibo, il freddo, il caldo, il moto, la quiete, il sonno la veglia, la pulizia e l’influenza spirituale…. la somma di tutti questi fattori, vissuti correttamente, è santità, anche nel senso di salute.

Diceva Anasuya Devi, una grande santa vissuta in Andra Pradesh,  una donna normale, sposata con prole e perfettamente integrata nella società e nella cultura indiana: "Giorno e notte sono ovviamente entrambi necessari. In assenza della relatività non potrebbe affatto esserci  creazione. Tutte le qualità che noi incarniamo sono già lì... tutte derivano da quel  Potere Originario. Non potrebbero esistere in noi se non esistessero già in Quello. Come succede per un commediografo che crea diversi personaggi dotando ognuno delle caratteristiche necessarie...”

L'iconografia  religiosa  dovrebbe mostrare queste immagini, di semplice e pura aderenza alla vita!

Paolo D'Arpini

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L’anomalia spirituale di Giordano Bruno nel contesto filosofico occidentale ed il seme di conoscenza da cui il suo pensiero deriva


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”Ah, la libertà! Così preziosa ma così “cara” e per i più così utopica….” (A.B.)
La differenza sostanziale nell’espressione religiosa fra oriente ed occidente è che in occidente la religione si considera con un inizio ed una fine mentre in oriente essa viene riconosciuta come “eterna”, senza inizio né fine.
Il cristianesimo ed anche l’islamismo, infatti, sono religioni che prendono l’avvio con la nascita dei loro rispettivi profeti, Cristo e Maometto, e ci si aspetta che si concludano con l’apocalisse. In India, in Cina e nel resto dell’Asia, invece, lo Spirito viene dichiarato antecedente e successivo ad ogni manifestazione vitale ed allo stesso tempo esso è sia immanente che trascendente. Questa differenza di vedute porta ad una sostanziale differenza nella gestione del fatto religioso. In oriente non esistono strutture di potere riconosciute come legittime custodi della religione, ciò che è eterno pensa a se stesso. In occidente al contrario si presuppone che la religione debba essere controllata e gestita da nuclei di potere ecclesiastico, proprio in considerazione della sua finitezza ed imperfezione, e questo per “evitare” devianze o eresie dalla norma consolidata.
Forse l’esempio ideologico di un potere sacerdotale centralizzato derivò dalla figura di Mosé il quale riportò ordine e regole nella religione “madre”, regole fatte in seguito proprie sia del cristianesimo che dell’islamismo. Ma il potere centralizzato è soprattutto presente nel cristianesimo, formandosi nei secoli un diritto assodato del vescovo di Roma di gestire in modo autonomo ed assolutistico le cose religiose e mondane connesse al credo cristiano. Questo semplice fatto ha comportato una “cura d’interessi” personalistica pure nei fatti dottrinali e nel riconoscimento di santità od eresia. Ad esempio andò bene a Francesco d’Assisi che venne ad umiliarsi a Roma e perciò ottenne l’autorizzazione papale e successivamente anche il riconoscimento di santità.
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Molto male, forse perché in quel periodo regnavano pontefici più gretti, andò al Savonarola od a Giordano Bruno che furono sacrificati sul rogo. Nel periodo storico in cui visse Giordano Bruno, in verità vi fu un certo fermento illuminista con Galileo Galilei che studiò il sistema solare e lo definì eliocentrico, oppure con Tommaso Campanella che si ispirò alla teoria neo-platonica per immaginare la sua “Città del Sole”. Purtroppo per Giordano Bruno la sua intuizione fu troppo grande e troppo incontrollabile per poter venir accettata dal papato, addirittura egli chiamò l’universo eterno ed infinito, senza centro né circonferenza. Una cosa del genere non poteva piacere ad un potere religioso che basava il suo essere sulla “finitudine, sulla limitatezza, sul peccato originale, sulla differenza fra Dio e creature, sulla necessità di un salvatore specificatamente indicato”.
Giordano Bruno fu troppo vicino nella sua espressione filosofica al “Sanathana Dharma”, l’eterna legge dell’essere (e del non essere), ben descritta dai saggi realizzati d’oriente… Ed allora che posto avrebbe avuto un papetto qualsiasi, un cardinaletto, un curato di campagna nel contesto di tale verità? Semplici figure immaginate e pretenziosamente costituite in veste istituzionale. Purtroppo l’abisso nel pensiero ed il rischio che questo avrebbe comportato alla continuità religiosa cristiana fu inaccettabile per i meschinelli capi religiosi della cristianità (una religione per altro inventata a tavolino). Così fu necessario che Giordano Bruno fosse immolato sul rogo, nel tentativo di distruggere assieme al suo corpo martoriato anche il suo pensiero. Ma andò così? No, la verità viene sempre a galla e sia pur ancora calpestata e misinterpretata essa alla fine trionferà ed in realtà sta già trionfando, poiché il finito non può assolutamente condizionare l’infinito. 
Paolo D'Arpini

 






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La scienza iniziatica e l'aldilà


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Chi si accosta alla Scienza iniziatica è obbligato a studiare la questione dell'aldilà. Ciò ha inizio con la conoscenza delle relazioni esistenti fra l'uomo e l'universo. Come l'universo, anche l'uomo è composto da varie regioni, ossia i suoi vari corpi – fisico, astrale, mentale, causale, buddhico e atmico –, tramite i quali è in relazione con tutte le regioni dello spazio. A seconda della natura dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti, dei suoi desideri e delle sue azioni, egli entra in contatto con il mondo della luce o con quello delle tenebre. 

Alla sua morte, l'uomo abbandona solo il suo corpo fisico. Se durante la sua esistenza si è sforzato di dominare le manifestazioni della sua natura inferiore, ha purificato il proprio corpo astrale e il proprio corpo mentale, e, per la legge dell'affinità, si dirige verso i piani astrale e mentale superiori, che sono mondi di bellezza e di gioia. Altrimenti viene trascinato verso l'astrale e il mentale inferiori, dove soffrirà. 

Prima di essere regioni dello spazio in cui l'uomo andrà a soffrire o a gioire dopo la sua morte, quelle che i cristiani hanno chiamato Inferno e Paradiso sono per prima cosa regioni che esistono in lui. Esse fanno parte di lui, ed egli non può evitarle.

Omraam Mikhaël Aïvanhov  

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Sunya o Vuoto (in chiave buddhista)


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“Prima di svuotare, bisogna riempire.
Prima di rimpicciolire, bisogna ingrandire.
Prima di cadere, bisogna salire.
Per distruggere qualcosa, portatelo all’estremo.
Per conservare qualcosa, tenetelo nel mezzo”

(Deng Ming Dao)


Il concetto di Sunya o Vuoto, in senso spirituale,  non è una prerogativa del solo Buddhismo. Esiste il Vuoto della tradizione taoista  e che ha persino un significato più attinente con la metafisica. Il Vuoto taoista è in realtà un Pieno in cui non  c'è possibilità di differenziazione. Questo Vuoto-Pieno fu definito "Tao".  Ma  se  questo Tao  al nostro percepire determinista  appare  come un nulla, che per noi  corrisponde alla  assenza  del sé,  ovvero la coscienza individuale, esso contemporaneamente segna il ritorno beato  nella  matrice naturalistica, basata sul silenzio della mente, che  nel suo incessante funzionamento attira  e proietta  l’esperienza  in forme  pensiero   e poi la riassorbe nel nulla da cui proviene.  Questa kenosi del Tao procede per sua propria natura e non presuppone alcuna volontà creatrice o distruttrice. E da qui si comprende la non  valutazione taoista per un Dio personale. 

Questa matrice universale, non differenziabile tra creatore e creatura, è in verità una "idea"  condivisa da tutte le filosofie nondualistiche,  è definita Tao o  Senza Nome, nel Taoismo; Brahman o Assoluto nell’Advaita;  Sunya o Vuoto nel Buddhismo.

D'altronde anche dal punto di vista empirico possiamo considerare che la cosiddetta sostanzialità percepita attraverso i sensi non è altro che una sorta di immagine che attraversa il flusso della Coscienza.  La mente può  solo “fermare” in una sembianza rappresentativa la vera natura dell'Essere, che si manifesta da sé come una “memoria” di quell’infinito (nel finito apparente…). 

La ragione cerca di descrivere  la sostanzialità dell'immagine percepita  ma  solo l’intuito può farci “intravvedere” la sua reale natura.  

Tutto avviene nella Coscienza per mezzo della Coscienza. In tal modo qualsiasi tentativo di “spiegazione” o "descrizione" della cosiddetta realtà empirica perde di valore essendo superato dalla successiva sovra-imposizione, un’onda continuata, un flusso di sensazioni e pensieri proiettati nella mente ma di cui la vera sostanza è la  Consapevolezza. E cosa è la Pura Consapevolezza, non contaminata da alcuna forma pensiero, se non un Vuoto/Pieno …? Una capacità indescrivibile, non controllabile dalla mente ma di cui la mente è una semplice espressione?

Il Vuoto, o l’Assoluto, insomma prevale sempre, tutto contiene e tutto trascende. Il  Vuoto perciò non è vuoto. E' l'espressione  di una energia spirituale  conosciuta nelle antiche tradizioni orientali come  energia primigenia. Questa energia non solo dà forma al mondo fisico, momento per momento, ma si relaziona con la coscienza individuale di tutti gli esseri. 

La scienza contemporanea, in termini quantistici,  rivela che la distinzione tra mondo materiale e spirituale è un errore. Non c'è dualità, l'universo è la manifestazione di quell'unica  "sostanza"   e sia il mondo fisico che spirituale prendono forma da essa  che compenetra ogni cosa in quanto Coscienza.

La Coscienza non è ciò che appare nella coscienza, non è -per intenderci- sensazione, pensiero, emozione, intuizione, visione ma è quella luce che rende possibile ogni  percepire.  Ed infatti  neanche questa spiegazione fatta di parole  può qualificare o indicare la Coscienza. Questo mio è un futile tentativo di definire l'indefinibile... ogni definizione della "Coscienza" è contenuto e mai può essere contenitore.

Nello specifico torniamo ora ad analizzare il significato del "Sunya" in termini buddhisti.  Allorché nel buddhismo si parla di "estinzione" come la meta suprema della pratica   si intende l'estinzione dell'individualità, lo smascheramento della natura illusoria, non la cancellazione della Pura Consapevolezza priva di attributi e di identificazione.  Chiara fu la enunciazione di questi concetti da parte del massimo filosofo della "vacuità", Nagarjuna.  

Egli oltre l'impermanenza temporale,  indicò una ulteriore qualità nella non sostanzialità dei fenomeni: essi erano vuoti anche di una loro identità in quanto dipendevano uno dall'altro sul piano temporale.  Tutti i fenomeni  sono quindi privi di sostanzialità, poiché nessun fenomeno possiede una natura indipendente. Egli esprime la sua posizione in quella che è  un'opera capitale del buddhismo: le Madhyamakakarika, Stanze della via di mezzo. Nagarjiuna  riteneva che il linguaggio è inevitabilmente illusorio in quanto prodotto di concettualizzazioni ed è per questa ragione che egli rifiutò sempre di definirsi detentore di una qualsivoglia dottrina. Poiché l'esperienza della vacuità non è compatibile con alcuna costruzione di pensiero.  E l'idea stessa della vacuità rischia di essere pericolosa, se alla vacuità viene  attribuita una identità.
"La vacuità è una designazione metaforica - affermò il filosofo, aggiungendo - se il mondo fosse non vuoto, non si potrebbe né ottenere ciò che non si possiede già, né mettere fine al dolore, né eliminare tutte le passioni..."
E l'altro grande saggio buddista, Tilopa, disse: "Chi si aggrappa alla mente non vede la verità che sta oltre la mente. Chi si sforza di praticare il Dharma non trova la verità che è aldilà della pratica. Per conoscere ciò che è aldilà sia della mente che della pratica bisogna tagliare di netto la radice della mente e, nudi, guardare; bisogna abbandonare ogni distinzione e restare tranquilli..."

Pertanto si può affermare che il laboratorio di ricerca in senso buddista è  il proprio interno, la  Coscienza, e l’unica pratica consigliata è quella dell’introspezione.  Non vengono indicati metodi speculativi, piuttosto si cerca di portare l’intelligenza al limite della sua tendenza raziocinante, e questo conduce all'estinzione, ovvero al "Sunya" o Vuoto.

Paolo D'Arpini

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Il cristianesimo sovrapposto alla cultura tradizionale mediterranea


Ho ricevuto una lettera da un lettore il quale mi chiede: “Ultimamente è ritornata in voga, specialmente tra gli ambienti integralisti cristiano-cattolici, questa narrazione secondo cui l’Europa unita è nata cristiana ed è stata minacciata, nel corso della storia, dai vari scismi che la religione cristica ha avuto in particolare con Lutero e il protestantesimo. 
C’è un libro del 1932 ripubblicato di recente questo http://www.lindau.it/Libri/La-genesi-dell-Europa . A me sembra piuttosto che l’apporto dato dal cristianesimo sia stato insignificante rispetto alla grande eredità filosofico-culturale dell’antica Grecia e Roma. Ecco vorrei sapere se ci sono libri che contrastino questa tesi…”
Rispondo alla domanda relativa al cristianesimo. E’ in edicola il primo volume della storia della filosofia, primo volume filosofia greca, di Abbagnano (Euro: 1,90). Non è il solo che tratta con ampiezza di vedute il problema del FALSO sparso a piene mani dai cristiani nelle loro svariate manifestazioni. A questo testo va aggiunto qualche altro libro che qui voglio elencare: PORFIRIO, vangelo di un pagano. Eunapio, Vita di Porfirio. A cura di Angelo Raffaele Sodano (Rusconi, 1993). Qui si parla in maniera chiara della co-presenza nel crogiolo del primo secolo imperiale, di una infinità di culture, filosofie, credenze, come ad esempio l’evangelo laico di Pitagora,…..” e, accanto a Pitagora, qualche gnome epicurea che probabilmente era stata già dai neopitagorici inserita nel loro corpus aforistico, in un sincretismo religioso-filosofico caratteristico dei primi secoli dopo Cristo” ( insomma 3-400 annetti…).
Se osserviamo il secolo nel quale viviamo con lo stesso interesse con cui cerchiamo di scoprire gli elementi sincretistici che caratterizzeranno le future religioni, assieme ai tentativi concreti della creazione di Palesi Nuove Religioni (sicuramente la formula più geniale è l’invenzione di Scientology da parte di un creativo scrittore di Fantascienza, la quale, presa nel suo insieme, dimostra quanto sia stata utile nell’acculturare le giovani generazioni). Per tornare ai Vangeli, è chiara l’intenzione di creare una nuova mitologia basata sul mito bellico. In sostanza si tratta della diffusione del Neoplatonismo nella Giudea, contrastata dalla vecchia casta sacerdotale, che uccide il suo promotore: Gesù.
Infatti, se leggiamo con attenzione le risposte di Gesù a coloro che gli fanno le domande, possiamo osservare con un pizzico di attenzione e di cultura, che si tratta di risposte già confezionate da Seneca, il quale aveva soggiornato ad Alessandria, crogiolo del Cristianesimo. Un altro testo essenziale, edito da Rusconi è: “Filone. Commentario allegorico alla Bibbia”. A cura di Roberto Radice. Chi è stato Filone? Colui che ha inserito la Bibbia (la Bibbia dei 70, comunque) all’interno di un processo di sincretizzazione. Infatti: che significa commentario allegorico? Che si ritiene che l’unica spiegazione degli eventi narrati in quel testo sia da interpretarsi come una ALLEGORIA. Quindi si da per scontato che quei testi NON siano VERI. E d’altronde la prova ce la fornisce Mauro Biglino, grande conoscitore delle lingue della Bibbia, che nessun pretonzolo osa contestare.
Giorgio Vitali

Con l' "Origine della Specie" di Darwin si passa dall'autorità "divina" all'autorità della scienza

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Quando nel 1859 fu pubblicata l’opera fondamentale di Charles Darwin (1809-1882) – “L’Origine della Specie” – essa costituì una rivoluzione culturale paragonabile a quella che era stata nel ‘500 e nel ‘600 la rivoluzione copernicana, sviluppata poi magistralmente da Giordano Bruno, Galilei e Keplero.(1)(2)(5) Venivano di fatto messe in discussione da uno scienziato, di per sé prudente e moderato, e niente affatto rivoluzionario, l’autorità delle “Sacre Scritture” – molto stimate nell’Inghilterra di inizio ‘800 - , l’età della Terra e dell’Universo (considerata di poche migliaia di anni nella Bibbia), il mito della “Creazione Divina”, e la centralità della specie umana nel mondo (dovuta alla tradizione religiosa ed aristotelica).


L’opera di Darwin era stata in realtà preceduta da altre opere scientifiche e filosofiche. Senza voler risalire ai primi accenni di teoria evoluzionista presenti nella filosofia naturalista dell’antica Grecia - in Anassimandro ed Empedocle - e nella concezione di un mondo eterno in continua trasformazione – come nell’opera di Democrito, ed in quella cinquecentesca di Giordano Bruno – basterà ricordare le teorie evoluzioniste di epoca illuminista espresse da Maupertois, Buffon e Diderot e – in Inghilterra – dallo stesso nonno di Charles: il biologo Erasmus Darwin. Il più importante predecessore di Darwin era stato il francese Lamark, sostenitore della teoria della trasmissibilità ereditaria delle variazioni biologiche dovute all’ambiente e di un (presunto) processo di perfezionamento progressivo delle specie viventi. Sulle orme di Lamark, Geoffrey Saint-Hilarie aveva polemizzato con Cuvier, sostenitore – come Aristotele – della fissità delle specie, il quale per giustificare la sparizione di intere specie (ritrovate come fossili) aveva sostenuto la teoria delle catastrofi naturali.

Negli anni precedenti l’opera di Darwin, il suo amico, l’intelligente geologo Charles Lyell (1797-1871) aveva contestato in una sua opera molto nota la teoria delle catastrofi, sostenendo la progressività delle trasformazioni geologiche in un lunghissimo intervallo temporale (teoria detta “Uniformismo”). Due studiosi britannici, Patrick Matthew (1790-1865) e Robert Chambers (1802-1871) avevano sostenuto teorie evoluzioniste.

Darwin aveva studiato scienze naturali ad Edimburgo e Cambridge, ma poi – senza completare gli studi – aveva accettato di lavorare come esperto sulla nave “Beagle” nel suo viaggio di esplorazione scientifica intorno al mondo iniziato nel 1831. Ebbe così la possibilità di raccogliere un gran numero di dati sulle caratteristiche biologiche di varie specie, in particolare osservando gli uccelli nelle isole Galapagos. Al ritorno in Inghilterra, influenzato anche dalle sue osservazioni sulle specie domestiche che gli allevatori riuscivano a modificare con gli incroci sfruttando minime differenze iniziali, e dalla conoscenza delle opere di Lamark ed Alexander Humboldt , nonché dalle teorie di Malthus, già negli anni ’30 Darwin aveva messo a punto le sue ipotesi. Nel 1844 il grande biologo britannico aveva già realizzato una prima stesura della sua opera che però vide la luce solo 15 anni dopo su sollecitazione di Lyell ed altri amici, probabilmente perché Darwin si rendeva conto dell’inevitabile impatto sull’opinione pubblica ed il conseguente strascico polemico. L’accoglienza però fu favorevole in molti ambienti, anche per lo stile razionalista delle argomentazioni e la presenza di un gran numero di dati, a parte le inevitabili polemiche delle autorità ecclesiastiche. Lo stesso Marx si offrì di fare una presentazione del libro, rendendosi conto della sua importanza(3), offerta prudentemente rifiutata dal biologo.

Il nucleo dell’opera era la convinzione espressa che piccole differenze casuali riscontrate nelle specie viventi nelle generazioni successive avrebbero potuto offrire vantaggi o svantaggi nella spietata lotta per l’esistenza favorendo, nelle successive generazioni, individui aventi caratteristiche più adatte alla sopravvivenza, modificando così a lungo andare le specie. Tale teoria eliminava qualsiasi finalità (o “teleologia”) nella natura, sia di tipo religioso (come la presunta esistenza di piani provvidenziali), sia filosofico (come in Aristotele), e superava anche la concezione lamarkiana di trasmissibilità ereditaria diretta di caratteristiche acquisite a causa dell’ambiente. Felice Mondella, collaboratore di L. Geymonat nella stesura della nota opera(1), osserva giustamente che il meccanismo ipotizzato da Darwin (per cui da organismi unicellulari elementari si può giungere progressivamente ad organismi molto complessi) fornisce anche un principio, che se esteso anche al mondo inorganico con le dovute modifiche, potrebbe dar conto dell’affermazione degli antichi filosofi materialisti ed atomisti secondo cui oggetti complessi e mondi interi possano formarsi dall’unione casuale di atomi.

Nel 1871 Darwin pubblicò una seconda importante opera sulla “Origine dell’Uomo”, in cui attribuiva all’evoluzione anche lo sviluppo delle facoltà mentali.

Un attacco alle teorie darwiniane venne negli anni ’60 dal famoso fisico William Thomson (Lord Kelvin), di cui parleremo più diffusamente in un prossimo numero(4), che calcolò l’età della Terra in soli 20 milioni di anni (tempo troppo ristretto per permettere l’evoluzione delle specie viventi) sulla base di un calcolo del tempo di raffreddamento del pianeta. Thomson sbagliò per non aver tenuto conto del fatto che l’interno della Terra è ancora liquido e soggetto a moti convettivi che trasportano il calore, e che la radioattività (scoperta in seguito) apporta altro calore. I sostenitori di Darwin, tra cui lo stesso Lyell ed il biologo Thomas Huxley (1825-1896), grande diffusore delle teorie evoluzioniste, calcolavano giustamente tempi molto più lunghi. Oggi si sa che questo tempo è di circa 4,5 miliardi di anni.

Negli stessi anni ’60 del XIX° secolo fu pubblicata l’importante opera del monaco scienziato ceco Gregor Mendel (1819-1903), che incrociando varie specie di piselli ed altre piante aventi caratteristiche diverse, aveva constatato che nella prima generazione si manifestano dei caratteri “dominanti” che prevalgono nel 100% dei casi e dei caratteri “recessivi” che non si manifestano, mentre nelle seconde e terze generazioni i caratteri “dominanti” e “recessivi” si manifestano in proporzioni precise a seconda del tipo di incrocio effettuato. L’opera di Mendel, inizialmente ignorata, ma poi riscoperta e considerata fondamentale intorno al 1890, fu presentata come contraria alle teorie darwiniane e favorevole al principio di fissità delle specie. Gli studi di genetica sviluppati alla fine dell’800 e nel ‘900 hanno dimostrato che non vi è contraddizione tra le due teorie e che le piccole variazioni biologiche si presentano già in fase genetica.

La teoria della selezione naturale influenzò anche l’opera del filosofo inglese Herbert Spencer (1820-1903), che operò una sintesi (alquanto schematica e superficiale) tra il pensiero positivista e progressista di Comte (N. 76) e la teoria della selezione naturale, adottando un atteggiamento favorevole ad un capitalismo fortemente concorrenziale e ultraliberista in cui tutti sono in lotta tra loro per prevalere (“Darwinismo sociale”). Spencer affermò (giustamente) che tutta la realtà è in evoluzione, compreso il campo della conoscenza dove la stessa struttura della coscienza, i concetti ed i simboli sono frutto dell’evoluzione e delle condizioni storiche dell’ambiente. Aggiunse, però, che, essendo la conoscenza scientifica relativa, lascia un ampio spazio “inconoscibile” di cui solo la religione (considerata indispensabile da Spencer) può interessarsi.

Vincenzo Brandi

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L. Geymonat, “Storia del Pensiero Fil. e Sc.”, op. cit. in bibl.

C. Singer, “Breve Storia del Pensiero Sc.”, op. cit. in bibl.

F. Engels, “Dialettica della Nat.”, Ed. Riuniti, prefazione di Lombardo Radice, op. cit.

RBA, “Grandi Idee della Sc. – Kelvin”, op. cit. in bibl.

W. Adorno, “Storia della Fil.”, op. cit. in bibl.