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Adi Shankaracharya, campione del Nondualismo


Adi Shankaracharya paramparam | Indian saints, Hindu art, Indian gods
"Nel puro Sé non sussiste alcuna conoscenza né ignoranza..." (Saul Arpino)

Per comprendere meglio le implicazioni del pensiero spirituale laico, aldilà di ogni teismo,  occorre fare un passo indietro nel tempo, riportando l’attenzione all’alba formativa dell’Advaita Vedanta, la conoscenza nonduale della Realtà, espressa nelle porzioni terminali dei Veda (Vedanta) e nelle Upanishad. 
Ad esempio nel commento sulla Taittirya Upanishad fatto dal grande saggio Shankaracharya (di cui più avanti parleremo in esteso) così viene detto: “Conoscenza e ignoranza appartengono al reame di nome e forma; essi non sono gli attributi del Sé… Ed essi - nome e forma - vengono “immaginati” (sovraimposti) così come lo sono il giorno e la notte in riferimento al sole”.
La similitudine con il sole è qui molto appropriata. Dal punto di vista del sole non c’è né giorno né notte, ciononostante senza il riferimento al sole non vi può essere né giorno né notte. È solo dal punto di vista dell’osservazione dalla Terra che giorno e notte hanno un significato e vengono sovrapposti al sole. Allo stesso modo nel puro Sé (l’assoluta Coscienza  non-duale) non sussiste alcuna conoscenza né ignoranza. Queste sono rilevanti solo per l’intelligenza finita (la mente duale), ma anch'esse possono assumere un significato solo se sovrapposte al Sé.
Il Sé, che è la Realtà Assoluta, ha la natura della Conoscenza Assoluta, non nel senso di una conoscenza mentale ma in quello di Consapevolezza incondizionata in cui non appare né un soggetto né un oggetto né l'atto del conoscere. Ma  quella stessa Consapevolezza, se osservata dal punto di vista della mente che è alla base della conoscenza-ignoranza empirica, produce il miraggio di nome e forma in cui la mente s'identifica…
Adi Shankaracharya (788 – 820 d.C.) è quel grande sapiente, saggio e santo che ristabilì in India la dottrina Advaita (Non Duale) che per un periodo era stata negletta a causa della propagazione del buddismo, del jainismo e di altri culti. Adi significa “originario” Shankara è uno degli epiteti di Shiva ed Acharya sta per “maestro”. I suoi commentari originali sulle Upanishad, sulla Bhagavad Gita e sui Brahmasutra riportarono in luce le profonde implicazioni spirituali dell’Advaita che stava stagnando anche in seguito ad una pratica religiosa ortodossa e superficiale (in auge a quel tempo), sostenuta dalla casta sacerdotale brahmina. 

Egli, nella sua pur breve esistenza, reintegrò il vero significato del Vedanta rendendolo inoltre comprensibile alle masse e confutando le formali dottrine buddiste (mahayana, etc.) che pian piano uscirono dalla consuetudine religiosa dell’intera India. Egli fondò inoltre quei “maths” (istituti spirituali) posti alle cinque direzioni, di cui i capi spirituali portano il suo nome. Al nord a Badrinath, nel sud a Kanchi, nell’est a Puri, nell’ovest a Dwarka ed al centro a Sringeri. In ognuno di questi monasteri c’è un maestro che deriva la sua autorità da uno dei principali discepoli di Adi Shankaracharya.

Shankara, dicevamo, è uno degli appellativi di Shiva. Shiva dal punto di vista tradizionale viene considerato l’aspetto della Trinità preposto alla distruzione. Ma tale distruzione comprende anche l’ego, o l’ignoranza, ovvero quell’identità separata che impedisce all’uomo di riconoscersi Uno con l’Assoluto. Perciò Shankara sta a significare “favorevole, propizio” . Egli è l’Assoluto stesso, l’amore indicibile che sorge dal principio “Io” privo da ogni identificazione, la pura consapevolezza di Sé (in sanscrito Atman). Shiva viene anche definito: “Satyam-Shivam-Sundaram” cioè Vero, Auspicioso e Incantevole.

Shankaracharya viene considerato uno dei massimi esponenti del Nondualismo, (in Sanscrito: Advaita) che è l’espressione più sottile e “scientifica” del pensiero spirituale umano. Agli effetti pratici non può essere definita una filosofia, in quanto si pone “prima” ed “aldilà” del pensiero, quindi non potrà mai divenire un argomento di studio o di dibattito. Il Non-dualismo è stato intelligentemente rappresentato da uno dei suoi più recenti fautori, Sri Poonja di Lucknow (detto Papaji), con queste parole: “Immagina l’Uno non seguito dal due e poi abbandona il concetto stesso di Uno”. Non è possibile alcuna speculazione mentale su quanto viene significato con questa netta e assoluta indicazione della realtà.

La concezione Non-duale si affaccia sulla scena del pensiero umano già cinquemila anni fa, nelle ultime porzioni dei Veda (Vedanta) dette Upanishad, in cui si afferma: “Dall’Uno sorge l’Uno, se dall’Uno togli l’Uno solo l’Uno rimane”. Nel VI° secolo a.C. la civilizzazione Indiana è preda di depressioni empiriche e matematiche, in quel periodo vennero accantonate le sottigliezze vedantiche e sostituite da formalismi rituali, teismi e sofismi di vario genere, per questo motivo la venuta del Buddha segnò un rifiorire dell’autentico spirito nel tentativo di superare il materialismo spirituale.

Avvenne così che la dottrina Buddista della “sunyata” (vacuità o vuoto), in cui si nega la sostanza ed il valore alle forme e alle manifestazioni del mondo, riportasse l’attenzione al percipiente. La descrizione dell’esistenza empirica come origine e fonte della sofferenza restituì stamina ed impeto alla realizzazione del puro spirito, ma già nel V° secolo d.C. le diatribe interne ai vari sistemi Buddisti andavano deteriorando la pulizia dell’insegnamento originario del Buddha.

Ed è proprio in quel contesto storico che apparve sulla scena il grande saggio Adi Shankaracharya, che fin da giovanissimo iniziò a riportare la società induista verso la comprensione dell’Uno senza un Due. Lo fece indicando la pratica spirituale quotidiana della rinunzia alle forme pensiero dualistiche: “Neti…Neti” (non questo… non questo). Il grande movimento che ne nacque è ancora vivo e vegeto ed ha quindi prodotto innumerevoli saggi che si riferiscono a questa linea.

Non si può affermare che il Nondualismo possa venir perfezionato, ma per quanto concerne il modo descrittivo possiamo dire che questa affermazione è appropriata nel caso di Ramana Maharshi, il saggio di Arunachala, la solitaria montagna sacra del Tamil Nadu, ove egli visse in ritiro permanente nella prima metà del secolo scorso. Ramana è universalmente riconosciuto come il divulgatore dell’Advaita Nondualista oltre i confini dell’India. Egli, nella strofa X del suo ‘Quaranta Versi sull’Esistenza’ così afferma: “Non vi è conoscenza separata dall’ignoranza, non vi è ignoranza separata dalla conoscenza. Di chi sono questa conoscenza e quest’ignoranza? Vera Conoscenza è quella che conosce la coscienza che conosce, che è il principio base”.

Secondo l’esperienza di Ramana, non vi è alcuna separazione, e tutto perciò viene ricondotto al Sé. Questa sublime espressione della Coscienza che conosce se stessa è stata susseguentemente spiegata, in modo raffinato e culturalmente accettabile per la nostra mente speculativa, dal saggio Indiano Nisargadatta Maharaj, il quale nella sua estrema semplicità descrittiva si limitò ad affermare: “Io sono Quello”. Nella diretta realizzazione del Sé non esistono descrizioni che possano adeguatamente trasmettere questa ineffabile esperienza, ed è per questo che il diniego o rifiuto di ogni assunzione e proposizione spirituale fu la caratteristica di un ultimo campione della linea, e cioè U.G. Krishnamurti – il santo che negava ogni santità che fosse altra dallo stato puro della consapevolezza – esclamando: “le mie parole sono come il raglio di un asino… esiste solo la vita che meravigliosamente compie il lavoro”. Con ciò segnalando il punto finale di “non ritorno” al dualismo empirico.

Molte le storie che potrei ancora raccontare sull’esperienza Advaita ma voglio tornare all’insegnamento di Shankaracharya, e passo alla traduzione del canto che, secondo me, più rappresenta l’insegnamento del grande Maestro, esso si chiama Nirvanasatkam, ovvero:

Sei strofe sulla salvezza

Io non sono né la mente cosciente né quella inconscia,
non l’intelletto né l’ego,
né le orecchie o la lingua, né i sensi dell’olfatto, vista o tatto,
e nemmeno l’etere, l’aria, il fuoco, l’acqua o la terra.
Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva.

Io non sono il prana o le cinque arie vitali,
né i sette componenti del corpo, né le cinque guaine o corpi.
Non la parola, né le mani od i piedi, non l’ano né l’organo sessuale.
Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva!

Neppure sono avversione od attaccamento, avarizia o illusione.
Non arroganza né il sentimento di gelosia, nulla di tutto ciò.
Né rettitudine, ricchezza o piacere sono miei.
Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva!

Io non sono la virtù né il vizio, né godimento o dolore.
Non sono la preghiera né il luogo sacro, non sono le scritture né i sacrifici.
Io non sono il cibo, né chi lo mangia, né l’atto di mangiarlo.
Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva.

Non la morte, né il dubbio, né il senso di classe,
nemmeno il padre, la madre o questa nascita mi appartengono.
Io non sono fratello o amico, neppure maestro o discepolo, veramente.
Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva.

Io sono senza pensiero, senza forma, io sono onnipervadente,
sono ovunque, eppure sono oltre in tutti i sensi.
Io non sono né il distacco né la salvezza, nulla che possa misurarsi.
Io sono Coscienza e Beatitudine. Io sono Shiva! Io sono Shiva!

Om Namah Shivaya. Possa Shiva (il Sé) illuminare la mente di chi legge!

Altro inno composto da Shankaracharya  è lo Shiva Manasa Puja, questo  inno, che dal 1973 canto ogni sera prima di addormentarmi.  ha una tale potenza da purificare completamente la mente del recitante.

E' un inno dalla musicalità molto delicata, è un elenco di azioni rituali, è una visione della Bhakti, il non-pensiero devozionale che ci rende Bacchi, secondo la fulminea intuizione di Danielou, il Bhakta è il Bacchos, colui che è posseduto dal divino entusiasmo,  sereno e con dolcezza consapevole del proprio Sé.

Secondo Adi Shankaracharya: "La realizzazione del Sé è sempre presente"

Sé, Self in inglese, è lo spirito che tutto compenetra, nell'advaita si definisce Brahman od Atman o Paramatmam. 

Una precisazione: allorché si parla del Sé già siamo in uno stato di dualità. Come dice Lao Tzu: il Tao che può esser detto non è il vero tao. Dal punto di vista concettuale, quindi con una descrizione all'interno della mente duale, il Sé rappresenta l'assoluta consapevolezza non consapevole di sé, ovvero l'Assoluto uno senza secondo. 

Il sé individuale (ego) è il riflesso nella mente di quella consapevolezza. E qui si chiede cosa è la mente? E' quel potere di riflessione che consente al Sé di manifestarsi nelle infinite forme (Maya o Shakti. - Tempo spazio energia). Siccome il riflesso delle immagini manifestate ha come substrato il Sé, si può dire -come diceva Shankaracharya- che il mondo è irreale se visto come separato dal Sé, ma diviene reale se visto come il Sé. Il realizzato non è quindi una persona ma è il Sé, Come un qualsiasi personaggio del sogno al momento del risveglio smette di esistere in quanto "individuo del sogno" e si risveglia come il soggetto sognatore. La similitudine è imperfetta... come detto sopra.... 

La Realizzazione quindi non è altro che risvegliarsi alla propria vera natura, essendo sempre stati quel Sé.

Paolo D'Arpini

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Comitato per la Spiritualità Laica

"Siamo tutti sempre in pericolo..." - Osho confida il segreto per trascendere il pericolo


The Whispered Transmission | Osho News

IN TEMPI DI CRISI PUOI FARTI PRENDERE DAL PANICO O USARE L’OPPORTUNITÀ PER VIVERE PIÙ PIENAMENTE E SVEGLIARTI! OSHO DICEVA QUESTE COSE IN OCCASIONE DI UNA GROSSA CRISI PLANETARIA DI QUALCHE ANNO FA, MA SONO PERFETTE ANCHE OGGI.

Domanda: Amato Osho, il recente disastro nucleare di Chernobyl rende dolorosamente chiaro quan­to tutto sia fragile e mortale. I miei genitori, mio figlio, mio fratello, mia sorella, i miei amici e le persone che amo, sono tutti in pericolo. È difficile per me immaginare che esista qualcosa oltre il momento presente...

Osho: Le catastrofi ti rendono consapevole della realtà così com’è. È sempre fragile, siamo sempre tutti in pericolo. Solo che normalmente sei così addormentato che non te ne accorgi: continui a sognare, immaginando le cose belle che accadranno nei prossimi giorni, nel futuro. Ma nei momenti in cui il pericolo è imminente improvvisamente ti accorgi che potrebbe non esserci un futuro, un domani, e che questo è l’unico momento che hai.

Quindi le catastrofi sono molto rivelatrici. Non portano nulla di nuovo nel mondo, ma semplicemente ti rendono consapevole del mondo così com’è, ti svegliano. Se non lo capisci, puoi anche impazzire; se lo comprendi, puoi svegliarti.

Dipende da come usi il momento: puoi farti prendere dal panico, puoi impazzire, puoi cedere alla paura, scoppiando in lacrime, ma non sarà di alcun aiuto alla tua famiglia, ai tuoi amici o ai tuoi cari. E non sarà di alcun aiuto neanche a te.

Questo disastro nucleare ha semplicemente creato una situazione in cui chi ha un po’ di intelligenza può iniziare a dedicare sempre più tempo alla meditazione, perché il domani è davvero incerto. È sempre stato incerto, ma ora è più incerto che mai. Questo disastro potrebbe anche essere solo l’inizio di una catena di catastrofi, perché nessuna di queste centrali nucleari è intrinsecamente sicura. Ma è possibile utilizzare questo momento come una grande opportunità.

Siamo tutti sempre in pericolo.

Conoscete il vecchio detto: “Non chiedere mai per chi suona la campana, suo­na sempre per te”. Quando qualcu­no muore, la campana della chiesa in­forma l’intero villaggio. Ma non chie­dere mai per chi suona la campana: suona sempre per te. Chiunque sia il morto, in questo momento... ogni mor­­te è la morte, perché ogni morte ti ricorda che non rimarrai qui per sempre. Ogni morte è una possibilità di risveglio. Prima che la morte arrivi, sfrut­ta l’opportunità della vita per raggiungere qualcosa che sta oltre la morte.

È inutile preoccuparsi, perché ti lascerai semplicemente sfuggire questo mo­mento e questo non gioverà a nessuno. Non solo i tuoi genitori, i tuoi amici e i tuoi cari sono in pericolo: tutto il mondo è in pericolo. Qualcuno è in pericolo oggi, qualcun altro sarà in pericolo domani, ma il pericolo c’è.

Quindi, impara il segreto… come trascendere il pericolo.

Il segreto è iniziare a vivere con più pienezza, con più totalità. Sii più attento, in modo da trovare dentro di te qualcosa che è irraggiungibile per la morte. Questo è l’unico rifugio, l’unica sicurezza, l’unica certezza. E se vuoi aiutare i tuoi amici e la tua famiglia, fa’ sì che anche loro prendano coscienza di questo segreto.

Ciò che è accaduto succederà ancora, perché ci sono così tanti impianti nucleari, anche in paesi sottosviluppati che non hanno nemmeno le competenze tecniche, che tecnologicamente sono ancora all’età della pietra, vivono ancora quasi come due o tremila anni fa. Ci saranno altri disastri. Questo è solo l’inizio.

Usa questa opportunità per essere sveglio, è tutto ciò che puoi fare, non c’è nient’altro.

Il pericolo è grande, ma visto che la vita stessa è sempre nella morsa della morte, è una buona occasione per diventarne consapevoli. A quel punto quando muori non c’è tristezza, nessuna infelicità e ti trasferisci semplicemente da questo corpo a un altro, o se ti illumini... un’improvvisa consapevolezza della morte può portarti all’illuminazione. Vi racconto una storia.

Eknath, bellissimo maestro e poeta, viveva in un tempio di Shiva. Era una persona molto indipendente. Il suo re era ateo, veramente razionale e polemico. Tutti i suoi studiosi e saggi si erano stancati di cercare di convincerlo dell’esistenza di dio, sembrava impossibile... quindi alla fine gli dissero: “Vai da Eknath. È l’unico che forse può riuscirci”.

Il re ci andò sotto mentite spoglie. Arrivò al mattino, alle 9, e Eknath dormiva profondamente. Il re disse: “Mio dio! Questo dovrebbe essere il mio maestro?”, perché di solito quelli che credono in dio, e in particolare i santi, si svegliano prima dell’alba. Mentre lui dormiva alle nove! Non solo, le sue gambe toccavano lo Shivalinga, la statua fallica di Shiva. Il re pensò tra sé e sé: “Nemmeno io posso toccare lo Shivalinga con i piedi. Anche se razionalmente penso che non esista alcun dio, in fondo ho paura… chi lo sa? Potrebbe esistere. Quest’uomo sembra fuori di testa e quegli idioti della mia corte mi hanno mandato qui”.

Aspettò. Eknath si svegliò e gli chiese: “Allora, per cosa sei venuto?”.

Il re rispose: “Sono venuto per capire se dio esiste o no, perché secondo i miei ragionamenti sembra che non esista. Ma il mio popolo, gli amici, la famiglia… tutti ci credono e volevano che ti incontrassi”.

Eknath disse: “Mostrami la tua mano”.

Il re pensò: “Quest’uomo sembra davvero pazzo! Che cosa ha a che fare la mia mano con dio?”.

Eknath guardò la mano e disse: “Di dio possiamo discutere più tardi... ma nel giro di sette giorni morirai. Dovevo dirtelo come prima cosa, perché la mia memoria non è molto buona, avrei potuto dimenticarmelo. La linea della vita è esaurita, ti restano al massimo sette giorni. E ora possiamo discutere”.

Ma il re non era più pronto a discutere, aveva paura di morire e stava già scendendo i gradini del tempio.

Ek­nath chiese: “Ma dove vai?”.

Il re disse: “Ora non c’è più bisogno di alcuna discussione. Non ho tempo! Solo sette giorni! Non posso sprecarli in una discussione”. Solo pochi istanti prima sembrava così forte ed ora, mentre scendeva i gradini, tremava. Solo sette giorni!

Arrivò a casa e disse: “Non so che genere d’uomo sia, ma è un grande chiromante, questo è certo. Ha dichiarato che tra sette giorni morirò. Mi ha mostrato la linea della vita, sta finendo, ne resta solo un pezzettino!”.

E visto che stava per morire, iniziò a prepararsi alla morte. Non avrebbe più lavorato. Si sdraiò e si fece debole e pallido. Arrivarono tutti i suoi parenti. Mol­te famiglie reali erano imparentate, quindi fu un grande raduno. Il re di­ventava ogni giorno più debole: la sua voce si era fatta fioca, i suoi occhi erano distanti. E Eknath aveva detto: “Il settimo giorno, mentre il Sole tramonta… finito! Quello è il tuo termine!”. E prima del tramonto l’intera famiglia piangeva, i parenti piangevano.

Eknath arrivò. Chiese: “Cosa succede? Perché tante lacrime?”.

Dissero: “ Il nostro re sta morendo”.

Eknath disse: “Vorrei vederlo”. Andò dal re, lo scosse e disse: “Svegliati e guardami, era solo uno scherzo! Non so nulla di chiromanzia e persino la linea che ti ho mostrato non è la linea della vita. Ho chiesto a dei chiromanti e mi hanno detto: ‘Dovresti almeno conoscere le linee esatte!’. Non morirai. Ora svegliati, siediti con me, e possiamo discutere la domanda che eri venuto a pormi”.

Il re disse: “Ora non c’è più bisogno di discutere. Dio non importa. Ma in questi sette giorni mi sono reso conto che ciò che conta... con la morte così vicina non potevo rimanere addormentato… è che dovevo essere sveglio. Non potevo sprecare il mio tempo in pensieri inutili. Ho dovuto guardare i miei pensieri in modo che potessero scomparire… e sono scomparsi. Avevi ra­gione: al tramonto – il Sole stava tramontando – l’uomo che era venuto a chiedere è morto davvero, io sono un uomo totalmente nuovo. Dio o non dio... non è più una mia preoccupazione. Ora ho una dimensione completamente nuova nel mio essere, conosco la mia immortalità, conosco la mia divinità. Che m’importa di un dio qualsiasi? L’intera esistenza è divina.

Il tuo scherzo ha davvero funzionato, ma hai degli strani modi di lavorare. Potevi uccidermi davvero. Se non fossi stato abbastanza attento, esattamente al tramonto sarei morto. Era così certo che non avrebbe potuto essere altrimenti. Ma in senso metaforico è vero: il vecchio uomo è morto e io sono un uomo nuovo. E non ho alcun problema con dio, che esista o non esista…”.

Eknath disse: “È vero, questa è la vera religiosità”.

E il re aggiunse: “Ora posso capire che un uomo come te dorma fino a tardi, fino alle nove, e appoggi i piedi sulla testa di Shiva. Ora non c’è problema, posso capire. Se senti la tua divinità, allora una statua è solo una pietra e non si pone la questione di svegliarsi prima dell’alba. Quando ti svegli, è l’alba. Diventi spontaneo, naturale”.

Quindi si tratta solo di come usare tutto, qualunque cosa sia. Usala nel modo giusto. Il disastro è grande, il pericolo è grande, ma grande è anche l’opportunità.
The Path of the Mystic: In Search of the Ultimate Freedom: Osho ...

Brano tratto da: Osho, The Path of the Mystic