L'oroscopo Maya, il sistema divinatorio Atzeco e le "visioni" di José Argüelles


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L’oroscopo maya è una "invenzione" di José Argüelles. Infatti i Maya  si erano già belli che estinti da parecchi anni prima della conquista  spagnola e quando Arguelles si dedicò allo studio del loro calendario  astrologico i reperti ai quali egli fece riferimento erano tutt’al più  riesumazioni avvenute durante la successiva cultura atzeca. 

Quella degli Atzechi erano la civiltà presente in Messico allorché  arrivarono i conquistadores ed il loro sistema zodiacale può essere  considerato affidabile e controllabile… 


Sembrerebbe invece che i maya avessero un loro sistema numerico e di 
calcolo da lungo tempo caduto in disuso. Generalmente, molti autori 
che se ne occuparono in passato lo trattarono con estrema sufficienza, 
qualificando i maya come una sorta di popolazione quasi preistorica, 
probabilmente perché non svilupparono una particolare metallurgia, e 
nemmeno la ruota. 

Certo, riguardo l’uso della numerazione, si può constatare che il 
calendario maya (lo tzolkin), od almeno il calendario che a loro viene 
attribuito, è estremamente razionale. L’anno solare è diviso in 13 
mesi lunari di 28 giorni + un giorno “senza tempo” (è detto così). 28 
x 13 + 1 = 365, e la scansione della rivoluzione terrestre intorno al 
sole è scansionata attraverso quella della luna, in modo più logico 
della suddivisione arbitraria in 12 mesi, alcuni di 30, altri di 31 ed 
uno persino di 28, ma una volta su quattro 29, giorni. chiunque può 
apprezzare il fatto che il ciclo lunare, oltre ad essere un orologio 
naturale, ha relazioni con l’agricoltura, i cicli mestruali femminili, 
e con alcuni cicli solari. 

Però da qui a fondare un mito sulle loro conoscenze astrologiche e 
divinatorie ce ne passa…. Ma per alcuni studiosi la capacità 
proiettiva dei maya, utilizzando i parametri menzionati, si estendeva 
sino a fornire tabelle di previsioni astronomiche su tempi 
eccezionalmente lunghi, fino alle decine di migliaia di anni. 
conteggiavano cicli di coordinazioni celesti fino a periodi di 40.000 
e 50.000 anni, prevedendo la comparsa di comete o congiunzioni 
particolari (vedi per esempio Michael Coe, i maya, thames and hudson, 
Londra, ed it newton compton). 

Beh, anche nella cultura vedica indiana c’era il vezzo di calcolare il 
tempo in eoni millenari.. ma evidentemente il gioco della matematica è 
una cosa mentre la conoscenza degli eventi futuri è un’altra. 

Insomma il calendario maya sembrerebbe una teoria inventata da un 
teorico New Age, cittadino statunitense, José Argüelles, a partire 
dagli anni 1970. Ma la sua materia di ricerca era storia dell’arte, 
non l’archeologia o la cultura Maya. Inoltre egli ha francamente 
dichiarato che molte sue teorie derivano da “visioni” che avrebbe 
avuto sotto l’influsso dell’LSD. Neppure un solo specialista 
accademico dei Maya ha mai preso sul serio Argüelles. 

Ma del sistema zodiacale azteco possiamo tranquillamente parlare, esso 
è ben documentato. 

Prima vediamo chi fossero questi Atzechi (o Mexica). Essi dominavano 
nel più grande splendore dal Messico al Nicaragua nel 1519 quando vi 
penetrarono i conquistatori spagnoli. Questo popolo originario di 
Atzlan ( forse l’attuale Utah) successe alle precedenti civiltà 
centro-americane: Olmeca, Maya e Tolteca . 

Sulla cultura Atzeca abbiamo notizie storiche affidabili, essendo la 
loro cultura pienamente viva sino a cinquecento anni fa. Tonalamatl 
era il libro della divinazione che contiene i misteri dell’oroscopo 
Atzeco, il calcolo dell’appartenenza ai vari segni era basato sul 
ripresentarsi ciclico di gruppi di sei anni distanziati da 13 anni 
ciascuno. I “segni” di appartenenza venivano calcolati nella 
suddivisione dell’anno in settori che comprendevano da 1 a 12 giorni 
ciascuno ripartiti fra i 20 archetipi originari. 

Detto così non sembra facile calcolare le caratteristiche di nascita 
ed infatti pare che questi elaborati calendari fossero accessibili a 
pochi eletti. Per accertare gli ascendenti, ad esempio, c’era un 
calendario composto di 18 mesi di 20 giorni, questa suddivisione 
consentiva di interpretare le caratteristiche del mese correttamente. 

I loro nomi sono molto evocativi: mese dell’Acqua (predisposizione 
alla magia), della Primavera (fascino), dei Fiori (generosità), dei 
Campi (ottimismo), della Siccità (ossessività), degli Alimenti 
(concretezza), del Sale (acutezza), del Mais (ambivalenza espressiva), 
delle Feste (generosità), del Fuoco (ambizione), della Madre Terra 
(tranquillità), del Ritorno degli Dei (capacità di osservazione), 
della Montagna (amore ed amicizia), della Caccia (passionalità), delle 
Piume (determinazione), della Pioggia (dispersione), degli Astri 
(concentrazione) ed infine della Crescita (ingegnosità). Ma ora 
torniamo ai 20 archetipi originari, essi sono: Vento (sincerità), 
Coccodrillo (simpatia), Aquila (esuberanza), Ocelot (ambizione), 
Coniglio (diplomazia), Capriolo (emotività), Fiore (istintività), 
Canna (contraddittorietà), Morte (fortuna), Pioggia (allegria), Erba 
(estroversione), Serpente (drammatizzazione), Pietra Focaia 
(indipendenza), Scimmia (idealizzazione), Lucertola (naturalità), 
Movimento (attività), Avvoltoio (metodicità), Acqua (volubilità), Cane 
(scrupolosità), Casa (vulnerabilità). 

Nella cultura Atzeca la teologia e gli aspetti caratteriali erano 
collegati, lo percepiamo ad esempio nell’inno dedicato alla Festa 
Venusiana. “Il fiore del mio cuore si è aperto, ecco la signora di 
mezzanotte, lei è venuta – nostra madre – lei è venuta, lei la dea 
Tamoanchan…”


Paolo D’Arpini


Catechesi religiosa ed etica laica a confronto




Un'idea morale ed un'etica utopica esercitano sovente un grande appeal attrattivo su molti intellettuali. Come tutte le idee aldilà della portata attuativa rischia però di diventare un’altra forma di “ismo”, una ideologia  che si prefigge attraverso i suoi propagatori di elevare la coscienza con il solo risultato di contribuire a ulteriormente dividere la società umana in “credenti” e “infedeli”, buoni e cattivi. Insomma una religione che inneggia alla morale ed all'etica manca spesso  di capacità attuativa e come tutte le finalità religiose resta un ideale alla portata di pochi “eletti” disgiunti dal contesto umano.

Ritengo personalmente che per andare verso una consapevolezza della comune appartenenza e della pari dignità e complementarietà delle forme vitali e delle reciproche relazioni fra specie, sia importante che vengano innanzitutto riconosciute le differenze per poter allo stesso tempo riconoscere l’eticità naturale nel loro rapporto,  senza forzare la natura.

L’astrazione del pensiero trasformato in “morale” non aiuta la manifestazione di una spontanea “compassione” che sorge in un interspecismo maturo. Tutti gli esseri viventi attingono e si originano dalla comune matrice che differenziandosi ha assunto le innumerevoli forme, ognuna complementare e relata alle altre, ognuna con alcuni aspetti evolutivi utili al mantenimento della vita ed alla ulteriore propagazione e fioritura di nuove specie. L’uomo non è l’ultima parola in natura e questo deve essere sempre presente nella considerazione di chi si pone il “problema” del bene collettivo.

“L’uomo che non voglia far parte della massa non ha che da smettere di essere accomodante con se stesso; segua piuttosto la propria coscienza che gli grida: ’sii te stesso! Tu non sei certo ciò che fai, pensi e desideri ora’. Ogni giovane anima sente giorno e notte questo appello e ne trema; infatti presagisce, rivolgendo il pensiero alla sua reale liberazione, la misura di felicità destinata dall’eternità; felicità che non riuscirà mai a raggiungere se incatenata dalle opinioni e dalla paura. E quanto assurda e desolata può divenire l’esistenza senza questa liberazione! Nella natura non c’è creatura più vuota e ripugnante dell’uomo che è sfuggito al suo genio e ora volge di soppiatto lo sguardo a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Un tale uomo alla fine non lo si può neppure attaccare: è solo esteriorità senza nucleo, un marcio costume, pitturato e rigonfio, un fantasma agghindato che non può ispirare paura e tanto meno compassione.” (Friedrich Nietzsche)

C'è poi una differenza sostanziale tra la morale e l'etica, che derivano da una catechesi religiosa, ed un giusto comportamento naturalistico. Tanto per cominciare osserviamo che i dettami religiosi, apparentemente utili alla convivenza sociale ed al rispetto per la natura e per i propri simili, hanno una origine chiaramente antropocentrica, non rivolta al miglioramento generale della qualità della vita, in senso fisiologico, bensì all'ottenimento di meriti o demeriti i cui risultati saranno usufruibili in un “post mortem”. Qui soprattutto stiamo parlando degli insegnamenti delle religioni monolatriche di origine giudaica poiché altre “religioni” -soprattutto orientali ma anche quelle di carattere matristico  dell'Antica Europa- nelle loro espressioni non  riconoscono l'esistenza di un “Dio” personale creatore e giudicante le sue creature,  bensì di un evolversi spontaneo dell'esistenza che sempre tende alla crescita coscienziale. Le religioni monolatriche, ebraismo, cristianesimo ed islam, esprimono dettami che soddisfano la presunta volontà del demiurgo adorato, quindi il premio od il castigo sono condizionati dall'aderenza alle norme scritte (per altro da altri uomini autodefinitisi profeti o messia) attraverso le quali ottenere il passaporto per l'aldilà. Prova ne sia che – a parte alcune indicazioni alimentari, essenzialmente dovute a ragioni climatiche- tutti i comandamenti insegnati nella catechesi religiosa hanno una funzione moralistica  di controllo sociale.

La convivenza pacifica, la solidarietà fra umani ed animali, il rispetto della natura, non interessano queste religioni, tant'è che leggendo il corano, il vangelo e la bibbia troviamo numerose citazioni che incitano alla “guerra” ed alla distruzione degli “infedeli”. E' detto che “Dio creò l'uomo a sua immagine e somiglianza” forse sarebbe più corretto dire che tali uomini crearono un Dio a loro sembianza e piacimento. E qui parliamo specificatamente di “uomini” nel senso di maschi, maschilisti e dominatori, poiché le donne -come abbiamo visto in altre pubblicazioni- sono considerate esseri inferiori, quasi al livello degli animali. La morale religiosa è misogina e contro natura e se un obbligo viene stabilito ha sempre un risvolto utilitaristico che non tiene conto dell'etica universale.

Faccio un esempio concreto nell'uso prevaricatorio consentito verso i nemici, gli animali e le forme di vita in generale. Il nemico sconfitto diventa succube e schiavo, gli animali sono oggetto di sfruttamento senza limiti, la natura viene considerata serva passiva delle necessità umane –o presunte tali- senza tener conto delle conseguenze. In realtà l'etica “religiosa” non esiste affatto è solo una parvenza poiché non tiene conto del contesto in cui si manifesta, delle diverse situazioni o della universalità nella sua attuazione. Per la bibbia Dio è al disopra di noi e l’uomo è un peccatore senza alcun potere, quindi egli non può evolversi e redimersi se non attraverso l'ubbidienza ai dettami impartiti dai suoi ministri. Da ciò ne consegue che ci sono nella società umana figli e figliastri, o addirittura esseri sub-umani esclusi dal conteggio. Il beneficio della “misericordia” è estensibile -ad esempio- solo a quelli che fanno parte del “popolo eletto”, ai membri della stessa parrocchietta, e non a tutti indistintamente  (basterebbe in tal senso leggersi le ingiunzioni della Torah).

Purtroppo questo atteggiamento fariseo è stato in parte ripreso anche dalla scienza in cui si tiene conto del “bene” e dell'utilità di ogni scoperta tesa allo specifica vantaggio dell'uomo, in quanto specie dominante. O peggio ancora dell'uomo in quanto società dominante. Basti vedere la continua ricerca di armi di distruzione di massa portata avanti dalle elites al potere, per questioni di dominio, senza considerare le conseguenze nell'uso di tali “invenzioni”. Vorrei anche portare l'esempio del sistema medico farmaceutico basato sulla vivisezione, introdotta prima negli USA e poi adottata nel resto della società “civilizzata”. La fisiologia di un topo o di un cane è totalmente diversa da quella di un essere umano ma si è fatto obbligo -prima di dichiarare un medicinale adatto all'uso umano- che ne venga testata la validità sugli animali. Ovvero gli animali vengono fatti soffrire volontariamente con il fine “etico” di salvaguardare la salute umana, per altro cosa che la sperimentazione su animali non potrà mai dimostrare poiché basata sugli esperimenti su specie diverse dall'uomo. Volendo restare in  questo  filone "etico-utilitaristico" possiamo notare che lo sfruttamento del mondo animale per fini voluttuari ha raggiunto livelli assolutamente privi di ogni eticità, forse perché nella bibbia è detto che gli animali possono essere usati a piacimento dell'uomo, questa è la concessione che il demiurgo fece nell'alleanza stipulata con Noè dopo il diluvio universale.

Allora dove può risiedere il vero senso dell'etica? É ovvio che va ricercato in se stessi, nella propria esperienza di vita, nella capacità empatica che sviluppiamo attraverso l'osservazione delle cause ed interazioni  del bene e del male e che riconosciamo anche  in noi stessi, vedendoli rispecchiati  negli altri. Il ruolo della persona etica  è proprio quello di saper vivere senza nuocere. Questo  riferimento preciso al valore della persona “in quanto depositaria della prima scintilla di Coscienza dalla quale tutto deriva” rientra nell’ambito della Spiritualità Laica e non ha nulla a che vedere con la religione. Se si vuole ottenere chiarezza nella vita, non serve studiare gli insegnamenti religiosi ma approfondire solo una ricerca. Quale? La ricerca di se stessi in se stessi. Perché dentro ognuno di noi ci sono tutte le risposte.

Scrive il celebre pensatore Henry Corbin: “Mancando la persona, assente ciò che ne rende possibile la preminenza, ci troviamo di fronte al nichilismo agnostico: non c’è più nessuno; l’uomo è scomparso”.

Quindi la vera fonte dell'etica universalista risiede nell'esperienza e nel riconoscimento della comune appartenenza e del pari valore che ogni fenomeno o ogni altro essere condivide con noi, attraverso il nostro rapporto  empatico. La libera crescita della coscienza non è descrivibile od etichettabile, come potrebbe esserlo la mente od il corpo, è il risultato di un approfondimento evolutivo nella conoscenza di sé e del nostro prossimo. Ne deriva una capacità di guardare ai diversi  modi espressivi della vita con comprensione ed accettazione. Infatti, l'adesione ad una specifica credenza, ad una scuola, ecc., non ha valore quale supporto legittimo per diventare fonte di danno per sé e per gli altri. Notiamo che il senso etico prevalente nel mondo in cui viviamo è il risultato di un simile errore perpetrato soprattutto dalle tre principali religioni monoteistiche.

Ovviamente nella ricerca del proprio Sé non possiamo fermarci alla conoscenza della “persona”. La persona ci consente di apprendere i vari modi espressivi della mente, comuni a tutti, e quindi di poter rispettare gli altri come noi stessi, ma il passo successivo di un'etica matura deve indirizzarsi verso il “transpersonale”, da qui sorge un distacco, una consapevolezza del significato dei miti, riconoscendoli simbolicamente, ed è a questo punto che irrompono gli archetipi primordiali ed il vuoto al limite della mente. Questo stato viene descritto da Gurdjeff come “negatività purgatoriale” una condizione preliminare alla perdita della fissità individuale e foriera  dell’assorbimento nel Sé. Questa consapevolezza-testimonianza, chiamatela se volete “essenza sottile”, è come un aroma che emana dalla materia, dal che se ne deduce che non  può esserci separazione fra la materia e lo spirito. Nemmeno può esserci vantaggio personale a scapito altrui, poiché siamo in un unicum.

Non si pensi però che lo  stato di totale empatia possa essere raggiunto attraverso uno studio od una comprensione intellettuale poiché l’intento è un aspetto della mente, mentre la consapevolezza – che è pura coscienza – consente il manifestarsi di tutti i processi che appaiono nella mente ma non ne è toccata. In verità questo stato di assoluta libertà è già presente e connaturato in noi, ma è stato oscurato da una mole di credenze e false nozioni su noi stessi e sul mondo percepito come separato da noi. Questa separazione è fonte di angoscia ed è proprio per questa ragione che le filosofie orientali, in particolare il buddismo, si sono indirizzate verso il superamento della sofferenza. Per ottenere ciò dobbiamo compiere una rivoluzione a 180 gradi. Per essere in armonia con noi stessi e con tutto ciò che ci circonda occorre ribaltare il concetto egoico antropocentrico che ha generato negli ultimi millenni carneficine inimmaginabili, desertificazioni immense, saccheggi di luoghi incontaminati e indifesi. Jean-Paul Sartre diceva che dal mancato incontro con l'altro derivano le sofferenze e il dolore che gli uomini si infliggono l'un l'altro.

Nel non credere alle norme precostituite, alle abitudini del mondo,  c'è la chiave per la liberazione. “Non credere in quello che dico. Non prendere dogmi o libri come infallibili. Non credere agli altri e non credete nemmeno ai maestri. Non credere a nessuno e questo è il mio unico vero insegnamento che ti darò. Non credere mai!” (Buddha)

Nelle forme più raffinate del buddismo, come ad esempio nella sistema Zen, molta importanza si da all'empatia che si sviluppa attraverso i rapporti interpersonali. Godendo e soffrendo assieme agli altri. Il vero altruismo è però un'arte che occorre sviluppare, poiché se è facile condividere la gioia risulta più difficile condividere la sofferenza. In tal senso l'adepto zen “assisterà” il sofferente invitandolo a superare il dolore nel modo giusto. Gli suggerirà di non aspettarsi consolazioni o che sia il tempo a portare la guarigione, gli farà capire che potrà vincere il suo dolore solo accettandolo come parte del suo destino. Chi è capace di tanto riesce a sopportare la propria sofferenza e se ne libera. Questa liberazione porta alla guarigione tanto più sicuramente quanto più sinceramente si partecipa al dolore altrui, cioè quanto più sensibili si diventa verso il dolore di chiunque. Il sofferente, reso cosciente da questa radiografia del suo stato d'animo, percepisce direttamente che a liberarlo dal dolore non è il rifiuto dello stesso né la fuga dall'esistenza. Questa è una genuina forma di etica altruistica.

Ma ora vediamo più in dettaglio come viene affrontato il concetto di “etica” in altre filosofie orientali. Questo concetto, ad esempio, non è contemplato nel taoismo, poiché l’etica appartiene al ragionamento e quindi al cervello logico. Ovvero è una costruzione mentale speculativa e preordinata. Una sorta di condizionamento che subentra in seguito all'accettazione di regole comportamentali. Nel taoismo non vi sono regole codificate, tutto l'agire avviene nella spontaneità e nell'idoneità di rispondere alla situazione corrente. L'etica viene considerata una sorta di calmieratore per regolamentare i rapporti interpersonali nella società, ciò comporta il predominio della coscienza razionalista, la parte giudicativa della mente prende così il sopravvento nel funzionamento e da qui l'insorgere delle religioni, del sistema gerarchico e della arroganza dell’uso nei confronti delle altre creature e della natura. Da una parte si opprime considerandolo un proprio diritto e dall’altra si difende in considerazione della propria “superiorità” ideologica (etica).

Nel Hua Hu Ching è detto: “Agli altri esseri comuni spesso si richiede tolleranza. Per gli esseri integrali non esiste una cosa come la tolleranza, perché non esiste nessuna cosa come le altre. Essi hanno rinunciato a tutte le idee di individualità e ampliato la loro buona volontà senza pregiudizi in qualunque direzione. Non odiando, non resistendo, non contestando. Amare, odiare, avere aspettative: tutti questi sono attaccamenti. L’attaccamento impedisce la crescita del proprio vero essere. Pertanto l’essere integrale non è attaccato a nulla e può relazionarsi a tutti con una attitudine non strutturata.”

Nel taoismo, che propriamente è una forma di naturalismo vissuto senza enfasi, si indica l’astenersi dagli eccessi, sia in positivo che in negativo, come un naturale atteggiamento di vita. Si comprende il bene ed il male ma non si predilige né l’uno né l’altro. Il bene (Yang) ed il male (Yin) sono i due aspetti del manifestarsi della esistenza su questa terra. Ed è per questa ragione che i taoisti irridevano il buon Confucio che da razionalista convinto spingeva per un’etica sociale e politica, mentre essi si limitavano a permanere nella propria natura originale. Rispettando le propensioni naturali, non governandole quindi per convenienza utilitaristica. Occorre superare il  distacco che ha portato quasi a radicalizzare il conflitto tra spontaneità e retorica, e ciò senza voler efficientemente promuovere ed affermare e ri-pensare la verità della propria natura originaria in quanto risultato di una  concezione “etica”.

In definitiva secondo il taoismo etica e morale son due pensieri cangianti e relativi, due qualità utili semplicemente alla convenienza sociale, due forme ipocrite di asservimento alle consuetudini. Infatti la morale e l’etica sono state usate da tutte le religioni come bandierine simboliche per giustificare il “bene” programmato a sistema.

Paolo D'Arpini - spiritolaico@gmail.com





“Discard all traditional standards. Leave them to the hypocrites. Only what liberates you from desire and fear and wrong ideas is good. As long as you worry about sin and virtue you will have no peace.” (Nisargadatta Maharaj)

Disciplina e meditazione... secondo Osho


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DomandaOsho, per favore puoi parlare di disciplina e meditazione?

Osho: Niten, è una domanda molto strana, perché tutti i giorni, mattino e sera, parlo di disciplina e meditazione. 
Se qualcuno leggesse la tua domanda, penserebbe che devo parlare di disciplina e meditazione per la prima volta! Dove sei stato finora? Mi ricordi due vecchi amici che si incontrarono sulle strade di Leningrado…

“Come ti sta trattando la vita?” chiede uno.
“Benissimo” risponde l’altro.
Il primo lo guarda dubbioso e dice: “Hai letto i giornali?”.
“Certo” risponde l’altro “altrimenti come farei a saperlo?”.

Le persone conoscono la loro vita leggendola sui giornali… Io vi ho parlato ogni giorno di meditazione e nient’altro. E tu mi chiedi…
Va be’...

Una vecchia signora ebrea si ritrova seduta in aereo vicino a un norvegese grande e grosso. 
Lo fissa per un po’ e alla fine gli chiede: “Perdonami, sei ebreo per caso?”.
“No” risponde l’uomo. 
Passano alcuni minuti, poi lei lo guarda di nuovo e dice: “Puoi dirmelo, dai. 
Sei ebreo, vero?”.
Lui risponde: “Assolutamente no”.
Lei continua a studiarlo e poi gli dice ancora: “Sono sicura che sei ebreo!”.
Per farla smettere di infastidirlo, il norvegese le dice: “Ok, sono ebreo”.
Lei lo guarda e, scuotendo la testa, dice: “Davvero? Non lo sembri affatto!”.

Mi chiedo da dove cominciare! Niten, la meditazione è l’unico contributo che l’Oriente abbia apportato all’umanità. L’Occidente ha offerto molti contributi, migliaia di invenzioni scientifiche, immensi progressi nella medicina, incredibili scoperte in tutte le dimensioni della vita. Eppure, questo singolo contributo dell’Oriente è molto più prezioso di tutti i contributi dell’Occidente.
L’Occidente si è arricchito, ha tutta la tecnologia per produrre ricchezza. L’Oriente è diventato povero, immensamente povero, perché non ha cercato nient’altro che una cosa: il proprio essere interiore. La sua ricchezza è qualcosa che non può essere visto, ma che ha raggiunto le più alte vette della beatitudine, le più grandi profondità del silenzio. Ha conosciuto l’eternità della vita; ha conosciuto la più bella fioritura di amore, compassione, gioia. Tutto il suo genio è stato dedicato a una singola ricerca: puoi chiamarla estasi.
La meditazione è solo una tecnica per raggiungere uno stato estatico, uno stato di ebbrezza divina. È una tecnica semplice, ma la mente la rende molto complessa. La mente deve renderla molto complessa e difficile, perché non possono esistere insieme.
La meditazione è la morte della mente.
Naturalmente, la mente oppone resistenza a ogni sforzo verso la meditazione. Ma se vai avanti, senza ascoltare la mente... 
La meditazione inizia quando ci si separa dalla mente, diventando testimoni. Questo è l’unico modo per separarsi da qualsiasi cosa. Se stai guardando la luce, una cosa è certa, tu non sei la luce, la stai solo guardando. Se stai guardando dei fiori, è certo che tu non sei i fiori, sei colui che li osserva.
Osservare è la chiave della meditazione: osserva la tua mente.
Non fare nulla, non ripetere dei mantra, non c’è bisogno di ripetere il nome di dio, osserva solo la mente, qualunque cosa stia facendo. Non disturbarla, non porle limiti, non reprimerla; non fare nulla, sei solo un osservatore e il miracolo dell’osservazione è meditazione. Mentre osservi, un po’ alla volta la mente si svuota dai pensieri; ma non ti stai addormentando, stai diventando più attento, più consapevole.

Quando la mente è completamente vuota, tutta la tua energia diventa una fiamma di risveglio. Questa fiamma è il risultato della meditazione. Quindi possiamo dire che la meditazione è sinonimo di guardare, testimoniare, osservare, senza alcun giudizio, senza alcuna valutazione. Solo guardando, si esce immediatamente dalla mente. L’osservatore non è mai parte della mente e mentre diventa sempre più forte e radicato, la distanza tra lui e la mente continua ad aumentare. Presto, la mente sarà così lontana che a malapena ti accorgerai che esiste... è solo un’eco in una valle lontana. E alla fine, anche quell’eco scompare. Questa scomparsa della mente non comporta alcuno sforzo da parte tua, non dovrai operare nessuna forzatura per combattere la mente, semplicemente la lascerai morire della sua stessa morte. Una volta che la mente sarà assolutamente silenziosa, completamente sparita, non riuscirai più a trovarla. Per la prima volta, diventerai consapevole di te stesso, perché quella stessa energia che prima era impegnata nella mente, non trovandola più, si ripiegherà su se stessa. Ricorda: l’energia è un movimento costante.
Diciamo che le cose sono oggetti e forse non ti sei mai chiesto perché le chiamiamo così. Sono oggetti perché ostacolano l’energia, la consapevolezza. Dal momento che obiettano (Il termine object in inglese traduce sia “oggetto” che il verbo “obiettare”, da qui il doppio senso, N.d.T.) sono degli ostacoli. Ma quando non c’è nessun oggetto, tutti i pensieri, tutte le emozioni, tutti gli stati d’animo, tutto scompare. Sei nel silenzio totale, nel nulla (ingl. nothingness), o meglio nell’assenza di cose (ingl. no-thingness); tutta l’energia inizia a ripiegarsi su se stessa. Questa energia che ritorna alla fonte, porta immenso piacere. Proprio l’altro giorno, ho citato William Blake: “L’energia è puro diletto”. Quell’uomo, anche se non è stato un mistico, deve aver provato qualche bagliore di meditazione. Quando la meditazione ritorna alla sua fonte, esplode in un immenso piacere. Questa gioia nel suo stato finale è l’illuminazione. 

Qualunque cosa ti aiuti a passare attraverso questo processo di meditazione è disciplina: potrebbe essere un bel bagno, in modo da essere fresco e pulito; o sederti in una posizione rilassata a occhi chiusi, senza essere né affamato né troppo sazio; o sederti in una postura molto rilassante, controllando tutto il corpo, ogni sua parte, per vedere se c’è tensione. Se c’è tensione, cambia posizione e fai in modo che ogni parte del corpo sia rilassata. 
I fondamenti della disciplina sono un corpo rilassato e gli occhi chiusi, perché se hai gli occhi aperti, tutto ciò che si muove può creare disturbo. 
Va bene che i principianti usino una mascherina per gli occhi, in modo da essere completamente dentro, perché gli occhi, i sensi, ti portano fuori. La vista ricopre l’ottanta percento del contatto con l’esterno. L’ottanta per cento avviene attraverso gli occhi, quindi chiudili...

Tratto da: Osho, The Invitation #21
 (Fonte: Osho Times n. 251)  

Sufismo - La visione islamica del Grande Uno


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Personalmente non sono seguace di alcuna religione per cui l'idea di favorire l'islam mi è completamente estranea. Non posso per altro ignorare l'aspetto specifico dell'influenza islamica che sta aumentando qui in Italia dovuta a vari fattori e sono consapevole dell'ottusità insita anche nell'islam... Ma il sufismo merita tutto il nostro rispetto prova ne sia che è considerato "eretico" all'interno dell'islamismo sunnita e sopportato a malapena in quello sciita. 
 
La tradizione sufista ha collegato Ermete a Enoch, che è presente nel Corano sotto i tratti del profeta esoterico Idrîs. Idrîs, con l' appellativo di Khidr (il Verde) è l'iniziatore segreto dei grandi maestri sufi. Altro iniziatore alchemico è nel Corano il profeta Salomone. Da Pitagora invece i sufi trassero la scienza dei numeri (abjad) e la "sezione aurea" che applicarono egregiamente nelle loro costruzioni (ne sono esempio in Turchia le costruzioni selciukidi dall' XI° al XIII° secolo). Dirò per inciso che i testi greci di scienza e di esoterismo furono conosciuti in Europa non dagli originali greci ma dalle traduzioni in arabo che ne fecero i sufi. 
 
Il Sufismo è costituito in Ordini, o Confraternite. Confraternite ben organizzate sin dal X secolo. Un Maestro venerabile, due luci, un copritore esterno, e gli adepti, che si distinguono in apprendisti (murid), compagni (arîf: iniziato) e maestri (shaykh). Si riuniscono in una tekké, o zawiyya, o dergah: una Loggia, insomma; per solito il lunedì sera per le discussioni in comune e l'insegnamento evolutivo, spesso sulla lettura di tavole lasciate da grande Maestri del passato; il giovedì sera per il rituale del dhikr: la Rammemorazione di Dio.

Il sufismo è la corrente islamica che più si avvicina alle forme trascendenti di spiritualità laica non duale. Si può giungere al Non-dualismo attraverso varie vie, la vetta è uguale per tutti. Dipende dalle simpatie personali e dalle propensioni. Fra gli islamici chi segue questa via ha evidentemente una tendenza all'ascetismo mistico. Pur che anche nel sufismo sono stati espressi concetti "gnostici" e non-dualistici molto avanzati (vedi i detti di Rabia) e  la lettura dei poemi di Rumi ed Hafiz ce ne forniscono un valido esempio.

Il fatto che si possa giungere all'Uno seguendo una qualsiasi religione pone però la necessità di abbandonare il credo religioso il momento che si vuole penetrare ed essere compenetrati dall'Uno, sostituendo il "credere" con la diretta esperienza  La strada è utile per giungere al Tempio ma bisogna lasciarla per entrarci.

Dal punto di vista della "spiritualità sociale" (religiosa), al fine di una convivenza pacifica,  -comunque-  il sincretismo è vantaggioso come pure lo è l'abbandono di ogni dogmatismo. Ciò non esclude la continuità di partecipazione alla "forma esteriore" (spirituale) più consona ad ognuno di noi. E ciò vale anche per i seguaci delle religioni monoteiste, che hanno visto sorgere al loro interno "santi" e "saggi"  totalmente liberi da senso separativo.

Per cui anche l'approccio del sufismo è sicuramente valido, per chi lo sente affine alle proprie tendenze o tradizioni, mantenendosi integri nella fiducia e nella sincerità e nella onestà di "percorso".

In altro contesto qualcuno ha affermato: "ognuno per sé.. e Dio per tutti". Ove per Dio si intende il Tutto che in tutti è presente.

Paolo D'Arpini

Non dualismo e sufismo. L'eresia islamica

Celebrazione come atteggiamento di vita... secondo Osho


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DomandaOsho, puoi parlare della celebrazione? È possibile celebrare l’infelicità?

OshoÈ possibile, perché la celebrazione è un atteggiamento, quindi anche verso l’infelicità puoi assumere un atteggiamento di celebrazione. Ad esempio, se sei triste, non identificarti con la tristezza. Osservala, diventa un testimone e goditi i momenti di tristezza: ha anche lei la sua bellezza. Non osservi mai, ma ti identifichi così totalmente da non penetrare mai le meraviglie di un istante di tristezza. 

Se osservi, rimarrai sorpreso nel vedere quali tesori ti sei lasciato sfuggire. Notalo: quando sei felice non sei mai così profondo come quando sei triste. La tristezza ha in sé una certa profondità, la felicità è superficiale. 

Osserva le persone felici, le cosiddette persone felici. Le trovi nei club, nei ristoranti, a teatro... Sorridono sempre e sprizzano felicità da tutti i pori. Ma le troverai sempre poco profonde, superficiali, non hanno alcuna profondità. 

La felicità, come le onde, è solo sulla superficie: ha una vita superficiale. Al contrario, la tristezza ha profondità. Quando sei triste, non è un’onda di superficie, è come la fossa oceanica del Pacifico, che si inabissa per chilometri e chilometri. 

Entra nell’abisso, osservalo. La felicità è rumorosa, la tristezza contiene un suo silenzio. La felicità può essere paragonata al giorno, la tristezza alla notte. La felicità è simile alla luce, la tristezza all’oscurità. La luce va e viene, il buio rimane, è eterno. La luce arriva a volte, l’oscurità è sempre presente. 

Se entri nella tristezza, tutte queste cose saranno percepibili. All’improvviso ti accorgerai che la tristezza è presente, come un oggetto. Tu la osservi, diventi un testimone e, all’improvviso, inizi a sentirti felice. Una tristezza così bella! Un fiore dell’oscurità, un fiore di eterna profondità!
È come un abisso senza fondo, così silenziosa, così musicale. Non c’è rumore, nessun fastidio. Puoi sprofondarci dentro all’infinito e uscirne totalmente rinvigorito. È riposante. 

Dipende dall’atteggiamento: quando diventi triste, pensi che ti sia accaduto qualcosa di brutto. È solo una tua interpretazione che ti è accaduto qualcosa di brutto, perciò cerchi di evitarlo, vuoi sfuggirlo. Non ci mediti mai su. E allora ti viene voglia di vedere qualcuno, vai a una festa, in un locale; oppure accendi la televisione, la radio, o ti metti a leggere il giornale... Qualcosa che ti aiuti a dimenticare. 
Questo è l’atteggiamento errato che ti è stato inculcato: che c’è qualcosa di sbagliato nella tristezza. Non c’è nulla di male nella tristezza, è solo un’altra polarità della vita. 

La felicità è un polo, la tristezza è l’altro polo. La beatitudine è un polo, la sofferenza è l’altro polo. La vita è fatta di entrambi: una vita di sola beatitudine ha estensione, ma non ha profondità; una vita di sola tristezza ha profondità, ma nessuna estensione. Una vita fatta sia di tristezza che di beatitudine è multidimensionale: si dispiega contemporaneamente in tutte le dimensioni. 

Osserva la statua del Buddha, oppure, qualche volta, guarda nei miei occhi e troverai le due cose insieme: beatitudine, pace, ma anche tristezza. Troverai una beatitudine che contiene in sé anche la tristezza, perché quella tristezza dà profondità alla beatitudine. Osserva le statue del Buddha: è estatico, eppure triste. Per  te la parola “triste” ha una connotazione negativa: qualcosa non va. Questa è una tua interpretazione. 

Per me la vita è bella nella sua totalità. E quando comprendi l’esistenza nella sua totalità, riesci a celebrare, altrimenti non ce la fai.

Celebrazione significa che ciò che accade è irrilevante: io celebro. La celebrazione non dipende da determinate cose: “Celebro quando sono felice”, oppure: “Se sono triste, non celebro”. La celebrazione è incondizionata: io celebro la vita! Se porta infelicità, va benissimo: la celebro. Se porta felicità, va benissimo: celebro anche lei. La celebrazione è il mio atteggiamento, indipendentemente da ciò che la vita porta. 

Ma il problema si pone, perché quando uso le parole, nella tua mente hanno una certa connotazione. Quando dico: “Celebra” tu pensi che si debba essere felici. Come si può celebrare, quando si è tristi? Ma io non sto dicendo che si deve essere felici per celebrare: la celebrazione è gratitudine per tutto ciò che la vita ti offre. Qualsiasi cosa il divino ti offra, celebrazione è esserne grato. 

Questa storia l’ho già raccontata, ma ve la racconto di nuovo…
Un mistico Sufi molto povero, affamato e stanco del viaggio arrivò una sera in un villaggio e fu scacciato. Era un villaggio di musulmani ortodossi, persone molto difficili da convincere: non gli permisero di entrare in città. 

La notte era fredda, l’uomo aveva fame, era stanco, aveva abiti leggeri e tremava dal freddo. Si sedette sotto un albero, fuori dal paese. Si sedettero anche i suoi discepoli. Erano depressi, tristi e persino arrabbiati. 

Il mistico si mise a pregare e disse a dio: “Sei magnifico! Mi dai sempre ciò di cui ho bisogno!”. 
Questo era troppo! Un discepolo disse: “Aspetta un attimo, ora stai veramente esagerando! Queste parole sono false in una notte così: siamo affamati, stanchi, vestiti poco e la notte si fa sempre più fredda. Siamo circondati da animali selvatici, il villaggio ci ha buttato fuori e siamo senza un tetto. Per quale motivo ringrazi dio? Cosa intendi dire con quelle parole?”. 
Il mistico rispose: “È vero, lo ripeto: dio mi dà quello di cui ho bisogno. Questa notte ho bisogno di povertà, questa notte ho bisogno di essere scacciato, di avere fame, di essere in pericolo. Altrimenti, perché mi avrebbe dato tutto ciò? Dev’essere ciò di cui ho bisogno! È necessario e io devo esserne grato. Si prende cura dei miei bisogni in modo così bello: è veramente meraviglioso!”. 

Questo è un atteggiamento che non si preoccupa della situazione in sé: la situazione non è rilevante. 

Celebra, in qualsiasi caso. Se sei triste, celebra il fatto che sei triste. Prova! Se farai un tentativo rimarrai sorpreso, succede. Sei triste? Mettiti a ballare, perché la tristezza è così bella, è un silenzioso fiore dell’essere. Danza, gioisci e, all’improvviso, sentirai che la tristezza sta scomparendo, che si crea una distanza. Un po’ alla volta ti dimenticherai della tristezza e ti ritroverai a celebrare: hai trasformato l’energia. 

Questa è alchimia: trasformare il metallo comune in oro puro...
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Tratto da: Osho, Yoga: Potenza e libertà, Oscar Mondadori

Lo zen marziale di Tsuji Gettan, il samurai


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Chiunque  pratichi Arti Marziali deve essere consapevole che il combattimento rappresenta solo una parte di esse.  L’arte Marziale è un cammino che ci insegna e ci fa riflettere su discipline quali la filosofia, l’etica, la medicina e molto altro. Dopo questa breve introduzione è il momento di parlare di Tsuji Gettan, un leggendario praticante di Arti Marziali.

Tsuji Gettan fu un samurai che visse dal 1647 al 1726 nell’antico Giappone, esperto nell’arte della spada combinata alla filosofia Zen, era  stimato nel  paese anche per la sua saggezza. Egli viene ricordato non solo per la sua abilità nel combattere ma anche per i suoi scritti. era raro a quell’epoca che un samurai sapesse scrivere bene come gli accademici e le persone colte. Le opere di Gettan invece, erano considerate tra le migliori dell’impero. Per i contemporanei  di Gettan che cercavano fama e gloria fu  una fortuna che Gettan non interessasse essere il numero uno nel combattimento. Utilizzò la sua abilità per aiutare i bisognosi, cosa assai poco comune in quell’epoca.
In un’occasione, dopo una lunga meditazione tra le montagne, percorrendo la strada verso una città, venne a sapere che sette “ronin”  (samurai falliti, o samurai rimasti senza padrone per la sua morte o mancanza di fiducia) stavano spaventando la gente ed erano divenuti i padroni della strada. Quando si annoiavano minacciavano i poveretti che avevano la sfortuna di incrociarli. Per Gettan il comportamento di  quei ronin era chiaro. Volevano guadagnarsi il rispetto che loro stessi non erano capaci di offrire. Gettan andò a parlare con loro. Disse “non occupate tutta la strada. C’è molto posto. Anche gli altri vogliono usarla ed è un loro diritto.” i ronin erano sorpresi, ed intuirono che l’uomo venisse dalle montagne per gli abiti consunti e per il berretto. Uno di loro rispose. “Non osare parlarci col berretto in testa. Toglitelo affinché possiamo vedere il tuo viso, mostraci rispetto” gridò.

Gettan si tolse il berretto. i suoi capelli uscirono in tutte le direzioni e i suoi occhi guardarono i ronin.  Questi, vedendolo come fosse infuriato, scapparono via correndo.

Gettan disse allora “i persecutori sono persone spaventate che serbano in gran segreto la loro paura. Si muovono sempre in gruppo e dimostrano la loro forza. ma se infrangi quella crosta finiranno per piangere come bambini. E’ un peccato, perché non si rendono conto che la vita consiste nel dare e nel ricevere. E’ come essere circondati dagli specchi -quello che dai finisci per riceverlo-.

Raccontò  anche la storia della scimmia che vide un riflesso di se stessa nello specchio e che sorpresa per un immagine così orribile, dipinse lo specchio con del rossetto per rendere l’immagine più bella. Ma dato che l’immagine continuava a essere la stessa, la scimmia finì per diventare pazza e,  più pazza era,  più brutta diventava l’immagine. Si mise a correre attorno allo specchio e alla fine si accorse che quello che stava vedendo era un riflesso, un’illusione, ed allora si mise a ridere. Guardò lo specchio e più rideva più diventava bella l’immagine.
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(Fonte: http://www.circolovegetarianocalcata.it/2009/10/01/le-arti-marziali-come-esercizio-filosofico%E2%80%A6-l%E2%80%99avventura-spirituale-e-guerriera-del-samurai-tsuji-gettan/)

Lo zero e la matematica che misura l'infinito.... tra fisica e metafisica


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Molto spesso in questi tempi di desacralizzazione di qualsiasi argomento culturale, soprattutto sui social, si leggono post provocatori del tipo “Alì Salam Mohammed chiede che vengano adottati in Europa i numeri arabi... Condividi se sei indignato”. Lo scopo di questi post sarebbe quello di dimostrare l'invadenza islamica che chiede sempre maggiori concessioni alle democrazie europee: il velo per le donne, la sharia, nuove moschee, l'insegnamento del Corano nelle scuole, etc. etc. 

Ovviamente il post riguardante i numeri arabi è una provocazione e pure “bufalina” poiché i cosiddetti numeri arabi sono in realtà indiani, compreso lo zero che fu una “invenzione” degli antichi matematici e filosofi dell'India antica. 

L’India infatti ha svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo della matematica abbinata a concetti filosofici, il che è avvenuto durante il periodo vedico, che si fa risalire a qualche migliaio di anni avanti Cristo. Furono gli indiani a scoprire il sistema di numerazione posizionale, fondato sull’uso di nove simboli per scrivere tutti i numeri e dello zero (sistema decimale), essi formularono le regole per le quattro operazioni, risolsero equazioni di primo grado ed equazioni di secondo grado. Lo zero era trattato come tutti gli altri numeri e non come un numero che rappresentava “assenza di quantità”. 

L’India non è soltanto la patria dello zero e delle cifre che gli arabi molto successivamente portarono dall’India in Europa. Infatti, come ci informa la ricercatrice Martina Brocca, nei secoli antecedenti la nascita di Cristo, i matematici indiani furono i primi a sviluppare ricerche su teorie degli insiemi, di logaritmi, di equazioni di terzo grado, di equazioni di quarto grado, di estrazione di radici quadrate, di potenze finite e infinite e di algoritmi per il calcolo di numeri irrazionali, etc.

Ed i ricercatori e veggenti dell'antica India  non si limitarono ai numeri ma espansero anche lo studio e la comprensione delle forme. La particolare natura speculativa della cultura indiana fa sì che fin dai primordi le figure geometriche furono considerate un tramite con la divinità e perciò utilizzate a fini rituali. Lo stretto rapporto tra numeri e filosofia nella cultura induista ha rappresentato un motivo di sviluppo della scienza sia fisica che metafisica.

L’antica civiltà dell’Indo e del Saraswati (che si fa risalire a diverse migliaia di anni  a.C.)  per prima  sviluppò pesi e misure, in scala decimale, per pesare il grano e per fabbricare materiali edili per edificare le città. Saper fare calcoli astronomici era indispensabile per i mercanti dell’epoca vedica che guardavano al cielo per attraversare oceani e lande disabitate; per gli astronomi che crearono calendari precisi tenendo conto delle stagioni di pioggia per migliorare l’agricoltura; per i regnanti che amministravano il regno e per gli astrologi, che analizzarono l’influenza degli astri. Ma a motivare tale ricerca furono anche esigenze religiose-filosofiche: sia per il calcolo dell’area per i sacri altari del sacrificio, che come strumento per leggere l’universo e  raggiungere  l’illuminazione.  Lo spazio e il tempo erano percepiti come infiniti e nacque così un profondo interesse verso i numeri grandi.

La matematica vedica, ben prima che fosse riportata dagli arabi in occidente, fu la matrice di tutta la scienza dell'Europa antica. Ad esempio il famoso teorema di Pitagora lascia pensare che il grande filosofo greco fosse al corrente delle teorie matematiche indiane: il Sulva Sutra (VIII a.C) e il Shatapatha Brahmana (VIII-VI a.C.) le quali  provano che il teorema fosse già noto in India da secoli. 

Evidentemente le conoscenze che hanno permesso a Pitagora di elaborare le sue teorie, sono frutto dei suoi lunghi viaggi in Oriente e in India. Pitagora è considerato il padre dell’aritmetica in occidente, ai suoi studenti, che selezionava in base alla capacità di associare un messaggio ad un simbolo, soleva dire “tutto è numero”. Egli insegnò una teoria che lega la matematica alla natura e alla musica, stabilendo un’assonanza con l’intero cosmo e con le Leggi che lo governano. 

L’associazione dei numeri alla natura, afferma la studiosa Angela Braghin, inclina ed agevola una meditazione profonda e consente all’uomo di cogliere l’intima natura delle sfere celesti, creando un ponte tra il visibile e l’invisibile, poiché c’è una stretta assonanza tra numeri, forma e idee. Infatti, regolata dai numeri risulta l’alternanza delle stagioni e delle diverse coltivazioni ad esse corrispondenti.

In definitiva secondo gli antichi inventori della scienza matematica i numeri contengono, disciplinano e racchiudono il Creato e ogni creatura, e consentono all’uomo di diffondere il messaggio del quale è portatore sin dalla nascita, e inglobarlo al messaggio più profondo, collettivo e primigenio, ovvero quello divino.

Paolo D'Arpini

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