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La retorica dei “diritti umani” come arma di guerra ibrida



Varie volte abbiamo già parlato come la retorica dei diritti umani, alimentata anche da migliaia di ONG formalmente indipendenti ma in realtà finanziate ed organizzate da governi occidentali, sia in genere servita per giustificare guerre di aggressione, interventi armati, sanzioni che affamano interi paesi, pressioni politiche ed economiche. Jugoslavia, Iraq, Siria, Libia ne sanno qualcosa.

Ma oggi vogliamo parlare della retorica diritto-umanista nei confronti di due grandi paesi, la cui crescita politica ed economica preoccupa molto gli USA ed altri paesi occidentali, abituati da secoli ad avere una preminenza politica ed economica nei confronti del resto del mondo: la Cina e la Russia.

Certamente i governanti di questi paesi non sono dei santi (ma i governanti di quali paesi lo sarebbero?). Tuttavia la retorica sulle violazioni dei diritti umani sembra più che altro orientata a scatenare una nuova guerra fredda nei loro confronti per frenare il loro slancio politico ed economico con sanzioni e minacce militari.

Ad esempio, una delle accuse più ricorrenti contro la Cina è quella secondo cui il Governo Cinese perseguiterebbe la minoranza di stirpe turca degli Uiguri, che abitano nella regione cinese del Sinkiang nell’Asia Centrale. Basterà ricordare che nell’ambito di questa popolazione musulmana, anche a causa di azioni sobillatrici provenienti dall’esterno, si sono formati gruppi di integralisti islamici radicali (del tipo Al Qaida o Stato Islamico), che si dedicano anche ad azioni terroriste, e non solo nel territorio cinese. Infatti frange di Uiguri fuoriusciti sono presenti nel nord della Siria protetti dal Presidente turco Erdogan, dove hanno formato un cosiddetto Partito Islamico del Turkestan, che ha tormentato con azioni terroristiche la popolazione siriana, agendo come truppa mercenaria per i Turchi. La maggior parte degli Uiguri cinesi, che in precedenza erano dediti in gran parte alla pastorizia, hanno potuto usufruire della ventata di modernizzazione e sviluppo economico e sociale promosso dal governo cinese, che però giustamente reprime le attività terroristiche, fondamentaliste e destabilizzanti.

Un’altra accusa ricorrente è quella della repressione del movimento “indipendentista” di Hong Kong. Ma qui ci soccorre innanzitutto la storia. Hong Kong che aveva sempre fatto parte della Cina fu strappata dalla Gran Bretagna alle madre patria grazie alla Prima Guerra dell’Oppio del 1840. Questa ignobile guerra a sfondo colonialista scoppiò quando le autorità cinesi vietarono l’importazione dell’oppio prodotto dagli Inglesi in India, che stava rovinando la vita di molti Cinesi. Le cannoniere inglesi bombardarono la Cina costringendola alla resa, all’apertura dei porti cinesi all’importazione di oppio e di altre merci inglesi, ed alla cessione di Hong Kong. Di questi vergognosi episodi (vi fu anche anni dopo una Seconda Guerra dell’Oppio) parlarono anche Marx ed Engels nei loro articoli, in cui presero posizione a favore dei Cinesi. Solo recentemente Hong Kong si è ricongiunta alla madre patria cinese.

Negli ultimi episodi di disordini ad Hong Kong, i manifestanti sobillati dalle ONG e dai governi occidentali (e non certo pacifici vista la devastazione sistematica di edifici pubblici, stazioni della metropolitana, ecc.) esponevano bandiere inglesi ed americane inneggiando al passato periodo coloniale. Il loro capo ha dichiarato che “la Cina avrebbe bisogno di un altro paio di secoli di colonialismo”, una dichiarazione che offende i sentimenti di tutti i cinesi, memori del passato coloniale in cui la Cina era schiacciata sotto il tallone dell’imperialismo occidentale e giapponese.

Passando alla Russia, anche qui gli Occidentali – per alimentare la guerra fredda ed attuare sanzioni - hanno tentato di esaltare la figura di un piccolo ex-criminale, Navalny, spacciato come “grande oppositore” di Putin. In realtà Navalny, che in passato era stato condannato per truffa ai danni di una società francese, si è poi riciclato fondando un piccolo partito razzista e xenofobo di estrema destra. Si ricordano alcune sue dichiarazioni in cui i membri delle minoranze etniche della Russia (Ceceni, Tatari, Baschiri, Gabardini, Calmucchi, ecc.) vengono definiti “scarafaggi” da schiacciare. Persino Amnesty International, organizzazione sempre ostile alla Russia, e finanziata dal Governo statunitense, è stata costretta a condannare le dichiarazioni di Navalny. Il personaggio si è però rilanciato facendo il martire con la storia, che presenta in realtà aspetti grotteschi, di un presunto avvelenamento. Pensate veramente che i Russi, se lo avessero realmente avvelenato (ma con scarsa efficacia visto che è rimasto vivo!) lo avrebbero poi mandato a curarsi in Germania dove potevano essere fatte analisi che li avrebbero incriminati? E come mai i Tedeschi si sono rifiutati di fornire al governo russo i risultati delle analisi effettuate su Navalny?

Purtroppo l’opera di denigrazione, alimentata anche da torme di giornalisti compiacenti, continua, alimentando una nuova guerra fredda che pone seri problemi al mantenimento della pace mondiale.

Vincenzo Brandi



Tra religione e psicologia



Una nuova ricerca rileva che le persone religiose, quando af­frontano le crisi della vita, si affidano a strategie di regolazione delle emozioni che sono utilizzate anche dagli psicologi. Cercano cioè dei modi alternativi e tendenzialmente positivi di pensare alle difficoltà, una pratica nota agli psicologi come “rivalutazione cognitiva”. Tendono anche ad avere fiducia nelle proprie capacità di far fronte alle difficoltà, un tratto definito in psicologia “autoefficacia nell’adattamento”. 

Studi precedenti hanno dimostrato che entrambi questi tratti riducono i sintomi dell’ansia e della depressione.

Le nuove scoperte sono riportate sul Journal of Religion and Health.

 

“Pare che le persone religiose facciano uso di alcuni degli strumenti che gli psicologi hanno sistematicamente identificato come efficaci nell’aumentare il benessere e nel proteggere dall’angoscia”, ha detto Florin Dolcos, professore di psicologia presso il Beckman Institute for Advanced Science and Technology presso l’Università dell’Illinois, che ha condotto lo studio insieme alla professoressa di psicologia Sanda Dolcos e alla ricercatrice Kelly Hohl. 

“Questo suggerisce che scienza e religione sono sulla stessa lunghezza d’onda quando si tratta di far fronte alle difficoltà”, ha detto.

La ricerca è stata in parte stimolata da studi precedenti che dimostrano che le persone religiose tendono a utilizzare una strategia di adattamento (o coping) che assomiglia molto alla rivalutazione cognitiva.

“Ad esempio, quando qualcuno muo­re, una persona religiosa potrebbe dire: ‘Oh, adesso è con Dio’, mentre una persona non religiosa direbbe: ‘Be’, almeno non soffre più’”, ha detto Florin Dolcos. In entrambi i casi, l’individuo trova conforto nell’inquadrare la situazione in una luce più positiva.

Per determinare se le persone religiose si affidano e traggono beneficio dalla rivalutazione in quanto strategia di regolazione delle emozioni, i ricercatori hanno reclutato 203 partecipanti senza diagnosi cliniche di depressione o ansia. 57 partecipanti hanno anche risposto a domande sul loro livello di religiosità o spiritualità.

I ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di scegliere tra una serie di opzioni che descrivessero i loro atteggiamenti e le loro pratiche.

“Abbiamo chiesto di descrivere come reagiscono di fronte alle difficoltà. 

[…] Abbiamo chiesto se cercano di trovare conforto nelle loro convinzioni religiose o spirituali”, ha detto Hohl. “E quanto spesso rivalutano le situazioni negative per trovare un modo più positivo di inquadrarle o se invece reprimono le loro emozioni”.

I ricercatori hanno anche valutato la fiducia dei partecipanti nella loro capacità di far fronte alle difficoltà e hanno posto loro delle domande mirate a misurare i loro sintomi di depressione e ansia.

Hohl ha affermato di aver cercato correlazioni tra strategie di coping, atteggiamenti e pratiche religiose, o non religiose, e i livelli di ansia e depressione. Ha anche condotto un’analisi intermedia per determinare quali pratiche li influenzino in modo specifico.

“Se osserviamo soltanto la relazione tra coping religioso e diminuzione dell’ansia, non sappiamo esattamente quale strategia in particolare stia facilitando questo risultato positivo”, ha detto Sanda Dolcos. “L’analisi intermedia ci aiuta a determinare ad esempio se le persone religiose usano effettivamente la rivalutazione per ridurre l’ansia”.

L’analisi rivela anche se la fiducia di un individuo nella propria capacità di gestire le crisi – un altro fattore che secondo alcuni studi psicologici è associato a depressione e ansia minori – “facilita il ruolo di protezione del coping religioso contro questi sintomi di disagio emotivo”, ha detto Sanda Dolcos. “Abbiamo scoperto che se le persone usano il coping religioso, hanno anche una diminuzione dell’ansia o dei sintomi depressivi”. 

 


(Notizie tratte da neurosciencenews.com)