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Esiste ancora un Dio nella post modernità?

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“La post modernità ha cacciato lo spirito, trincerata in un materialismo che lascia senza fiato. Il sistema mediatico internazionale ha dato ampio spazio a una monografia pubblicata dalla rivista Nature, organo semiufficiale dello scientismo più arrogante in confezione patinata, in cui la religione viene definita - scientificamente, ben s’intende – un semplice trucco del potere per controllare le società umane.

 Una vecchia, mediocre tesi riciclata con sussiego, in cui migliaia di anni di civiltà, pensiero, vita e convinzioni di milioni di uomini di ogni razza e condizione vengono fatti a pezzi da uno studio realizzato da un gruppo diretto dall’antropologo e docente Paul Savage.

Il succo dell’indagine è il seguente: il potere ha concepito un Dio che giudica e castiga – Dio moralizzatore, nella definizione di Savage - al fine di mantenere il controllo delle società complesse via via che si andavano formando.

L’abuso dei modelli matematici induce ad affermare (i nuovi scienziati non ipotizzano, affermano) che il Dio moralista e giudice non appare se non allorché una civiltà raggiunge il milione di abitanti. Perché non 800 mila o un milione e mezzo, e con quali certezze statistiche i chierici dell’antropologia culturale conoscono con tanta precisione l’evoluzione demografica delle oltre quattrocento diverse società appartenenti a trenta aree del pianeta che dicono di avere esaminato?

Siamo evidentemente ben oltre l’ateismo, che è una posizione culturale fondata su una visione della vita di ispirazione materialista. La postmodernità ha oltrepassato il problema.

Dio è cancellato dall’orizzonte, la religione espunta da ogni prospettiva, analizzata esclusivamente con le lenti deformanti dell’antropologia, rafforzata da incursioni nella psicologia e nella sociologia. L’idea di Dio diventa così una curiosa espressione del pensiero prelogico, per usare un’espressione di Lévy-Bruehl, da studiare con lo spirito di un Malinowski alle isole Trobriand, tutt’al più con il criterio delle invarianze nelle civiltà di Claude Lévi Strauss, nelle Strutture elementari della parentela, nel Pensiero Selvaggio e in Tristi tropici.

Il superbo uomo moderno, l’unico davvero sapiens, si china sulla barbarie del passato per analizzarla al microscopio con guanti antisettici, disinfettante a portata di mano e soprattutto, l’infinita presunzione di chi è convinto della propria superiorità.

La bestia sapiente osserva con degnazione l’infanzia dell’umanità e la descrive dall’alto di una scienza totale, definitiva, inconfutabile. Dio è fuori discussione, un’invenzione, forse una proiezione, come pensava Freud, di certo una pietosa illusione alimentata dalla paura e utilizzata da uno sorta di potere senza tempo, un Ur-potere, con il lessico di Umberto Eco.

Ogni metafisica è, per definizione, “oltre” ciò che può essere sperimentato e dimostrato, dunque se ne deve tacere: è la lezione del circolo di Vienna e di Wittgenstein. Tuttavia, ad applicare allo studio pubblicato da Nature le note categorie popperiane, è facile destituirlo di fondamento: non è confutabile, non perché vero, ma in quanto carente dei requisiti di scientificità.

Paul Savage muove dallo studio della dea egizia dell’armonia, della verità e della giustizia, Maat, figlia di Ra, il dio Sole, la cui piuma di struzzo determinava per ogni anima il diritto di entrare o meno nell’Al di là.

Secondo la tradizione egizia (Nature dice mitologia) alla morte ciascuno passava nella sala del Giudizio, dove veniva pesato il cuore su una bilancia al cui centro stava la piuma di struzzo di Maat. Se l’equilibrio della bilancia persisteva, la somma del bene e del male compiuto, l’anima riceveva il lasciapassare per il mondo di là.

Questa credenza, risalente a quasi cinquemila anni or sono, influenzava enormemente il comportamento degli Egizi, e da essa procedeva l’idea di armonia delle cose, l’ordine nel mondo e il castigo per chi lo avesse alterato. Maat, concludono i soloni della ricerca, fu la prima divinità moralistica, di servizio al potere, comparsa in epoca faraonica quattro secoli dopo la stabilizzazione del governo reale, coincidente con una società organizzata il cui potere si estendeva su una popolazione ragguardevole.

Uguale giudizio riguarda il dio sumerico del sole, Shamash, anch’egli giudice e interprete della giustizia, apparso, guarda caso, circa mezzo millennio dopo la nascita delle civiltà mesopotamiche.

Tutto spiegato, tutto chiaro: Dio e la religione non sono che espedienti di chi dirige le società per sottomettere la popolazione, con grande difficoltà se impiegano secoli per essere creduti.

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Queste le parole di Paul Savage: “E’ stato particolarmente sorprendente che questo fenomeno (Dio è un fenomeno… N.d.R.) sia sorto in forma consistente al raggiungimento del milione di persone. Prima realizzi grandi società, e dopo si sviluppano tali credenze. La nostra ricerca suggerisce che la religione abbia svolto un ruolo funzionale nel corso della storia, aiutando a stabilizzare le società e convincendo la gente a cooperare.

“C’è di più, giacché nelle comunità tribali di cacciatori e raccoglitori “tutti si conoscevano e tutti vigilavano sui vicini per assicurarsi che si stessero comportando bene. Le società più grandi sono anche più anonime, per cui non si sa a chi affidarsi”.

Per questo, suggerisce, è stato inventato Dio, una sorta di occhiuto poliziotto dell’anima in grado di indurre in interiore homine ciò che conviene al potere.

La sedicente scoperta scientifica degli antropologi guidati da Savage svelerebbe la relazione di causa effetto tra l’apparizione di società complesse e la rivelazione di divinità “moralistiche”. La figura di Dio, entità onnipotente e soprannaturale, “controllore delle condotte umane”, assicurano, è posteriore e non anteriore al consolidamento di comunità e istituzioni sviluppate.

Questo varrebbe per l’impero romano, i popoli vichinghi e le dinastie cinesi. La rivista commenta, in perfetto stile specista: “fintantoché gli umani non abbandonano la tribù e si costituiscono in mega-società con una popolazione di almeno un milione di abitanti, è impossibile trovare traccia di dèi moraleggianti e della furia divina contro le ingiustizie”.  In questo passaggio è evidente la spocchia di chi ha raggiunto verità definitive, magari rintracciando idee nei fondi di caffè, insieme con l’insopportabile riduzione zoologica dell’essere umano, rappresentata da quell’aggettivo sostantivato, “umani”, che ci pone alla pari degli animali.

Sbalordisce l’assoluta indifferenza non tanto per il contenuto veritativo della religioni, escluso a priori, ma per ogni esperienza metafisica, che pure è tanta parte della coscienza umana.

L’uomo, anzi l’umano, deve essere ridotto ad animale sapiente, da catalogare, studiare, analizzare esclusivamente in termini biologici, oppure con le categorie dell’antropologia culturale. La stessa etnologia diventa una branca evoluta dello studio dei comportamenti animali.

Viene il sospetto che una cultura tanto radicale quanto totalitaria per il divieto di ipotesi alternative, veda la religione non come falsa mitologia, ma come concorrente temibile nell’operazione di riconfigurazione dell’uomo intrapresa dalla scienza e dal pensiero moderno.

Nel caso specifico, è persino ironico che i ricercatori rivelino di essersi avvalsi, per condurre i loro studi, della base dati del progetto Seshat, un meccanismo di integrazione e accumulazione multiculturale il cui nome richiama la divinità egizia dalla testa di ibis, considerata la patrona della scrittura in quanto prima a introdurne l’uso nell’antico Egitto.

Attraverso le conoscenze intestate al dio Seshat, gli studiosi hanno ricostruito la storia di centinaia di civiltà sorte dall’era neolitica sino alla rivoluzione industriale, l’apice, par di capire, di un’evoluzione dell’uomo dall’infanzia del mito alla matura luce della scienza. Hanno investigato cinquantuno variabili, quali la dimensione delle maggiori città, la presenza di un codice giuridico formale, l’esistenza della proprietà privata (la lingua batte dove il dente duole), l’esistenza di un esercito. Risultato: tutto si risolve nell’imposizione soprannaturale della moralità come risultato dell’azione di una “forza” inventata che controlla e punisce dall’al di là i comportamenti egoistici.  La visione sottostante è la concezione della religione come moralità sociale volta a sconfiggere i comportamenti egoistici.

Non sarà che l’ipotesi iniziale conteneva già tesi e soluzione, e che l’irritante idea di un Dio giudice infastidisce la cornice liberale, libertina e libertaria delle società occidentali – vizi privati che diventano pubbliche virtù per meriti economici (Mandeville) -  oltretutto introducendo un principio finalistico nell’esistenza umana, in grado di distinguere il bene e il male, dunque di attingere l’esistenza di una legge naturale, concetti invisi al materialismo?
Non manca l’attacco diretto a grandi religioni come il cristianesimo e l’islam. Secondo i ricercatori, non consta l’esistenza di “deità” morali sino al consolidamento di società fondate sui principi cristiani e islamici.

Non si sa se ridere o piangere per la crassa ignoranza dimostrata, giacché la componente etica della predicazione di Gesù è immediata, come dimostrano il discorso della montagna, l’episodio delle tentazioni di Satana, la cacciata dai mercanti dal tempio.  Fu inoltre chiaro dal principio che il regno evocato da Gesù non appartiene a questo mondo, per cui occorre dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare.

Poiché la statistica, piegata alle tesi che si intendono dimostrare, è lo strumento cardine di ogni lavoro scientifico che si rispetti, la ricerca pubblicata da Nature non si risparmia nello sparare dati. Le comunità analizzate, informano i devoti di Seshat, mostrano un aumento medio della loro complessità sociale fino a cinque volte maggiore prima, e non dopo, l’arrivo di “questi dèi”. Peccato che la tradizione ebraica e quella indù dimostrino il contrario, e che nelle civiltà precolombiane maya e azteche fossero presenti divinità terrorizzanti e sanguinarie in cui era assente la componente etica e prescrittiva.

Particolarmente spericolata è un’altra convinzione dei risolutori dell’enigma religioso dopo millenni di oscurità: gli dèi “morali” appaiono secoli dopo la scrittura, addirittura con un ritardo di quattrocento anni. Non sarà che, banalmente, manca a questi devoti della statistica la materia prima, ovvero documenti scritti a comprova che Dio, religiosità e esseri umani intrattengono da sempre un rapporto profondo e, che il loro sguardo è troppo miope, autocentrato e arrogante per aprire il cuore non diciamo alla fede, ma almeno all’ipotesi metafisica?

Spaventa la facilità con cui vengono creduti e ritenuti depositari di verità. La loro è una visione lineare della vicenda umana, una narrazione che crede nelle frottole di un’ideologia, l’evoluzione, largamente battuta sul piano epistemologico. Ancora più indigna il silenzio delle religioni; preda di un modernismo attardato, sembrano avere accolto gli argomenti avversari, si nascondono in un generico umanitarismo dietro il quale Dio sfuma fino a diventare impronunciabile.

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Tentiamo allora di confutare alla buona, senza pretese culturali, chiusure confessionali o conclusioni definitive, le pompose sciocchezze di Nature e degli antropologi intenti a osservare Dio con lo sguardo del naturalista.

Le religioni nascono da un elemento inestirpabile della nostra psiche, la tensione verso l’oltre che chiamiamo trascendenza. Le spiegazioni ideologiche le assimilano all’ignoranza e al senso di impotenza dinanzi alla caducità della vita. L’errore consiste nel credere che ragione e scienza siano rimedi contro ignoranza e paura. Nonostante i passi avanti della conoscenza, persistono incertezze radicali e insuperabili. Nessuno sa perché siamo al mondo (gettati nel mondo, secondo Heidegger), se esista un fine e perché ci attende la morte.

Un epitaffio dell’epoca romana sintetizza tutte le domande di senso:” Non esistevo, sono esistito, ho smesso di esistere. Che importanza ha? “. In queste condizioni, come comportarci nel tempo della vita che ci è concesso (da chi)?

Questo sentimento tragico conduce immediatamente a immaginare “qualcosa”, una forza primigenia, un’energia, un motore dell’universo, comunque vogliamo chiamarlo, che sta più in alto di noi, oltre la nostra comprensione.

Dostoevskij scrisse che senza Dio tutto è possibile, ma è vero anche il contrario, poiché il male, il crimine e le ingiustizie sono elementi permanenti delle società umane.

Quel che intendeva il grande russo è che senza Dio, qualsiasi cosa faccia l’uomo ha lo stesso valore e non esiste un criterio sicuro per distinguere il male dalla bontà e dalla giustizia.

Questa incertezza radicale è iscritta nell’animo tanto quanto la sua soluzione, che rimanda a un potere più elevato, esterno, espresso in forma di mito o di religione. Tutti i miti hanno un fondo comune, placare l’angoscia dell’uomo con spiegazioni che non sono razionali, ma procedono da un sentimento profondo, la convinzione di un destino che eccede la vita, di fini comprensibili o almeno intuibili per il nostro transito nel mondo.

Per questo i miti richiedono forme di fede, e le ideologie utilizzano la ragione materiale per rifiutarli, anziché cercare di comprenderli. A loro volta, le ideologie scientiste e razionaliste ricorrono a loro miti particolari, che non spiegano ma si limitano a mostrare, esigono professioni di fede e inventano oggetti di culto, non di rado esigendo sacrifici umani.

La religione non è un’espediente del potere né una giustificazione per l’adozione di determinati principi di vita concreta. E’ un’esigenza talmente potente e costante da contenere una verità, quella che Amleto confidò a Orazio: ci sono più cose in cielo e in terra di quanta ne contenga tutta la tua filosofia.

Se così è, Dio resta un’ipotesi ben più plausibile del caso, dell’evoluzione e di ogni altra spiegazione escogitata dalla ragione umana. Personalmente, ci attrae l’idea di Blaise Pascal, matematico e scienziato: Dio è una scommessa su cui vale la pena fondare la vita.

Inoltre, fa riflettere la traiettoria esistenziale di intelligenze eccezionali come i fisici quantistici. Partiti da ragionamenti astratti e anti intuitivi, hanno scoperto alcune incredibili leggi dell’universo. Quasi tutti hanno concluso la vita convinti che tutto si tenga a questo mondo, e dietro, o attorno, vi sia l’opera di un’intelligenza totale, una forza misteriosa e immensa. Nel corso dei millenni non abbiamo trovato, per questa energia infinita, un nome più appropriato di Dio.

Ce ne faremo una ragione se non piace a qualche antropologo a fattura scopritore della pietra filosofale. Sorridiamo della rivelazione di narcisisti arroganti. Grazie a Dio”.

Roberto Pecchioli 

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Epilogo di una generazione edonista



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Il tremore e l’esempio

1
Nella giovinezza, adagiati sui diritti che il percorso ci offriva non avremmo accettato la critica che ci diceva d’essere in errore, d’essere i fautori di un futuro mortificato.
Non lo avremmo accettato; senza se e senza ma. Ciò che vedevamo per noi era nel nostro diritto prendercelo. Gli altri, quelli che sarebbero venuti dopo, non c’erano e il futuro era semplicemente un affare nostro.

Ora che i tempi ci permettono sguardi prima accecati dalla vanità, ci crucciamo di fare qualcosa di utile e riparativo per chi verrà poi.

E lo facciamo con esuberanza intellettuale, elevando noi stessi a senatori della saggezza.

Ma guardare avanti ora, dà la sensazione che non serva. Che il tempo sia passato mentre carriera e svaghi, ideologie e interessi privati sfilavano la vita come sabbia tra le dita.
I nuovi giovani trovano il mondo che noi gli abbiamo lasciato e lo credono il solo possibile. Come accadeva a noi.

Nessuno di loro è disponibile a rinunciare a quanto vede alla sua portata.
Si affacciano al mondo dalla finestra delle loro brevi vite.
Avvertono il potere che l’infanzia non gli permetteva.
Iniziano ad interpretare e a credere e a credere di aver capito.
Sono in un flusso che travolge loro e ciò che incontrano.
Banalmente sono costretti a rispettare le spinte della loro biografia.
Non lo sospettano ma sono repliche da sempre sulla scena del mondo.
Parlano di novità. Ci mettono convinzione e determinazione.
Dentro il ciclo dell’avanguardia avanzano impudichi di ciò che poi si pentiranno.
Si risolleveranno però dal senso di colpa con un così va il mondo qualunque.

2
Questo è quanto la generazione in scadenza ha di fronte, o alle spalle se si preferisce.
Il confronto è ad armi impari: il dialogo non ha terreno per divenire essere.
Nonostante l’età – di una vita intera evidentemente trascorsa dentro la sterilità dei dogmi – ci si cilicia di accanimento intellettuale.
Ci si appella alla ragione, che non sa evitare di richiamarsi al buon senso, impiegato come fosse un napalm d’intelligenza capace di azzerare le difficoltà di comunicazione.
Ma è semplicemente incapace di riconoscere come stanno le cose: l’esperienza non è trasmissibile.
Le nostre buone parole non saranno che ulteriori interruzioni generazionali, qualunque esse siano perché il medium è il vecchio e i giovani lo sentono.

Nessuna ragione è mai bastata a raggiungere le profondità delle emozioni. Una schiuma dalla dinamica incontrollabile, dal centro soggettivo, che riempie i vasi fino all’ultimo capillare dei nuovi esploratori.

Non resta che la coercizione e poi la compressione, quindi lo scontro e se possibile la soppressione.

Ognuno di noi pieno di sé non è in grado di ricreare la filologia delle ragioni dell’altro. Dovremmo essere pieni di femminino, allora sì la relazione sussisterebbe, lo scontro si ridurrebbe.
Continueremo a dileggiarle e criminalizzarle quelle ragioni diverse.
Continueremo a ergerci a giudici di un mondo intero nonostante il nostro scranno galleggi su una corteccia tra le acque bianche dell’illusione.

Azioni sobrie a nostro parere. Necessarie per alleviare il vuoto che ci separa dai nostri figli.
Un abisso che abbiamo riempito di idee che avevamo credute rispettabili. Ma ora è chiaro, erano solo fatui fuochi di una vanità che, travestita di buone ragioni, sempre ci aveva guidato senza farsi sentire e riconoscere. Un mantello autoreferenziale di valori ne aveva sempre assorbito i rumori e gli umori.

3
Non resta che riconoscere che il mondo che chiamiamo realtà è solo una specie di punto di attenzione permanente.
Non resta che riconoscere che la continuità reiterata delle nostre convinzioni perpetua i sentimenti con i quali a nostra insaputa costruiamo la storia, qualunque essa sia.
Piccola, personale, grande, mondiale, universale.
Abbiamo fatto di noi stessi una cosmogonia.
Con noi stessi selezioniamo il mondo utile ai nostri destini e non ce siamo accorti, l’abbiamo chiamato scienza.

Non resta che l’umiltà prima di morire dopo una vita spesa a cavallo dell’arroganza di quattro idee qualunque scambiate per autorevoli.
Non resta che vedere quanto nel nostro piccolo ambito potevamo pure avere ragionevoli argomenti e, ora, paragonarlo a ciò che non avevamo ancora visto. Che non credevamo esistesse. Che non avevamo pensato.
Non c’è che da scappare dalla vergogna d’essersi creduti chissà che. O anche solo qualcosa, con qualche diritto, con qualche dovere di dire la nostra, soprattutto se avessimo potuto farle seguire strascichi di dati e referenze titolate.

Uomini, la cui missione è stata tradita da loro stessi: invece di andare oltre le infinite forme e trovare i pochi arcani hanno preferito moltiplicarle a propria immagine e somiglianza. E giù titoli e riconoscimenti accademici o che dir si voglia. Giù inchini a profusione e premi al migliore. Strati di autorereferenza scambiati per vita vera. Soldatini inquadrati sotto la propria bandiera. Radunati in piccoli e grandi eserciti a cui immolare la propria libertà dal conosciuto. Ma alla fine solo grotteschi e immondi soldatini di Enrico Baj.
Altroché la mela di Eva.

Ma lo spirito necessario per dubitare del sistema?
Nulla di fatto. Comprato.
Era preferibile allungare le braccia verso il camion dei benefit. Pannocchie distribuite in un immenso campo profughi dalle tende insonorizzate e con la theatre tv.

4
Ora nell’ora della morte si sente la paura.
Paura di una presenza che non avevamo avuto il tempo di ammettere o di considerare.
Paura che mai avremmo se avessimo speso una vita in armonia con la natura, se avessimo saputo rifiutare le lodi e i binari della laurea.

Quel passaggio verso la morte avverrebbe grandiosamente. Come grandiosi sarebbero stati i parti verso la vita.
Nessuna meschinità ci farebbe tremare fino nelle ossa.
Avverrebbe così che i nostri giovani avrebbero l’esempio che non hanno avuto.
Che avrebbero il necessario per sapere che significa amare e armonia, e quanto povero sia credere che capire abbia maggior senso.

Lorenzo Merlo - xex@victoryproject.net

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