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Sofismo. Il pensiero laico di Protagora

 


Il più importante dei sofisti  greci fu Protagora. Nato ad Abdéra, città della Grecia settentrionale, intorno al 480 A.C. , girò per molte città fino a stabilirsi ad Atene. Qui divenne amico del grande tragediografo Euripide, che spesso mise in scena idee derivate dai sofisti, criticando apertamente le tradizioni ed il mito. Soprattutto Protagora divenne amico e confidente del grande protettore della democrazia ateniese, Pericle, e certamente il suo modo di pensare razionalistico influenzò gli intellettuali ateniesi di quell’epoca, come lo storico Tucidide. Egli scrisse due opere di cui non ci sono rimasti frammenti: “Ragionamenti critici” e “Antilogie” in cui esponeva le sue convinzioni relativistiche ed antidogmatiche, sia nel campo della conoscenza che nel campo dell’etica.

La più famosa affermazione di Protagora ci è stata riportata da Platone: “L’uomo è la misura di tutte le cose, sia di quelle che sono perché sono, sia di quelle che non sono perché non sono”. I suoi critici, come lo stesso Platone, hanno interpretato questa affermazione nel senso più letterale e banale, cioè nel senso che ogni uomo si serve dei suoi sensi in modo difforme dagli altri ed ha un’opinione sulla realtà diversa da quella di un altro uomo. La critica moderna ha però dato all’affermazione del filosofo di Abdèra un carattere più generale. Con “uomo” deve intendersi la comunità umana che certamente ha una visione della realtà filtrata attraverso le sue capacità sensoriali e logiche, ed anche dalle convinzioni che gli vengono dall’ambiente e dalle tradizioni.

In questo Protagora anticipa idee riscontrabili in pensatori moderni come gli empiristi, Hume, Kant, Mach, ecc. . Lo stesso Bertrand Russel, nella sua “Storia della filosofia occidentale” ha avvalorato questa tesi.

Nella ricerca della verità Protagora mantiene un atteggiamento relativistico e dialettico. Egli afferma che due affermazioni differenti possono contenere entrambe, da diversi punti di vista, un contenuto di verità.

Tutte queste posizioni filosofiche di Protagora favoriscono un atteggiamento critico, scientifico ed antidogmatico, anche se possono aprire la strada ad atteggiamenti totalmente scettici, che costituiscono il pericolo opposto del dogmatismo. Protagora, comunque, non era d’accordo con il “nichilismo” di Gorgia, visto che gli si attribuisce anche l’affermazione che “tutto è vero”, ovvero che l’apparenza non inganna, anche se va interpretata.

Protagora scrisse anche un’opera “Sugli Dei” che riguardava il problema dell’esistenza della divinità. Su questo argomento viene riportata una sua affermazione apparentemente agnostica, ma la cui ironia è - a parere di chi scrive– più che evidente: “Sull’esistenza degli dei non posso dire nulla, perché il problema è molto complicato e la vita umana troppo breve” (deve intendersi: per poterlo discutere).

Di fatto Protagora fu accusato di empietà da parte di quei demagoghi che cercavano di sfruttare la credulità e la superstizione della parte più incolta delle masse popolari, e dovette fuggire da Atene.

Vincenzo Brandi


Protagora






Alcune considerazioni sul concetto di "Spiritualità Laica"


Il termine “spiritualità laica” nasce come una mera speculazione intellettuale nel bel mezzo degli anni Settanta del secolo scorso, per indicare un concetto apparentemente nuovo (ma in realtà, in tale ottica, sicuramente preesistente a tutte le spiritualità religiose e, perché no, anche a ogni “ateismo”) destinato a indicare la ricerca interiore presente in ogni essere umano, a prescindere dalla sua cultura, dalla sua confessione religiosa, dal suo “status” di persona … Esistono valori, tensioni e aspirazioni che prescindono dal credere nel “Trascendente”. Tali valori e tali idealità vengono da tutti noi ricercate individualmente, attingendo all’esperienza, ma anche al patrimonio di conoscenze e sapienza della società nella quale viviamo.

Sarebbe  forse più appropriato parlare, come suggerito da molti intellettuali, di spiritualità naturale, poiché nel corso degli anni il temine “laico” (che etimologicamente significa “del popolo”) ha finanche assunto connotazioni (errate!!!) di contrapposizione alla religione.

I pilastri della spiritualità naturale possono essere sintetizzati in:

  • Assenza di posizioni precostituite;
  • Ricerca introspettiva assolutamente personale, verso la consapevolezza;
  • Libertà, amore e rispetto come conseguenza di ciò[1]

Colpisce, in tale visione, il significato dato alla ricerca introspettiva, che la accomuna per certi versi alla “ricerca si senso” che ha fatto parte del lavoro speculativo di personaggi del calibro di Viktor E. Frankl e Carl G. Jung: “Il significato rende molte cose sopportabili, forse tutto” (C. G. Jung).

Colpisce anche l’armonia che questa visione offre con concetti molto moderni, come l’ecologia (riferendo all’ “esterno” quello che nasce come interiorità) …

Proporre modalità diverse di spiritualità (laica, naturale, cattolica, orientale, ecc.), è però, a mio modo di vedere, operazione alquanto opinabile. Si rischia di creare una situazione conflittuale, al pari di quanto, negli ultimi 20 anni, è accaduto per la Bioetica. Vorrei pertanto cercare di analizzare in breve e in modo semplicistico (me ne scuso, ma lo faccio per una miglior comprensione delle tematiche) le possibili cause della nascita di questa conflittualità, affinché la ricerca spirituale non commetta gli stessi errori.

Per fare chiarezza, è necessario un breve preambolo sui termini da usare. Ad esempio, bisogna stabilire fin da subito qual è la differenza tra etica e morale poiché spesso i due termini vengono usati come sinonimi, ma in realtà non è così.

Il termine etica deriva dal greco ἦθος (éthos). E’ quella branca della filosofia che analizza il comportamento ritenuto corretto, il modo di pensare e dei valori giusti che si dovrebbero seguire in qualsiasi circostanza. Il focus dell’etica è lo studio di norme che l’individuo dovrebbe utilizzare nella propria vita quotidiana.

Il termine morale proviene invece dalla parola latina moràlia (da mos, moris = costume) e sta ad indicare una condotta diretta da norme, una guida secondo la quale l’uomo dovrebbe agire. Ovviamente, le norme si modificano con il modificarsi stesso della società, delle conoscenze, dei rapporti fra cittadini. Nelle norme morali si riconoscono persone con omogeneità di visione. E’ quindi corretto parlare di morale cattolica, laica, ecc. Meno corretto riferire l’etica a tali categorie. La morale infine studia il rapporto tra comportamento, valori e comunità. La morale è pertanto intesa come oggetto di studio dell’etica.

Esistono due tipi di morale:

 quella religiosa o “confessionale”, dove l’efficacia della norma proviene in assoluto dal Trascendente;

quella laica che sostiene come l’esistenza di norme morali possa esserci anche in assenza di trascendenza, dal momento che le norme si basano sulla natura dell’uomo.  Idea,  quest’ultima, mutuata dal pensatore olandese Ugo Grozio (1625, “De iure belli ac pacis”) che coniò l’espressione “Etsi Deus non daretur“, in riferimento al Diritto naturale, che esisterebbe a prescindere da Dio.

Le distinzioni fra i vari “comportamenti morali” divengono significative quando sono condizionate culturalmente e storicamente. Possiamo dire che l’éthos è “astratto”, la morale invece ha a che fare con situazioni precise storico culturali, attorno alle quali si organizzano tradizioni, società e valori di un determinato gruppo di persone.

La Bioetica (o “speculazione” sui problemi etici e morali emergenti in campo medico e/o biologico) nasce negli USA (Van Rensselaer Potter, oncologo della Winsconsin University, conia tale termine in due storici libri: “Bioethics, The Science of Survival” del 1970 e “Bioethics, bridge to the future”, del 1971), e non potrebbe essere altrimenti perché lì, per dirla con il bioeticista e filosofo Hugo Tristram Engelhardt [2] si vive nella pluralità morale.

Ciò ingenera la necessità di convivere utilizzando una sorta di ESTRANEITA’ MORALE: l’altro è visto come uno straniero, ma non necessariamente è incompreso o incomprensibile e non necessariamente è un avversario da combattere. Essere ESTRANEI o STRANIERI MORALI significa solo abitare 2 mondi morali diversi …

Purtroppo la Bioetica, negli ultimi 20 anni, è stata “terreno di scontro” fra visioni diverse, poiché chi la esercita (i cosiddetti bioeticisti) si è prestato a scontri ideologici che non hanno ragion d’essere:

uno dei “mali” è rappresentato dall’esercitare la bioetica entro ambiti precostituiti (politici, confessionali, professionali), dimenticando che la bioetica stessa non vuole e NON DEVE arrivare a soluzioni; è incompatibile con i fondamentalismi; etimologicamente, attraverso i COMITATI che la rappresentano, dovrebbe “camminare insieme” all’individuo … e invece abbiamo creato la bioetica laica, quella cattolica, quella del partito X o Y, quella dei dentisti, ecc.

Ma come si può affrontare il problema di “visioni diverse” del mondo? Le modalità utilizzate nel corso di secoli sono state diverse e così sintetizzabili:

Si può COMBATTERE chi non la pensa come noi, con la forza (repressione) o con la parola (polemica, apologetica). È una modalità che piace tanto a chi detiene il potere, ma non produce i risultati attesi, e la storia ce lo insegna. Però, la tentazione di sottomettere chi è diverso da noi non è mai sopita …

Si può provare a TOLLERARE chi è diverso da noi, in omaggio all’etica darwiniana secondo cui la diversità non è un male da combattere, ma un’opportunità (anche di sopravvivenza). Tuttavia, la tolleranza non è propriamente democratica perché non permette una visione “paritetica” ma è semplicemente “filantropica” (una parte dominante e culturalmente convinta di essere nel giusto, tollera la presenza di  pensieri diversi, ritenuti inferiori “a prescindere”).

Si può inoltre provare a REGOLAMENTARE con la legge e/o con la deontologia,  con il vantaggio di fornire diritti e protezione anche alle persone la cui autonomia o la cui cognitività è diminuita.

Si può infine provare a GESTIRE la diversità attraverso il counselling etico (o attività di aiuto alle persone allo scopo di indirizzarle a fare la scelta migliore per loro stessi,  come ad esempio avviene oggi “all’interno” della consulenza genetica), e attraverso la DELIBERAZIONE ETICA, che rappresenta in qualche modo il progetto originario della Bioetica, poiché non nasce per gestire quello che è legale e quello che non lo è, ma per gestire la pluralità.

Consideriamo che, a tal riguardo, i tempi del cambiamento sono lunghissimi. L’éthos, in particolare,  ha tempi quasi biblici, così come la morale; la politica ha solitamente tempi più brevi; la scienza e la tecnologia hanno tempi relativamente rapidi. Anche questa modalità di non procedere di pari passo ingenera conflitti. Basti pensare a quello che è successo negli anni ’60 del secolo scorso, di fronte alle stupefacenti possibilità della chirurgia dei trapianti!

Raggiungere l’idea della gestione della pluralità ha poi necessitato di processi durati secoli nel mondo occidentale, passando attraverso l’assolutismo etico (che per definizione non ha difficoltà a decidere, non impara dagli altri, ritiene che ci sia una sola verità: “LA MIA”; è in armonia con le monarchie assolute), il relativismo etico (così caro ai sofisti dell’antica Grecia come Gorgia e Protagora – anche se il termine è stato creato agli albori del XX secolo da Oswald Sprengler[3]-, in cui l’unico metro di valutazione è l’individuo), fino a giungere al contrattualismo o teoria del contratto sociale (grazie a J. J. Rousseau,  T. Hobbes, J. Locke, D. Hume: con l’uso della ragione è necessario, fra individui, stipulare contratti sociali riguardo, ad esempio, alle norme di pace, alla difesa, alla natura e all’ambiente, al lavoro, ecc.). E sembra che la strada da fare sia ancora lunga per raggiungere l’obiettivo agognato di un riconosciuto  pluralismo etico …

Tornando al tema della spiritualità dopo questa ampia digressione, mi sembrava in tema la riflessione su quanto può essere difficile affrontare il fine vita e aiutare a farlo, facendolo senza pregiudizi né preconcetti, ma tuttavia partendo dalla difficoltà di comprendere la spiritualità di “chi non crede in un altro mondo”, di chi sa che “con la morte tutto si concluderà”, di chi “non teme l’inferno e non spera in un paradiso” (E. Scalfari)[4]

Come si caratterizza allora la spiritualità laica o naturale che dir si voglia? Mi verrebbe da dire, in forma semplicistica ma spero comprensibile, attraverso la valorizzazione del quotidiano. E ciò significa che nulla di quanto si vive è ‘profano’, nel senso che non avrebbe alcun significato per la propria crescita sia di fronte a Dio che in assenza di Dio. Di conseguenza, tutto entra in qualche modo a far parte dei “sacrifici spirituali” di paolina memoria (cfr Rm 12, 1Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale). In tale ottica, davvero non c’è alcuna differenza fra spiritualità naturale e spiritualità religiosa. E’ la condizione vitale che si differenzia e quindi determina una modalità diversa nel vivere la vita; l’orientamento è identico, il contenuto può essere diverso. La valorizzazione del quotidiano in tale prospettiva è notevole (sia nell’approccio spirituale naturale che in quello “confessionale”), ma per chi è religioso il quotidiano  viene vissuto anche (o soprattutto) come luogo dell’incontro con Dio: esso è il luogo della realizzazione di sé.

Per far comprendere quanto, nella mia visione, i mondi spirituali degli individui siano inaspettatamente e sorprendentemente vicini, voglio concludere questo scritto raccontando dell’incontro fra due enormi personalità (una cattolica e l’altra atea) che ha dato risultati di una grande vicinanza per sensibilità pur partendo da mondi che più diversi non si potrebbero. Nel lontano 1995, Ferdinando Adornato ebbe l’idea di aprire sulla rivista “Liberal” un dialogo tra il cardinale Carlo Maria Martini e lo scrittore e semiologo Umberto Eco. Alle lettere aperte fra i due, e regolarmente pubblicate, seguirono anche diversi liberi commenti e interventi da parte di altre notevoli personalità della cultura italiana, quali il filosofo Emanuele Severino e i giornalisti Eugenio Scalfari e Indro Montanelli.   Riporto alcuni interessantissimi stralci di questo dialogo, evidenziati nel corso della redazione di una tesina conclusiva di fine Master (di “Tutto è Vita”) insieme all’allieva dott.ssa Armanda Salvatori, che ringrazio per aver  ritrovato questa documentazione scomparsa dalla mia memoria ma ben salda nel mio cuore :

Da Umberto Eco (pag. 15) […] «Stiamo vivendo i nostri terrori della fine  e potremmo dire che li viviamo nello spirito del bibamus, edamus, cras moriremur, celebrando la fine delle ideologie e della solidarietà nel vortice del consumismo irresponsabile, così che ciascuno gioca col fantasma dell’Apocalisse e al tempo stesso lo esorcizza ma tanto più lo esorcizza quanto più inconsciamente lo teme … ma la forza dei fantasmi sta proprio nella loro irrealtà. Ora azzardo che il pensiero della fine dei tempi sia oggi più tipico del mondo laico che di quello cristiano. Ovvero il mondo cristiano ne fa oggetto di meditazione ma si muove come se fosse giusto proiettarlo in una dimensione che non si misura coi calendari; il mondo laico finge di ignorarlo, ma ne è sostanzialmente ossessionato e questo è un paradosso» […] 

Dal Cardinal Martini (pag. 29) […] «che funzione critica può assumere un pensiero della fine che non implichi disinteresse verso il futuro ma processo costante agli errori del passato? Mi pare chiaro che non è solo un pensiero di una fine incombente che può aiutarci a valutare criticamente ciò che è stato; esso sarà se mai fonte di timore, di paura, di ripiegamento su di sé, o di fuga verso un futuro “altro” come nella letteratura apocalittica » […] 

E ancora: (pag. 54) […] « l’angoscia e la trepidazione che ciascuno prova quando è di fronte al destino di una vita umana in qualunque momento della sua esistenza ed esiste una splendida metafora che dice laicamente quanto è comune, nel profondo, a cattolici e laici: la metafora del “volto” ….. […] vorrei ricordare una parola di Italo Mancini in uno dei suoi libri “Tornino i volti”, quasi un suo testamento: “il nostro mondo, per viverci, amare, santificarci, non è dato dagli eventi della storia o dai fenomeni della natura, ma è dato dall’esserci di questi inauditi centri di alterità che sono i volti, volti da guardare, da rispettare, da accarezzare”»[5]

Voglio concludere con un frase del Cardinal Martini, che trovo bellissima e che ho fatto mia ormai da qualche decennio:

«Ciascuno di noi ha dentro di sé un non credente e un credente che ci parlano dentro, che si interrogano a vicenda».    «Io chiedevo non se siete credenti o non credenti, ma se siete pensanti o non pensanti. L’importante è che impariate a inquietarvi. Se credenti, a inquietarvi della vostra fede. Se non credenti, a inquietarvi della vostra non credenza. Solo allora saranno veramente fondate»    (Carlo Maria Martini)

Bruno Mazzocchi












 

1)  Paolo D’Arpini: “Riciclaggio della memoria. Appunti, tracce e storie di ecologia profonda, bioregionalismo e spiritualità laica”, Edizioni Tracce, 2013 http://www.tracce.org/D'Arpini.htm

2)  T. H. Engelhardt: “Manuale di Bioetica”, il Saggiatore, Milano, 2000

[3] Oswald Spengler: “Il tramonto dell’Occidente – Der untergang des Abendlandes”, Longanesi 2008

[4] Eugenio Scalfari su L’espresso, Vetro soffiato, 25 giugno 2017, link http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2017/06/21/news/inferno-e-paradiso-dentro-il-nostro-io-1.304633?refresh_ce

[5] C. Maria Martini – Umberto Eco “In cosa crede chi non crede ?”, ed. Bompiani 2014