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Sistema immunitario e sistema comunitario



Coppia felice baci sulla strada | Foto Gratis
Natura
Il sistema immunitario e quello comunitario hanno forse una sola matrice simbolica e un solo scopo pratico: proteggere l’organismo che presiedono.
Nel sistema immunitario, le ghiandole, come gli istituti sono distribuiti nel campo del loro corpo fisico, alla bisogna si radunano.
Entrambi si chiudono a riccio o reagiscono all’attacco di elementi estranei alla sopravvivenza del corpo di cui fanno parte. Uno ha i globuli bianchi e compagnia, l’altro ha gendarmi e saggi.
La reazione è dettata esteticamente per entrambi i sistemi: non servono riunioni, né votazioni. Riconoscono a pelle ciò che è adatto a loro e quindi anche ciò che gli è sconveniente. Chi è in grado di raccogliere le informazioni sottili, energetiche lo potrà confermare.
Mentre chi – individuo o società – identifica se stesso in qualche modello a lui esterno, acquisito, d’immagine, voluttuario, ideologico non avrà modo di percepire le vibrazioni che corpo e società continuamente emettono.
La psicologia dei due sistemi è organica, quindi ontologicamente coordinata, salvo diversivi (mutabilità virale, comunicazione) che ne possono deviare la logica protettiva. Dunque, a volte, per qualche attacco particolarmente subdolo (alterazione geni riparatori Dna delle cellule cancerogene, discendenti del serpente paradisiaco) vanno in crisi. Sovraeccitati si procurano danni, peggiorano la situazione dell’organismo, anche fino a comportarne la morte. Forse sono solo prove della Natura (per entrambi) affinché tragga idee su come migliorarsi.
I due sistemi sono in balia delle emozioni. Purtroppo sfugge ancora ai medici ordinariamente formati, ma fortunatamente non ai sociologi, che però pare non abbiano peso politico. Tutti gli specialisti hanno un’operatività analitico-scientifica, non sono in grado di cogliere l’unità, l’organismo con cui hanno a che fare. La loro azione è necessariamente solo destinata alla sintomatologia.
Le emozioni alterano la capacità di difesa (s. immunitario) e di giudizio (s. comunitario). Quando ci sono di mezzo le emozioni, la capacità di difesa (s. immunitario) e di creatività (s. comunitario) vengono meno. A quel punto, il nocivo che entrambi i sistemi erano in grado di respingere ora li sopraffà: avvio di malattie nelle persone e cedimento dei valori nella comunità. Le emozioni hanno una carica elettrica, energica che comporta una sorta di collasso sistemico se negative (malattia, malessere). Vero corto circuito energetico.
Per il sistema immunitario le medicine – allopatiche in primis, solo in grado di gestire i sintomi e mai di arrivare alle cause e sono esse stesse causa di patologie – sono un obbligo di lavori forzati. Nonché l’equivalente della goccia d’acqua sulla pietra, cioè in grado di far cedere le maglie più deboli del sistema immunitario stesso.
Per il sistema comunitario, corrispondono le comodità, e peggio, le abitudini lascive e lassismiche, le consuetudini che privilegiano, danno diritto, al singolo rispetto al bene comune. Quale compagine può muoversi insieme per un solo scopo comune se i suoi componenti avanzano esigenze e diritti individuali, ponendo se stessi, come nell’individualismo, alla pari delle istituzioni?
Le cure per ambo le strutture preposte alla vita individuale e comunitaria, la cura e il benessere hanno altre origini e caratteristiche. Cibo, ambiente, sentimenti, qui ed ora adeguati per uno; rispetto dei ruoli, delle tradizioni locali, bioregionalismo, dei riti, degli antenati, per l’altro. Ogni stravaganza a chilometro 1000 è tossica d’ufficio. Sia essa alimento che valore. Le vie di mezzo ci sono e hanno una identità assai precisa: riguardano tutte le ipotetiche estraneità che tali non sono in quanto integrabili nei sistemi senza che questi ne risentano.
La cura comunitaria sta nei calli, nel lavoro creativo, nel lavoro adatto a sé, nel sole, nel cibo locale nel dedicarsi al prossimo, come in famiglia. La cura di sé non impiega mezzi esterni a sé, si basa sull’assunzione di responsabilità. Il sé sa bene che se c’è un problema, l’ha creato lui stesso, quindi solo lui può risolverlo. Solo lui ha le doti per arrivare all’origine di ciò che l’ha causato. Spesso sentimenti negativi e inaccettazione di ciò che è. Sa che per compiere la guarigione è necessario scavare per arrivare a raggiungere l’assenza di consapevolezza che ha generato il problema. Gli aiuti esterni sono buoni solo se richiesti. Affidare se stessi agli altri, delegare la propria salute ad esterni da se stessi o dalla comunità è facilmente fallace e crea dipendenza affettiva o economica che sia.
Entrambi i sistemi autopoieuticamente si mantengono se restano legati alla tradizione locale e alla terra. Diversamente avvertono subito la tossicità dell’aria, del cibo, dei ritmi dettati dalla produzione a discapito di quelli della natura, di quelli imposti da farmaci e rimedi sociali da medici e politiche non in grado di considerare la natura rispettivamente della persona e della comunità, che prediligono – ma non hanno alternativa – dedicarsi ai sintomi, applicare protocolli identici per persone e ambiti sociali differenti.
Nel sistema comunitario, l’altro da sé non è un oggetto. È un essere senziente. Viene riconosciuto come parte della comunità e non solo gli uomini, anche l’ambiente e le bestie. Entrambe hanno una dignità prima di avere un nome e un valore nell’equilibrio della comunità, prima che di sussistenza o economico. I venditori di fuffa sono percepiti a distanza, come il cervo col cacciatore.

Cultura
Ma ora non c’è più comunità. La mannaia dell’individualismo e della globalizzazione, ha squartato quei corpi vestiti di lana, cotone e cuoio, quegli spiriti semplici. Calli e modestia sono diventati vergogne.
Il presente ha il culto della scienza medica. Gli ha dato il sangue e si ritrova con le sacche per trasfusione infette. Al culto degli esperti ha delegato il delegabile, tutto, fino all’educazione.
L’Uomo della Comunità ha aperto i cancelli ai miraggi dei mercanti e si è ritrovata senza terra sotto i piedi. Ciò che era ordine si è mescolato agli acidi corrosivi dell’io voglio di più. Il tessuto è macerato. Non veste più nessuno, tranne che alienati spiriti mortificati e umiliati.
Ora singole persone si muovono spaesate senza sapere il perché della loro solitudine, o rimpiangendola o ricordando quando, soddisfatti della proposta, in cambio di benefit hanno scelto, come fosse cosa giusta, di adorare un dio immediato. Lo hanno fatto con un cinismo che gli era prima estraneo, hanno ucciso quello immortale dentro sé.
Ora tutti hanno tutto. Le case sono piene di oggetti e vuote di quel sentimento che ci faceva sentire la bellezza e la diversità degli altri come fortuna. Che alla festa faceva danzare e al lutto faceva rispettare il suo tempo.
Confusi, ma senza saperlo, abbiamo scambiato la tecnologia per progresso e adesso siamo costretti ad essa come il cane al guinzaglio. Lo siamo per sapere cosa e come fare, per sapere e sostenere dov’è il giusto e lo sbagliato.
La parola della vulgata della scienza, è un magnete che ci domina i pensieri; che mai vorremo metterci a discutere; della quale mai abbiamo sospettato il matrimonio che essa aveva celebrato con qualche commerciante.
La comunicazione ci invita a concepire la natura come campo sportivo. Il diritto al tempo libero è vissuto come una conquista universale. Anche a scapito di tutto ciò che nella comunità è sostanziale.
Le comunità sono morte di suicidio e gli individui seguono l’esempio credendo che una malattia possa capitare sempre a chiunque, come per caso.

Favola
Non è una favola, anche se forse per qualcuno ne ha i tratti. Ma anche lasciando lo sia, come tutte le favole, ha un valore. L’allegoria e la metafora parlano e alludono ad altro per fare in modo che ognuno ricostruisca in se stesso il significato sotteso. Lo abbiamo fatto per Fedro: non ci siamo fermati a dire “eh ma la volpe mica mangia l’uva”. Possiamo farlo sempre, anche ora. È a quel punto che non è più una favola.

Lorenzo Merlo



Quinta dimensione... (dopo il virus)



Esiste una quinta dimensione? | Reccom Magazine

Del dopo-virus. Se ne parla con 1.preoccupazione, 2.incertezza, 3.fiducia, 4.curiosità
  1. La crisi economica che seguirà quella sanitaria sarà più dura di quanto il virus e le politiche della sua gestione abbiano imposto.
  2. Non sappiamo a cosa stiamo andando incontro. Sarà tutto diverso o riprenderà tale e quale? Cosa cambierà?
  3. Ce la faremo e presto ripartiamo per recuperare il tempo perduto. È stato solo un tunnel. Finirà.
  4. Vediamo se la lezione fisica e metafisica imposta dallo stop forzato corrisponde a un passo evolutivo.
Quattro posizioni, non certo tutte, ma sufficientemente emblematiche di quattro psicologie, sentimenti e quindi realtà. Si tratta di modelli, tutti autoctoni, tutti con radici occidentali, già presenti nella nostra cultura.
  1. La paura deriva da un dio a noi esterno che per noi sceglie e provvede. Senza però mai anticiparci cosa farà per noi, nonostante le preghiere. È il retaggio del cristianesimo. La morale occidentale ne è pregna. Di base, nessuno può sfuggirle. Chi ritiene di essersi svincolato dalla vischiosa religione, a mio parere l’ha solo sostituita con l’elezione della ragione a supremo e solo riferimento della buona vita e dell’espiazione – nel senso di assoluzione – dai peccati commessi in nome del business.
  2. L’incertezza invece, sebbene con forti parentele con la paura, ha più un valore che esprime l’individualismo quale solo riferimento per il pensiero ormai di tutti. Senza la comunità solo i pazzi e gli eroi possono fare i conti con se stessi.
  3. Dai giovani arriva l’afflato di speranza e fiducia. Quale momento migliore di una crisi radicale e per rinnovare il mobilio, i programmi, le attenzioni, il futuro.
  4. Chi invece si sente in attesa degli eventi per capire come stanno davvero le cose non può che essere ronda di se stesso mentre passa in rassegna tutti gli stati d’animo che lo attraversano. Punti cospicui, di guardia, garitte dalle quali tutti gli orizzonti precedenti si affacciano ad ogni angolo del fortino col quale vorremmo comunque proteggerci e trovare le sicurezze di prima, al momento traballanti anche per il curioso.
Ma c’è un quinto modello di pensiero forse ancora poco presente e considerato. Lo si può vedere, diciamo chiaramente, appena si acquisiranno le doti per la muta. Appena si riuscirà a svestirsi dai drappi in cui alloggiamo dalla nascita. In parte una morte simbolica è necessaria, per accedere a nuova vita, spesso più ricca, nel senso di più adatta a noi. E in generale più adatta a comprendere le dinamiche delle relazioni, della realtà, del mondo.
Lo si può vedere a causa della solita prospettiva che ora – gioco-forza, o quasi – ha ruotato il suo sguardo. Fino a ieri aveva sempre puntato a Ovest ora si è girata e guarda a Est. Da una parte c’era sempre stato il cestino pieno del ben di dio, dall’altra solo stranieri gialli senza dignità.
È il modello confucianista che si sta prendendo uno spicchio crescente nel giro d’orizzonte. E se lo è preso nonostante l’egemonia occidentale che fino a ieri affermava il suo diritto di prelazione per tutti i posti a sedere in sala. Se la testa d’ariete è economica, ad essa seguiranno modelli di pensiero. Al momento non pare cosa di poco conto.
Holliwood cessarà di diffondere i suoi standard di pensiero. E in poco tempo avremo a che fare col confucianesimo. L’uomo è duttile e accetterà di far sopravvivere la propria azienda con il nuovo ordine.
Confucio, il confucianesimo è il primo riferimento culturale per gran parte della cultura cinese.
La dimensione individualista, e le sue derive predatorie, non fanno parte del confucianesimo, così come non c’è un dio col quale instaurare rapporti personali. Non c’è neppure la frammentazione del Tutto. Spirito e materia non trovano separazione e gli opposti non sono che indicatori dell’alternanza di tutte le cose della vita. La ragione non ha il presunto privilegio che le diamo noi di discernere il varo dal falso, il bene dal male. Essa è solo uno strumento non portante di niente se non di se stesso. La tendenza all’equilibrio, alla non prevaricazione, alla disponibilità di vedere sempre la complementarità degli opposti è nello spirito confuciano. Non servono filosofi concettuali per sapere come dirigere la vita e la società perché ognuno ha la responsabilità del proprio ruolo in famiglia, tra amici, tra genitori e figli, verso lo stato e gli altri. E chi dovesse cercare i guadagni personali sostituendoli alla rettitudine, avrebbe i suoi inconvenienti secondo un criterio assai meno tollerante di quello al quale siamo abiti.
Non è una religione in senso occidentale ma una serie di indicazioni comportamentali intorno alle quali evidentemente ruota gran parte del pensiero dei cinesi. Sia la Rivoluzione maoista di ieri, che il galoppo capitalista di oggi, pare ne esprimano l’essenza.
I precetti individuati da Confucio – 551-479 a.C. – sono fina dalla sua concezione destinate al miglioramento sociale. Per lui era necessario educale i singoli uomini per realizzare la migliore società.
Erano e sono infatti dedicati ai doveri più che ai diritti, sebbene con una accezione organica più che gerarchica. Ognuno sentiva – e sente? – la responsabilità di tutto il contesto sociale.
Sommariamente, riguardano la famiglia, l’autorità, lo stato. Tre punti fermi di tutte le relazioni di ogni individuo.
Organica in quanto rispettando le gerarchie che ogni relazione comporta si realizza la miglior società. Nessuno si sente escluso dal risultato finale. Una specie di opposto dell’individualismo.
Ma detto così, il discorso si presta a facile critica. L’assolutismo cinese è inaccettabile per il pensiero democratico.
Bisogna infatti aggiungere i cinque riferimenti che presiedono alla concezione confuciana:
Ren (benevolenza), Yi (rettitudine), Li (lealtà), Zhi (conoscenza), Xin (integrità).
Ognuno, di loro, parla da sé. E ognuno, di noi, volendo, purché con la medesima responsabilità confuciana per la buona riuscita della società, vi troverà spunti di riflessione o rivisitazione di ciò che ha condotto le nostre vite finora.
5 punti che forse ora, pur coniugati attraverso la nostra provenienza superiore, non permettono più di ridere dei cinesi. Forse ora sembrano affascinanti e – perché no? – adatti a fare da quinto modello.
Se quanto hanno fatto i cinesi in questi ultimi decenni dovesse proseguire – e vista la pericolante situazione americana, potrebbe essere giusto pensarlo, magari anche moltiplicato –, iniziare a familiarizzare con le abitudini del nuovo padrone potrebbe tornare utile alla sopravvivenza. E, perché no? a valori nuovi o dimenticati.
Lorenzo Merlo