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Stages in the consciousness hierarchy according to Nisargadatta Maharaj




In the consciousness hierarchy there are three stages:

1) Jivatman (individual soul). Is the one who identifies himself with the body-mind. One who thinks i am a body, a personality, an individual apart from the world. He excludes and isolates himself from the world as a separate personality because of identification with the body and the mind.

2) Next only the beingness,or the consciousness,which is the world. “I AM” means my whole world.Just being and the world. Together with the beingness the world is also felt – that is Atman (The Self).

3) The Ultimate principle that knows this beingness cannot be termed at all. It cannot be approached or conditioned by any words. That is the Ultimate state.

The Hierarchy I explain in common words, like: I have a grandson (that is jivatma). I have a son and I am the grandfather. Grandfather is the source of the son and grandson.

The three stages cannot be termed as Knowledge. The term knowledge comes at beingness level.

I have passed on to you the essence of my teachings.

Sri Nisargadatta Maharaj



La reincarnazione in senso buddhista ed il concetto del "non sé"


Il concetto di non-sé è uno dei contributi fondamentali del Buddha alla coscienza umana. È qualcosa di molto complesso e, per capirlo, dovrai stare in silenzio ed essere attento, perché va contro tutti gli schemi a cui sei stato condizionato. Eccoti alcune analogie, per darti un’idea di cosa significhi “non-sé”.

Il corpo è una sacca di pelle e la pelle definisce dove finisce il corpo e dove inizia il mondo. È una delimitazione intorno a te che ti protegge dal mondo, ti separa da esso e ti lascia solo alcune aperture che ti permettono di entrare nel mondo o di far entrare il mondo dentro di te. Se non ci fosse la pelle, non potresti esistere e perderesti i tuoi confini rispetto a tutto ciò che ti circonda. Ma tu non sei la pelle! La pelle continua a cambiare, proprio come succede al serpente: anche tu continui a cambiare pelle molte volte.

Se chiedi ai fisiologi ti diranno: “Se un uomo vive settant’anni, cambierà pelle completamente quasi dieci volte”, ma è un processo molto lento, quindi non te ne accorgi. A ogni istante cambiano delle parti così piccole che non le percepisci, perché la tua sensibilità non è così raffinata. Il cambiamento è impercettibile, ma mentre la pelle si rinnova, tu continui a pensare che il tuo corpo sia sempre lo stesso. In realtà non si tratta dello stesso corpo, ma di un continuum.

Quando eri nel grembo di tua madre, il primo giorno eri solo una piccola cellula, invisibile a occhio nudo. A quel tempo quella era la tua pelle e quello era il tuo corpo. Poi hai iniziato a crescere e dopo nove mesi sei nato, con un corpo totalmente diverso. 

Se improvvisamente ritornassi a quando eri appena nato e avevi un giorno di età, non saresti in grado di riconoscere te stesso. Sei cambiato così tanto! Eppure pensi ancora di essere lo stesso! E in un certo senso lo sei, perché sei la stessa continuità. Ma in un altro senso non sei lo stesso, perché hai continuato a cambiare. 

L’ego funziona allo stesso modo, proprio come la pelle. 

La pelle tiene il corpo in uno schema, una definizione, un limite. L’ego mantiene il contenuto della tua mente all’interno di un confine. 

L’ego è la pelle interna che ti permette di sapere chi sei, altrimenti ti perderesti, non sapresti chi è chi; chi sono io e chi è l’altro. 

Il concetto di sé, io, ego, ti definisce in modo funzionale. 

Chiaramente ti separa dagli altri, ma è anch’esso una pelle molto sottile che avvolge tutto il contenuto della tua mente: la memoria, il passato, i desideri, i progetti, il futuro, il presente, il tuo amore, il tuo odio, la rabbia, la tristezza, la felicità. Contiene tutto insieme in una sacca. Ma tu non sei neanche quell’ego, perché anch’esso continua a cambiare più della pelle del corpo. Cambia a ogni istante.

Il Buddha usa l’analogia della fiamma. Quando una candela è accesa vedi la fiamma, ma essa non è mai la stessa, perché è in continua evoluzione. Al mattino, quando la spegni, non spegni la stessa fiamma, perché di fatto ha continuato a cambiare per tutta la notte. 

A ogni istante la fiamma va in fumo e una nuova fiamma la sostituisce così velocemente che non ti accorgi dell’assenza, non ti accorgi che una fiamma è scomparsa e che ne è arrivata un’altra. Il movimento è talmente rapido che non si riesce a vedere il vuoto fra le due, si vede solo la continuità. 

Non è la stessa fiamma, anche se per certi versi lo è, perché è la continuazione della precedente, è nata dalla stessa fiamma. 

Proprio come te che sei nato dai tuoi genitori e sei una loro continuazione. Non sei la stessa persona, perché non sei tuo padre e non sei tua madre, ma al tempo stesso sei tuo padre e sei tua madre, perché continui la stessa tradizione, la stessa genealogia, lo stesso retaggio.

Il Buddha dice che l’ego è una continuità, non una sostanza. Continuità come una fiamma, continuità come un fiume, continuità come il corpo.

Però c’è un problema… Possiamo ammettere che sì, è vero, quando una persona muore e tutto scompare è come se fosse una fiamma. Ma il Buddha dice che una persona rinasce e quindi sorge il problema: chi è che rinasce?

 


Altre analogie. Hai mai visto una grande casa che brucia o una foresta in fiamme? Se osservi, ti accorgerai di un fenomeno: ogni fiamma salta semplicemente da un albero all’altro. Non ha sostanza, è solo una fiamma. Non è fatta di materia, è pura energia, un quanto di energia, la quantità necessaria per farla saltare da un albero all’altro. 

Oppure, hai mai provato a vedere cosa succede se avvicini una torcia spenta a una torcia accesa? La fiamma della torcia accesa passa alla torcia spenta. È un balzo quantico, un salto. La fiamma pura balza all’altra torcia e inizia un’altra continuità.

O, ancora, se proprio adesso, mentre mi stai ascoltando, accendessi la radio, improvvisamente cominceresti a sentire un programma trasmesso da qualche canale. Basta una radio ricevente e qualcosa che è trasmesso da Londra, Mosca o Pechino, arriva fino a te. 

Non arriva niente di materiale, solo onde di puro pensiero che saltano da Pechino a Pune… Solo onde di pensiero, niente di sostanziale. Non puoi prenderle in mano, o vederle, ma ci sono, perché la tua radio, o la tua televisione, riesce a riceverle.

Il Buddha dice che quando una persona muore, tutti i desideri, i ricordi e il karma che ha accumulato nella sua vita saltano come onde di energia in un nuovo grembo. È un salto. La parola giusta per definirlo arriva dalla fisica: lo chiamano “balzo quantico”, cioè un balzo di pura energia che non contiene materia. 

Il Buddha fu il primo fisico quantistico, seguito da Einstein a distanza di venticinque secoli, ed erano in grado di parlare la stessa lingua. Io sostengo che il Buddha è scientifico e che parlava la lingua della fisica moderna; semplicemente ci arrivò venticinque secoli prima.

Quando una persona muore, il suo corpo, cioè la parte materiale, scompare, ma la parte immateriale, la parte mentale, che è una vibrazione, è rilasciata e trasmessa, pronta a entrare in un utero adatto ad accogliere quella vibrazione. 

Non c’è nessun sé che si sposta, nessun ego, nessuno. Non c’è bisogno che qualcosa di materiale si sposti, è solo una spinta di energia. È sempre quella stessa sacca dell’ego che salta. La casa è diventata inabitabile, quel corpo è diventato invivibile, ma l’antico desiderio, la brama di vita – tanha come lo definisce Buddha – è sempre vivo e ardente. È quel desiderio che fa il salto. 

 Osho










Da:  The Discipline of Transcendence, Vol. 1 #10 

Traduzione: https://www.oshotimes.it/articolo/1234/parliamo-di-anima.html

La natura e la velocità della luce e la scomparsa dell' "etere"

 

Fin dal 1600  era stata ipotizzata una natura ondulatoria della luce, in analogia, ad esempio, con le onde sonore che si propagano nell’aria e le onde che si propagano nei liquidi che hanno subito una perturbazione (come quando ad esempio si butta un sasso in uno stagno, o il vento, o un terremoto provocano le onde del mare). Principale artefice di questa teoria era stato il grande fisico olandese Huygens, mentre Newton, pur non negando la possibilità di natura ondulatoria della luce, ne aveva sottolineato soprattutto il carattere corpuscolare. Inoltre, fin dall’antichità si era supposto che la luce si diffondesse con una certa velocità, che però era stato impossibile misurare per l’inadeguatezza dei mezzi tecnici dell’epoca. Il primo a misurare la velocità della luce in circa 225.000 km al secondo era stato il danese Rømer, anch’egli nel 1600, seguito da Huygens che aveva calcolato un valore più esatto di circa 300.000 Km al secondo(1).

All’inizio del 1800 si riteneva che, analogamente a quanto succedeva per gli altri tipi di onde, le onde luminose si propagassero con il supporto di un mezzo materiale invisibile chiamato “etere luminifero”. Anche il grande fisico francese Fresnel (N. 70), che aveva definitivamente messo a punto le equazioni caratteristiche delle onde luminose, era d’accordo con questa teoria. Si riteneva assurdo che le onde si potessero propagare nel vuoto.

Il fisico americano Albert Abraham Michelson (1852-1931) decise di effettuare nel 1881 un esperimento in merito, sfruttando un’apparecchiatura di grande precisione da lui messa a punto chiamata “interferometro”. L’esperimento si basava sulla creazione di due raggi di luce ricavati da un raggio inizialmente unico. I raggi, dopo essere stati separati ed aver percorso tratti uguali, ma di diversa direzione (il primo nella stessa direzione di spostamento della Terra ed il secondo in direzione perpendicolare), erano poi nuovamente riuniti. Essi proiettavano su uno schermo delle figure caratteristiche dette di interferenza, nate dall’interazione tra i due raggi ormai sfasati tra loro per aver percorso tratti in direzioni diverse rispetto ad sistema in movimento. Se, come si pensava, la Terra si stava muovendo alla velocità di 30.000 Km al secondo all’interno dell’etere, considerato come riferimento fisso, allora ruotando lo strumento in varie direzioni rispetto alla direzione di spostamento della Terra, la velocità della luce sarebbe cambiata in accordo con le “trasformazioni galileiane” (equazioni che servono a convertire le grandezze fisiche meccaniche da un sistema di riferimento ad un altro sistema che si muova rispetto al primo di moto rettilineo ed uniforme), proprio come la velocità di un passeggero su un treno in corsa varia rispetto ad un sistema di riferimento esterno fisso a seconda che il passeggero si muova nello stesso senso del treno o in senso opposto. Di conseguenza si sarebbero dovute avere figure di interferenza diverse(2).

L’esperimento dette invece un risultato completamente negativo. Esso fu ripetuto nel 1886 dallo stesso Michelson in collaborazione con Edward Williams Morley (1838-1923) in condizioni molto più affidabili, sfruttando una lastra di pietra galleggiante su un bagno di mercurio liquido per evitare vibrazioni, ma il risultato fu lo stesso. Se ne poteva dedurre che, o il presunto etere si muoveva insieme alla Terra, o non esisteva nessun etere fisso, rispetto al quale costituire un sistema di riferimento fisso universale (coincidente con lo “spazio assoluto” di Newton)(3).

Negli anni precedenti altri fenomeni relativi alle radiazioni luminose avevano creato problemi di interpretazione ai fisici. Nel 1852 il francese Hyppolite Fizeau (1819-1896) aveva constatato che la velocità della luce in una corrente d’acqua in movimento era intermedia tra la velocità nel vuoto e quella nell’acqua, fatto risultato inspiegabile. Si era poi constatato che le note quattro equazioni dell’elettromagnetismo di Maxwell (N. 81) – basate sulla propagazione di onde elettromagnetiche, di cui le onde luminose sono solo un caso particolare – non obbedivano - neanch’esse - alle semplici “trasformazioni galileiane”.

E’ merito del grande fisico olandese Hendrik Antoon Lorentz (1851-1901) aver dato una prima risposta ai sorprendenti fenomeni illustrati in precedenza.

Lorentz si era già distinto per aver aggiunto una quinta equazione alle quattro equazioni di Maxwell che non aveva previsto il caso di una carica elettrica concentrata e discreta che traversasse il campo elettromagnetico. Lorentz, tenendo conto sia del tipo di fisica sviluppato da Maxwell (che è una fisica del “continuo”), sia del modello fisico sviluppato dall’allievo e collaboratore del grande Gauss, Wilhelm Edward Weber (N. 72-81), che è basato su flussi di cariche concentrate che agiscono a distanza, affermò che la forza che si esercita su una carica che traversi un campo elettromagnetico alla velocità “v” è data dall’espressione: F = q(E + vxB), dove “q” è la carica, ed E e B sono rispettivamente i valori del campo elettrico e di quello magnetico (intesi come campi “vettoriali”, cioè dotati di senso e direzione). F è detta “Forza di Lorentz” ed è sempre associata alle equazioni di Maxwell per descrivere il campo elettromagnetico.

Tornando alla questione della velocità della luce nel vuoto, il grande fisico olandese già nel 1892 aveva elaborato delle equazioni definite poi nel 1904 dal grande matematico francese Poincarè  “Trasformazioni di Lorentz”. Lo stesso Poincarè poi le ampliò e generalizzo nel 1905-1906. Queste trasformazioni modificavano le precedenti analoghe “Trasformazioni Galileiane” in modo tale da renderle compatibili con le equazioni di Maxwell, e le esperienze di Michelson e di Fizeau. Lorentz (come poi anche Einstein e Poincarè, con cui fu in continuo contatto) dimostrò che, se la differenza di velocità tra due sistemi di riferimento non era trascurabile rispetto alla velocità della luce, bisognava introdurre dei fattori correttivi che tenevano conto della velocità (costante) della luce. In questo modo le famose equazioni di Maxwell (N. 81), che variano rispetto alle trasformazioni di Galilei, diventavano “invarianti” rispetto alle trasformazioni di Lorentz. Ancora oggi i campi elettromagnetici o gravitazionali che rispettano le trasformazioni di Lorentz sono detti campi “covarianti”. Nelle sue trasformazioni (che possono essere interpretate matematicamente anche come rotazioni in uno spazio a 4 dimensioni) Lorentz ipotizzò che le dimensioni degli oggetti variassero, accorciandosi nel senso del moto (poi Einstein dimostrerà che anche il tempo scorre diversamente per i due osservatori posti in sistemi di riferimento diversi). In caso di piccole differenze di velocità rispetto alla velocità della luce (cioè in tutti i casi che si verificano nella nostra vita di tutti i giorni) questi effetti sono trascurabili, e rimangono valide con buona approssimazione le trasformazioni di Galilei.

Molte delle considerazioni fatte da Lorentz si trovano anche nei lavori di un ricercatore inglese, Oliver Heaviside (1850-1925) e di due ricercatori irlandesi: Joseph Larmor (1857-1942) e George Francis Fitzgerald (1851-1901).

Infine tutta la materia fu sintetizzata da Einstein nella Teoria della Relatività Ristretta (o “speciale”) che è stata - giustamente – attribuita ad Einstein perché il grande fisico tedesco, in particolare nello scritto “Sulla Dinamica dei Corpi in Movimento” del 1905, seppe trasformare le equazioni di Lorentz e Poincarè in una teoria fisica coerente, come meglio vedremo quando ci interesseremo della sua opera. Più tardi Einstein, pur non avendo voluto mai riconoscere pienamente il contributo decisivo dato dall’esperimento di Michelson e Morley per lo sviluppo delle sue teorie (preferendo piuttosto riferirsi alle equazioni di Maxwell), ne interpretò il risultato nel senso che la luce aveva la stessa velocità nel vuoto qualsiasi fosse la sua direzione ed il sistema di riferimento scelto(3). Questa asserzione è alla base della teoria della relatività ristretta, profondamente innovatrice nei riguardi della fisica tradizionale di Galilei e Newton.

L’importanza rivoluzionaria dell’esperimento è stata comunque riconosciuta ampiamente dalla comunità scientifica internazionale e ciò fruttò a Michelson il premio Nobel per la fisica, se pur in ritardo, nel 1907. Anche Lorentz fu premio Nobel per la fisica nel 1902 insieme all’altro fisico olandese Zeeman, ma solo per aver scoperto l’Effetto Zeeman, che è la separazione delle linee degli spettri atomici dovuta all’azione dei campi magnetici. Solo in seguito si scoprì che l’effetto è dovuto all’azione del campo magnetico sulla rotazione, o “spin”, degli elettroni presenti nell’atomo, come vedremo in un prossimo numero dedicato ai modelli atomici.

Vincenzo Brandi


  1. L. Geymonat, “Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico”, Garzanti 1970 .

  2. C. Singer, “Breve Storia del Pensiero Scientifico”, Einaudi 1961

  3. J. Bernal, “Storia della Scienza”, Editori Riuniti, Roma 1967