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C'è Treja e Treia - Miti sull'origine del nome e toponomastica

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Non vi sono dubbi che sin dalla più remota antichità i nomi dei luoghi traevano la loro origine da persone, reali o divine, che avevano  qualificato con la loro presenza il luogo stesso. Ciò, ad esempio, è evidente per il picco della Maiella, che prese il nome dalla ninfa Maya, e ciò vale anche per il fiume Treja, collegato alla dea Trea, con la differenza che per quanto riguarda la Maiella si fa riferimento ad un mito, mentre nel caso del Treja c'è l'evidenza storica. 

Tale evidenza è derivata da una ricerca fatta dall'archeologo inglese Potter, che negli anni 60 dello scorso secolo, diresse una campagna di scavi nel cuore della valle del Treja. I ritrovamenti da lui effettuati sconvolsero l'intero panorama del periodo storico antecedente la fondazione di Roma e mandarono all'aria le conclusioni di parecchi studiosi da biblioteca che basavano la loro conoscenza sulle tradizioni scritte. Nel luogo ove oggi esiste un parco regionale, chiamato per l'appunto "Valle del Treia", ubicato tra gli abitati di Calcata e Mazzano, attorno a 1.500 anni a.C e forse anche prima, insistette una civiltà fiorente, la mitica Fescennium, il cui fulcro originario era posto su tre colline, oggi denominate Narce, Pizzopiede e Montelisanti. 

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Attualmente, come spesso succede, questi luoghi sono disabitati ma per secoli nel sottosuolo  i contadini vi rinvennero importanti reperti ed oggetti di pregio. Proprio questa dovizia richiamò l'interesse del Potter, il quale, da buon inglese che non si lascia influenzare dai libri ma conta sulla ricerca nel campo, scoprì vestigia che mai si sarebbero immaginate, basti pensare che metà dei sotterranei e delle sale di Villa Giulia, a Roma, ed il museo di Forte Sangallo di Civita Castellana, traboccano di materiali preziosi, sculture, monili, armi, etc. che dimostrano l'opulenza di quella primitiva città policentrica. 

Una ricchezza che non poteva essere giustificata dall'agricoltura e dalla pastorizia e nemmeno dai commerci, in quanto il Treja non è navigabile, e quell'antichissimo sito era  situato all'interno di un territorio impervio. Cosa c'era dunque di tanto importante in quel preciso punto della Valle del Treja? Il Potter risolvette l'arcano allorché scoprì,   in una spianata lungo il fiume, sotto ai tre abitati suddetti, i resti di un vetusto tempio che si fa risalire alla Dea, in forma di Alma Mater (Giunone, la Grande Dea), signora dell'abbondanza e della grazia, e della quale il fiume era il sacro luogo delle abluzioni, da qui il suo nome Treja. 

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Insomma quello era un luogo di pellegrinaggio e pertanto la sua ricchezza, confermata da tutti quei meravigliosi reperti storici rinvenuti dal Potter, era legata alla frequentazione di migliaia e migliaia di "fedeli". La stessa cosa, in tempi più a noi vicini, è accaduto a Roma, in quanto capitale del cattolicesimo e sede del papato.

Appresi notizie certe sulla civiltà di Fescennium, nella valle del Treja, attraverso  Gilda Bocconi, una archeologa che  operò nei siti predetti (vedi articolo collegato: http://www.circolovegetarianocalcata.it/2009/02/10/gilda-bocconi-e-la-mitica-fescennium-sparita-e-ritrovata-lantichita-ed-il-lignaggio-di-calcata-fra-storia-e-psicostoria-il-viaggio-dei-falisci-dall%e2%80%99indo-al-treja/ ).  Pertanto verso l'inizio di questo millennio rimasi meravigliato nello scoprire che esisteva, anche nelle Marche, un altro toponimo dedicato alla Dea, un borgo medioevale che porta il suo nome, Treia appunto,  per primo  me ne parlò un suo cittadino, trasferitosi a Calcata, il prof. Giancarlo Croce. Una decina d'anni dopo conobbi un'altra persona originaria di questo borgo, ed è la mia attuale compagna Caterina Regazzi, la quale nel 2010 dalla valle del Treja mi condusse a Treia,  per dimostrami la sua esistenza ed io qui rimasi, affascinato dal luogo.

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La presenza della Dea anche qui è molto forte, infatti nel sito archeologico ove insisteva la città antica furono rinvenuti parecchi oggetti di culto dedicati alla Madre, tant'è vero che a tutt'oggi esiste il culto  della Madonna Nera, che altri non è che la trasposizione cristiana della Dea.  Il toponimo  originario di  "treia"   è   basato anche  su alcune "presenze" che suggeriscono un legame fra Treia e le culture ariane (una curiosità: esiste una Treia anche in Germania). Il nome stesso  denota  l’appartenenza a una società matristica indoeruropea: Atreya, in sanscrito,  è il nome della  divina madre di Datta, il maestro primordiale. 

Anche secondo lo storico marchigiano Samuele Sabatini la città di Treia trae origine dalla divinità ariana Trea-Jana (che rappresenta la Dea delle selve, Diana, simbolo della Luna). Inoltre è motivo d'interesse storico la raffigurazione di un cinghiale sul frontespizio della chiesa del SS. Crocifisso (ove insisteva l'antica città di Treia), un animale che è collegato alla Dea Freya che viene spesso raffigurata in groppa al facocero. Il cinghiale (o maiale) è da sempre un simbolo della Dea Madre, in tutte le culture matristiche dal  neolitico sino ai nostri giorni.

Paolo D'Arpini

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Una testimonianza: "Treia – Freya: la rima c’è ed anche la pronuncia è simile. Viene in mente l’ipotesi che il nome della cittadina maceratese possa provenire da quello della Dea. Chissà, ci vorrebbero gli esperti per confermarla ma, allo stato attuale, gli esperti mancano.



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Commento integrazione di Ferdinando Renzetti: 


"...interessante quel che scrivi su Treia e la dea : "la città di Treia trae origine dalla divinità ariana Trea-Jana (che rappresenta la Dea delle selve, Diana, simbolo della Luna)."
 Cosi per assonanza di suoni delle parole mi vengono in mente Adriatico Adria e atri  nomi.  Su wikiepedia trovi queste notizie:

All'inizio del VI secolo a.C. Adria era un insediamento etrusco posto sul fiume Adrias (Atriano in lingua latina), che all'epoca sfociava nel mare.
Il nome Adria deriverebbe dall'etrusco atrium, giorno/luce/est, ad indicare la posizione ad oriente del mare e della città di Adria, abitata dagli Atriates Tusci (etruschi orientali - civiltà post-villanoviana con centro a Felsina), rispetto all' Etruria. Secondo alcune fonti il nome fu poi utilizzato dai greci per denominare la parte superiore del mare Adriatico Adrias Kolpos (golfo di Adria); il nome venne poi esteso all'intero mare Adriatico . Altre ricostruzioni fanno risalire l'origine del nome Adriatico alla città di Atri, in provincia di Teramo 
anche se non è dato per certo, come sostiene qualcuno, che siano stati gli Illiri, provenienti dalla Dalmazia, durante le migrazioni tra il X e il IX secolo a.C., a dare il nome alla città, la cui forma più antica, Hatria, potrebbe derivare da Hatranus o Hadranus, divinità illirica - sicula. Con le ultime scoperte archeologiche è dato per certo che la parte centrale dell'Italia era abitata dagli Osci - OschiSabelli - Sabini - Safin, già dal IX millennio a.C., in grotta nella parte montana e sui terrazzi fluviali dell' AternoVomanoTordino e Tronto: culture- Bertoniana, di Catignano, del Casarino e di Ripoli. Praticavano la pastorizia transumante già dal tardo neolitico, quando il Mare Adriatico era in fase di formazione, all'inizio dello scioglimento delle acque dell'ultima glaciazione Würm, iniziato all'incirca 11.000 anni fa."

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Altro commento di CNSS: "Molto interessante e veritiero. Antichi scrittori hanno avvalorato questa origine per il toponimo di Treia. Dunque è esistita una dea Trea! Nella Storia di Treia del prof. Alberto Meriggi ciò risulta..."

La conoscenza ed il misticismo, secondo Karl Marx e secondo Giovanni Lamagna


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Nella ottava e nella undicesima delle sue tesi su Feuerbach Marx afferma:
- ottava tesi: La vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nell'attività pratica umana e nella comprensione di questa prassi.
- undicesima tesi: I filosofi hanno (finora) solo interpretato diversamente il mondo; ma si tratta di trasformarlo.

In questa sede mi preme fare, sommessamente, un unico rilievo a queste due tesi di Marx, senza volere, sia chiaro, minimamente mettere in discussione il grande genio di Treviri.

Marx dice: “Tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nell'attività pratica umana…”

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Io dico: “Tutti i misteri? Proprio tutti?”. A me non sembra.

A me sembra che una dimensione misteriosa permarrà sempre, che ci sarà sempre una soglia oltre la quale sia impossibile andare, che la prassi umana non potrà mai superare.

E che questo giustifichi e recuperi, anche in una visione del tutto materialistica e atea o agnostica, il misticismo, legato al senso del mistero, con il tentativo, lo sforzo, l’aspirazione, la tensione (del tutto umani) di venirne a capo.

Ovviamente non il misticismo che vola in cielo e fugge dalla terra, alienandosi, quindi separandosi dalla realtà, perdendo il contatto con essa. Così come siamo stati abituati a concepirlo, perché così si è manifestato il più delle volte nella esperienza cosiddetta spirituale degli uomini di religione. Ma un misticismo che resta coi piedi ben piantati sulla terra e, tuttavia, guarda anche oltre, a una dimensione che resta altra, in qualche modo trascendente, ancorché non metafisica, misteriosa, perché non puramente o immediatamente fenomenica.

Questo misticismo, lungi dall’essere alienante e dannoso, può risultare addirittura una risorsa preziosa, non solo per comprendere il mondo e la vita, ma anche per trasformare ed elevare il mondo e la vita.

Pienamente nello spirito, dunque, con cui Marx concepiva la filosofia e se stesso come filosofo della prassi e della trasformazione del mondo.

Giovanni Lamagna

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Untori di buon senso... e dinamiche emozionali


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Ciò che chiamiamo realtà, per la quale saremmo disposti a scommettere la casa, a mettere la mano sul fuoco corrisponde a una cosmogonia che a nostra stessa insaputa abbiamo creato, ereditato, imitato, fatta nostra. La realtà è qualcosa di a noi endogeno, banale prodotto oggettivo della storia. Noi ne siamo frequentatori come pesci nell’acquario. L’idea di esserne i creatori non ci riguarda.

La suggestione di un cambio repentino della cosmogonia, di ciò con cui la riempiamo, normalmente animata dai soliti affanni umani e dai suoi valori, fa tremare la terra sulla quale pensavamo d’averla posata una volta per tutte.

Alieni in atterraggio, meteore in avvicinamento, extraterrestri confermati, guerra tra i quartieri di casa, catastrofi naturali e pandemie, non lasciano altro spazio che non sia orientato a dove scappare, a cosa fare.

Si avvia una dinamica emozionale ben chiara e indubitabile. Percorre la nostra carne, non può mancare di verità. Ci costringe ad esserla, ad essere altro in tempi brevi.

Tuttavia, per quanto una repentinità ci induca a crederla un fatto particolare, un processo estraneo dall’ordinario, quella suggestione carica di urgenza, che impone un cambiamento di tutto, fino ai valori, non ha alcuna differenza con quelle che ci hanno rapito da dentro la continuità della normalità, senza essere un evento come lo è il timore di pandemia del Coronavirus Covid-19.

La normalità, vale a dire quell’appiattimento di noi stessi e di tutto, privato di creatività dalla livella del cosiddetto e celebrato buon senso, il gran pusher dello status quo. Popolata da valori mai discussi ma sempre misconosciuti nella loro genesi e funzione. Nutrita da ideologie politiche ed economiche. Confermata dalla scienza. 

  Tutte infrastrutture culturali, tutte autoreferenziali, tutti rituali di superficie, tutte dipendenze, tutte semplici consuetudini scambiate per verità, per le quali siamo pronti a lottare, e sopraffare. A uccidere o a essere uccisi. Ma in sostanza solo grette religioni. Funzionali a controllare masse e individui e ad arricchire i pochi in cabina di regia del sistema.

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La giostra ruota e spesso pensiamo anche di divertirci, di esserci saliti in libertà. È invece un paradigma che macina lo spirito e ruotando sempre intorno allo stesso perno ci offre l’idea che così sia il mondo. Una burrasca di suggestioni che per logiche di dominio conviene alimentare. Logiche di antica genesi. Prima cristiana e poi illuminista. Entrambe attribuiscono all’uomo un dominio sul resto della natura e quindi sul prossimo.

Il gioco è un giogo sempre identico che avanza ad infinitum tranne che per la quantità di popolazione che controlla, denaro che incassa e equilibri che sposta. Tre temi, come una trinità materialista-positivista-scientista, tutti crescenti.

Prodotti che il marketing della globalizzazione è riuscita a mandare a ruba sui banchi all’ingrosso riservati agli economisti e ai politici. Questi poi, come maestri bottegai – che pur di vendere tacerebbero le controindicazioni di un vaccino – riempiono di fandonie i nostri pensieri e svuotano le tasche del nostro denaro.

Per merito della suggestione indotta dal rischio di pandemia del Coronavirus possiamo dunque avvertire il cambio di stato: la libera – per modo di dire – attenzione che poteva dedicarsi a giocherellare entro il giardinetto della propria normalità è ora rapita e catturata in un solo punto, il timore di perdere tutto, della morte.

Per tutte le altre suggestioni, quelle che entrano in noi come silenziosi virus e a lungo rilascio, per le quali non sobbalziamo d’orrore, si tratta solo – non sono che ipotesi da complottista – di follie da bombarolo.

Il nostro buon senso ne è così certo fino a non riconoscere l’evidenza. La sua preferenza è sempre per dare contro all’estremista, è il solo modo per mantenere il proprio equilibrio, le proprie verità.

A suo favore va ricordato infatti che ogni unità di misura incommensurabile con le caselline con le quali cataloghiamo i fatti della vita, non può essere razionalmente accettata. Essa richiede di dedicarsi a percorrere l’impegnativa via della ricerca.

Come infatti – uno per tutti – ipotizzare ci sia un mercato della salute alimentato dalle multinazionali farmaceutiche? Come prendere in esame che ci sia la volontà di produrre malattie e malati a scopo di lucro? Come sospettare che il nostro perbenismo moralistico-cattolico non sia brace mai lasciata freddare dai signori del mantice?

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O come non vedere che la realtà sia più simile a un pensiero e al suo sentimento invece che a un insieme di oggetti separati?

Teniamoci la globalizzazione allora e seguitiamo a considerarla un buon consiglio degli esperti. Allo stesso modo vacciniamo a tutto spiano, alimentiamoci per il superiore diritto al piacere, non dedichiamoci al sistema immunitario, continuiamo a credere che una malattia ti prende per caso, tralasciamo del tutto l’idea che siamo solo espressioni di uno spirito, non occupiamoci di questo affinché il corpo viva sempre più distante dal benessere, quello che ha come sinonimo la serenità e l’amore, non l’altro che si compra al centro commerciale, che ci riempie le case di oggetti superflui.

L’evidenza di certe suggestioni entro le quali siamo nati è chiamato da alcuni risveglio. Persone che hanno riconosciuto le strutture culturali entro le quali esauriamo il mondo, la vita, noi stessi. Con le quali ci eravamo identificati. Emancipazione dopo emancipazione, ne hanno preso le distanze. 

Contemporaneamente – era implicito – si avvicinavano a loro stesse, al loro sé, alla loro natura. La critica al sistema diveniva necessariamente radicale e le scelte non più ideologiche, la scienza una fanfara da lasciare alle feste paesane, la religione una verità, macchiata e stracciata, trasformata in dogmi per timorati di Dio, le masse da muovere come pesi e contrappesi di interessi prima insospettabili. La democrazia una facciata di vecchia cartapesta.

Come Truman si risveglia quanto il bompresso buca il cielo dell’orizzonte artefatto, la burrasca, diviene chiaro, è in un mare fittizio soffiato da ventole adeguate. Ma c’è una scusante. L’uomo pare già orientato a non vedere a meno che il Velo di Maya e la Caverna platonica non ci abbiano proprio preso.

Logiche di controllo e dominio che però hanno un’alternativa, forse razionalisticamente utopica, ma ancora mai intentata, sebbene già presente nelle nicchie del mondo. È la logica dell’Uno. In essa, la verità analitica che la scienza moderna ha elevato a definitiva, non sussiste più nei suoi termini universali. Le forme, invece che espressioni di differenza conclamata, sono solo maschere di pochi archetipi. Gli altri non sono più il nemico o l’amico ma dei noi in altro tempo, forma e spazio. Nessun cambio di paradigma pare possa prescindere dal riconoscere che la vita è una e le forme diverse sono solo espressioni terminali di una sola natura. Nessun privilegio antropocentrico può più reggere. Niente dell’attuale sistema avrà ancora le doti per sopravvivere quando i limiti del maledetto buon senso saranno chiari a tutti.

L’eterno ritorno, l’ultimo uomo, la volontà di potenza non sono più scellerate espressioni di un pazzo, ma visioni e perciò realtà per chi invece di montare sull’autobus della modernità preferisce guidare se stesso secondo quello che sente piuttosto che da quello che gli è stato detto.

Lorenzo Merlo 

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"Compagni di viaggio" di Paolo D'Arpini - Postfazione di Caterina Regazzi




Il mio amato Paolo mi ha chiesto di scrivere una postfazione al suo libro “Compagni di viaggio”, ed io, che pure compagna del suo viaggio sono, mi ci accingo, non dico di buon grado, in quanto le cose da fare nella mia vita sono tante (per me) e le energie in questo periodo sono poche. Del resto glielo devo proprio perché la lettura di certi suoi racconti, di cui molti sono compresi in questo libro, è stata per me un grande nutrimento, che mi ha fatto avvicinare ancora di più, di quanto non stessi già facendo da sola, ad un mondo di spiritualità in cui l’evento principale, la tendenza a… più forte è la “scoperta del Sé”. Eh si, perché nonostante il contenuto più evidente in questo libro siano i racconti degli incontri di Paolo con vari santi e saggi, incontri diretti, fisici, ma a volte solo indiretti, i personaggi descritti e ricordati hanno avuto per Paolo, ed indirettamente avranno sul lettore, lo scopo di aiutarlo a scoprire il proprio Sé, fungendo da specchio, in cui l’ente si riflette, vi vede e si riconosce.

Il testo, a tratti, è un dialogo di Paolo con se stesso o forse con un ipotetico lettore, per cui, per me è stato quasi impossibile, nella correzione delle bozze, fare alcun taglio, alcuna sostituzione, persino, come avevo iniziato a fare, togliere alcuni puntini di sospensione che per me erano di troppo, che evocavano un discorso “parlato” più che scritto, e che qui abbondano. È una scrittura appunto “evocativa” che lascia al lettore la possibilità di immaginare, per terminare la frase, un finale tutto suo. Difficile per me, che sono una persona molto concreta (o lo ero?), digerire questo tipo di scrittura.

Ma, parlando di spiritualità, come si fa ad essere concreti? Ognuno di coloro che leggeranno questo testo, potrà trovarvi fatti, idee, immagini che gli “risuonano” o magari cose che lo infastidiranno, ma di certo questo libro non può lasciare indifferenti. Il percorso spirituale di Paolo è la sua vita e la sua vita è il suo percorso spirituale. Questi racconti sono stati originariamente scritti durante anni ed anni di incontri e di esperienze. Un libro sulla spiritualità laica? Sugli incontri della sua vita che hanno illuminato il suo percorso? La descrizione dell’emergere improvviso dal buio della luce del suo spirito? Presto fatto: c’è un grande baule immaginario dove negli anni sono stati fortunatamente (anche per noi) e fortunosamente (per lui) raccolte le impressioni, le esperienze, che si possono leggere e godere anche come “semplici” avventure, che appaiono vive e vivide come fossero state vissute appena ieri e raccontate in maniera così vitale e a volte anche auto-ironica che ci pare di vederle scorrere davanti ai nostri occhi e, come un bambino che guarda e riguarda per dieci, venti volte sempre lo stesso cartone animato o si fa leggere per dieci venti volte la stessa favola, io leggo e rileggo alcune di queste storie con rinnovato piacere e godimento (la lebbrosa, l’abbracciona, la storia con Leslie, ecc.).

Mi ritengo una persona molto fortunata di poter godere di queste esperienze anche se di seconda mano perché Paolo non ne fa mistero e le custodisce sì nel suo cuore, ma le condivide generosamente con chi sa che le potrà apprezzare e farsene bagaglio. E così sarà per chi si avvicinerà a questo libro, certo che dopo averlo letto e magari anche riletto, consumandolo quasi, ognuno potrà guardare dentro e fuori di sé, con maggior chiarezza e amore. Ancora una volta, Paolo, grazie per quello che ci doni e di essere quello che sei.  



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Caterina Regazzi


Estratto da: “Compagni di viaggio. La ricerca spirituale laica inizia e finisce nel Sé” di Paolo D’Arpini

Edizioni OM Bologna, Via 1 Maggio 3/e – Quarto Inferiore
Tel. 051 767079 – Cell. 393/33.64.368

Dissolto nell'oceano dell'Essere... Osho


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Osho, significa dissolto nell’oceano,   la sua goccia è scomparsa ed è nato l’oceano.  

Diveniamo ciò che siamo.  L’intimo incanto del risveglio.  

Dal 1974 fino al 1990, migliaia di giovani di tutto il mondo si sono diretti in una città indiana 120 chilometri a sud di Mumbai, raggiungibile dopo un viaggio in pullman che poteva durare dieci ore su strade perigliose: Poona era la meta che i ragazzi delusi dalle rivoluzioni mancate avevano scelto dopo tanto vagare da una ideologia a un’altra. E, come sempre accade quando una luce di speranza si accende in qualche parte del mondo, chi non ha mai smesso di cercare la sua via, presto o tardi se ne lascia attrarre.

Il maestro si chiamava Shree Rajneesh Bagwan, un fratello maggiore che non aveva mai impugnato un libretto rosso né una molotov; che non si era mai mosso dall’India (solo più tardi, all’inizio degli anni Ottanta, avrebbe fondato un ashram, una comunità spirituale, in Oregon, negli Stati Uniti), anche se aveva viaggiato dentro sé stesso e il cuore umano.

E chi era colui che insegnava ai giovani a liberarsi da condizionamenti politici, religiosi, familiari, senza proporre nuove dottrine? Bagwan, «il benedetto», nato in una famiglia di fede jainista, la più antica religione dell’India, era cresciuto nella totale libertà di pensiero e a 21 anni aveva raggiunto l’Illuminazione, la più alta vetta della consapevolezza. «Da quel momento — egli afferma — finisce la mia biografia esteriore e comincia una vita priva di ego, in profonda unione con le leggi del cosmo». Laureato in filosofia, campione di oratoria, insegna all’università e, nel 1966, attraversa l’India per diffondere «l’arte della meditazione dinamica», tecnica da lui creata per escludere la mente dai processi cognitivi: «Solo così il cuore e lo spirito torneranno a essere i luoghi privilegiati per raggiungere la consapevolezza».

Nel 1974 Osho, come prese a farsi chiamare, inaugura l’ashram di Poona, dove arrivavano pellegrini da tutto il mondo: babele di lingue e volti dove regnava l’armonia. Negli incontri dell’alba e del tramonto il Maestro osservava i nuovi ospiti e leggeva le loro storie. A 47 anni era un uomo bellissimo: la barba scura, le mani leggere, la voce che penetrava i corpi seduti tutt’intorno. «Le radici della guerra sono in noi, nella rabbia che accumuliamo, nella follia quotidiana che prima o poi esploderanno. Abbiamo un passato distruttivo, con la stessa energia avremmo potuto creare il paradiso sulla terra. Abbiamo dato vita all’inferno, perché siamo in lotta con noi stessi e quando la tensione si fa insostenibile, lottiamo contro gli altri».

I suoi discorsi erano filosofici, scientifici, psicoanalitici, religiosi. La sua conoscenza dell’Occidente era straordinaria come quella dell’Oriente. Da Buddha a Cristo, da Eraclito a Marx, dal mistico indiano Tilopa a Jung, dallo Zen al Sufismo, dallo Yoga al Tantra, individuava nessi e punti deboli di ogni dottrina e ne estraeva il pensiero forte: «Adesso e d’ora in avanti, fai quello che ti pare, e sii consapevole. Sciolto e naturale. Non rinnegare nulla, sii te stesso». A Poona si liberavano impulsi distruttivi e energie nevrotiche per generare un’esplosione dentro sé stessi. «L’umanità si trova di fronte due possibilità: il suicidio collettivo o il più grande risveglio spirituale mai conosciuto».

Nell’ashram si udiva il brontolio del tuono di una rivoluzione disarmata che preoccupava chi reggeva le sorti del mondo. A Poona arrivarono osservatori dei governi impauriti dall’insegnamento che negava molte istituzioni: «La democrazia sarà possibile solo quando non vi saranno politici». Di lui si disse che avesse accumulato grandi ricchezze, che predicava l’amore libero: «L’amore è assai più di quello che chimica, biologia e ormoni possono spiegare. Ciò può spiegare il sesso, non certo l’amore».

Come Socrate era considerato corruttore delle coscienze giovanili, come i veri filosofi abbatteva un sistema di pensiero che aveva prodotto infelicità: la sua grandezza risiedeva nel non fornire soluzioni ma strumenti per realizzare sé stessi. «La risposta al tuo interrogativo è dentro di te».

Diventa ciò che sei. L’intimo incanto del risveglio. È l’invito a liberarci dai condizionamenti che imprigionano lo spirito; è la summa di un insegnamento che indica le modalità per diventare ciò che ancora non siamo, ma è già scritto in noi. Come? «Pochissime cose possono essere definite divine, la fiducia è una di queste; come l’amore, la beatitudine, la consapevolezza, la libertà».

Osho, che significa «dissolto nell’oceano» è morto trent’anni fa, «la sua goccia è scomparsa ed è nato l’oceano». Prima di andarsene ha lasciato questa epigrafe per il suo samadhi, l’unione col divino: «Osho. Mai nato, mai morto, ha solo visitato questo pianeta Terra dall’11 dicembre 1931 al 19 gennaio 1990».

Tratto da Il Corriere della Sera su segnalazione di Ferdinando Renzetti

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