Genitori della perfezione. L’idea della perfezione, allusione all’equilibrio, si può riconoscere in tutte le cosmogonie.
È anche vero che Platone, Aristotele, Socratici e presocratici avevano dedicato il loro tempo al tema della perfezione. Ma, insieme alla questione dell’ordine, fu da parte loro trattata in termini prettamente filosofici e ontologici, vuoti di strumentalizzazione diretta verso alcuna ideologia. La loro indagine non ebbe ricadute politico-sociali paragonabili a quanto poi avvenne con l’illuminismo e il cristianesimo.
Fatti salvi questi i profondi legami filosofici relativi al binomio uomo-perfezione, per noi comuni moderni e postmoderni, può valere che, l’idea della perfezione derivi dall’Illuminismo, dalla sua capacità d’aver colto che il dominio della ragione avrebbe risolto molti dei problemi che avevano assillato la storia fino a quel momento. Un ordine si affacciava all’orizzonte. E sarebbe stata luce.
Ma, se l’epoca dei lumi ha generato il talento della ragione, il seme della paternità dell’idea di perfezione è da far risalire ad una precedente idea dell’ordine compiuto, quella cristiana. È quindi nella triade della compiutezza divina il gene di quella razionalista.
Se l’evocazione cristiano-metafisica concede a se stessa di sussistere, quella fisica, fatta di storia, esclusiva dell’intento illuminista, ha in sé il fallimentare virus dell’improprietà: cosa di più inadeguato all’uomo della perfezione? Come ridurre l’infinito umano entro lo stretto campo del razionalismo?
Lo sciamare da corpo a corpo di identici sentimenti ci rende individui-burattini. Appesi ai loro fili scambiati per realtà, il tirare e rilasciare non è mai del tutto nostro, almeno fino all’emancipazione nei confronti della loro tirannide.
Il movimento è invece relativo a come viviamo le relazioni. In queste, frugano le emozioni, incontrollabili detonatori o estintori di azioni, scelte, comportamenti, sentimenti. Veri e propri interruttori che aprono o interrompono il flusso di energia vitale.
Come detto, è un evento che accade indipendentemente dalla nostra volontà finché la serie di consapevolezze opportune non permetta l’osservazione del meccanismo del dominio e della dipendenza da emozioni e sentimenti e conduca alla liberazione.
Anche se abbiamo a che fare con due perfezioni, una della ragione, l’altra divina, una storica e una universale, il loro orizzonte immaginativo è il medesimo: per entrambe sussiste una possibilità evolutiva.
Luogo comune
La ribadita (come salvifica per chi la pronuncia) voce del Sommo: Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza, è una formula che vale per ambo gli ideali di uomo perfetto.
Germina da un humus cristiano; nasce nel momento di un cambio di passo epocale (apertura al volgo); si afferma come comandamento morale e intellettuale. Autoreferenzia il portatore.
Contiene l’intero arco spettrale per riconoscere come la suggestione evolutiva possa farci indurre a credere di poterci separare o elevare dalla storia, dal suo fango, dal suo sangue.
Virtù come definitivamente acquisibili e conoscenza come se il sapere intellettuale, coincidesse con il bene, con il giusto e con il dovere santo. Non solo, come se esso fosse disponibile e acquisibile da chiunque.
Senza contare infine che la perfezione razionalista non ha più un’opzione aperta all’equilibrio. Nella sua tronfia corsa, perde per strada l’uomo. Essa si esaurisce infatti nel
superamento tecnologico permanente e nell’accumulo ad infinitum.
Astrazioni dal conosciuto
Sebbene non secondo la via della ratione e dei saperi cognitivi, nella storia delle culture del mondo, ci avevano provato anche altri – e ci erano pure riusciti – ad affermare uno stato umano perfetto in quanto in equilibrio e nel benessere, definitivamente alieno alle forme caduche della mondanità, libero dai dogmi delle ideologie e dai tanto facili, quanto inutili moralismi, stregua di fuorvianti superstizioni.
Erano, sono stati i tentativi tradizionali uniti dal comune svincolamento dall’incantesimo dell’io, quale autentico sarcofago che ci segreta a noi stessi.
Si può infatti vivere nutrendosi di prana; si può liberarsi dal conosciuto e rientrare nell’Uno; si può denudarsi di se stessi fino a recuperare la condizione energetica della materia e muoversi con i suoi flussi; si può perdonare e accettare e recuperare la felicità, vivere nella gratitudine.
Tutto si può una volta svincolati dalla rete a strascico dell’illusione scambiata per realtà.
Entro questa dimensione starebbe anche il cattolicesimo, purché nella sua lettura esoterica. Quella della vulgata è solo uno strumento politico-economico che nulla ha a che vedere con l’evoluzione personale che porta anche a camminare sulle acque.
Così in alto come in basso
Nonostante la lezione alchemica sia disponibile a tutti, nonostante essa abbia avuto sostenitori non certo considerati occultisti e quindi ciarlatani, essa pare scivolare anche sopra il più ruvido campo razionalista.
“Solve et coagula” – “Per orientarti nell’infinito, distinguer devi e poscia unire”. Goethe
Ma, tra la perfezione Razionalista e quella delle Tradizioni, sussiste una differenza fondamentale. La si può rappresentare graficamente adottando il piano cartesiano.
Per quella razionalista, troviamo disegnato un segmento diagonale che si allunga all’infinito. La luce è sempre accesa.
Per l’altra, un ingarbuglio di sali-scendi-avanti-indietro.
Una non ammette ricadute, la sua crescita è per sua natura permanente; l’altra sa che proprio nelle indefesse ricadute, trova il necessario al suo scopo. Nel buio la sua luce.
Avere
La prima via alla perfezione, quella razionalista, ha un carattere meccanico. La seconda, euristico e serendipidico.
Una esaurisce se stessa nel sapere cognitivo, l’altra è in grado produrre conoscenza attraverso molteplici doti genericamente estetiche.
Una, per essere, separa. L’altra vede l’insieme.
Una si libra nel futuro superando ogni ostacolo, dopo aver creduto di cacciare via gli umori umani come scorie svuotate di sostanza dall’intelligenza superiore che afferma. E anche, accompagnata e sostenuta dalla certezza che le acquisizioni intellettuali sono necessarie allo scafandro iperboreo, a sua volta indispensabile per sentirsi definitivamente superiori a coloro che non adottano il medesimo protocollo di perfezione.
La loro inconsapevole bandiera tecnologica, in cui si nasconde un ché di feticistico, è autosuggellata più che mai dalle potenzialità digitali. È vero, mostruose rispetto a quelle analogiche, ma anche mostruosamente superficiali sempre rispetto a quelle estetiche.
Sembra sventoli un preciso motto: oltre all’ego non c’è verità.
Ma c’è una controindicazione.
«Una delle conseguenze dell'era tecnologica è l'incidenza diretta che questa ha avuto sulla sfera del sentimento, colpendo anzitutto la percezione che l'uomo ha di se stesso. Questo perché, per la prima volta nella storia, nasce un nuovo tipo di vergogna: non più quella tra uomo e uomo ma quella tra uomo e macchina, tra l'uomo ed il suo prodotto, verso il quale viene avvertito un senso d'inferiorità. Il problema fondamentale dell'inadeguatezza dell'uomo, nell'incapacità di tenere il passo con il mondo dei suoi stessi prodotti, viene utilizzato da Anders per introdurre la vergogna prometeica. All'interno di un mondo altamente tecnologizzato l'uomo è chiamato al confronto con un'infinità di prodotti perfetti, una fabbricazione calcolata nei minimi dettagli che va a contrastare con il «processo cieco e non calcolato e antiquatissimo della procreazione e della nascita»1.2
Essere
L’altra modalità di perfezione umana, cristiana non caccia via nulla, semmai utilizza tutte le pochezze umane quali strumenti per accedere ai luoghi oscuri di noi stessi; per specchiarsi e riconoscersi nel prossimo, in particolare quello prima denigrato. Sa che le sue acquisizioni non sono definitive, non sono sue, non separano. Sa che possono essere perdute, sache il precipizio nella follia dell’identificazione con l’io è sempre a un passo. Una qualunque orgogliosa distrazione può farci precipitare negli abissi delle supreme superstizioni della scienza e dei suoi ideologici derivati.
Non ritiene che studiando e conoscendo cognitivamente si possano compiere passi avanti, semmai è consapevole che ogni dato di quel genere, se aggiunto come verità, rischia di appesantire, di opacizzare, se non annientare la nostra creatività o libertà di essere noi stessi.
«[…] perché devo infatti affermare che la verità è solo quello ciò che io posso affermare come vero? Chi ci dice che la verità non ci sorpassa o che la nostra mente (mens) è la misura di ogni cosa invece che lo specchio (la riflessione) della “misurabililità” dell’essere? E perché, poi, dovrei accettare solo ciò che mi si presenta in modo chiaro e distinto? Forse che la mia mente è sensibile solo all’evidenza razionale? Io devo– naturalmente – accettare come chiaro e distinto ciò che io vedo come chiaramente e distintamente; né d’altronde sono tenuto ad accettare come evidente ciò che non mi appare come tale; ma perché dopo tutto dovrei rifiutare ciò che ascolto, o ciò che vedo con minore evidenza? Non lo accetterò come “chiaro”, ma potrò sempre accettarlo nel modo in cui mi viene offerto. E non può darsi il caso che precisamente le cose “supreme” e le più importanti siano aldilà del campo visivo proprio al mio occhio nudo e limitato? Se io identifico la verità con ciò che vedo chiaramente come vero, io escludo con questo atto tutto quanto sta al di sopra o al di sotto o al di là di un elemento particolarissimo della mia facoltà conoscitiva, della mia ragione».3
Entrambe le prospettive, quella razionalista e quella cristiana, sono promesse di evoluzione.
Una con passaggi di accumulo di dati come gradini progressivi a garanzia. Misurabile.
L’altra con dolore, dedizione permanente e nessun titolo sancitorio di alcunché.
Una esogena, l’altra endogena; vanitosa e virtuosa; ufficiale e ufficiosa; riconosciuta, segreta; diretta e circolare; curricolare, senza valore per il Pil.
«Un momento irripetibile, uno sguardo, un sorriso, un’intuizione un sospetto, hanno un valore che non si lascia imprigionare dalla ripetibilità. Vale a dire che se riduciamo la conoscenza a ciò che può essere ripetuto, a ciò che può essere formulato con leggi, impoveriamo la conoscenza».4
Storia
Entro l’ambito di questi argomenti non si può omettere una terza concezione del mondo. È quella dell’Islam sunnita, il più diffuso.
In essa non v’è che la storia. Alcuna evoluzione umana è concepita. I sufi, prevalentemente sciiti, sono tollerati in quanto sorta di altra fede. Nel mondo sunnita hanno vita assai più dura. È la loro interpretazione spirituale del Corano a renderli negletti dai loro stessi fratelli musulmani.
Nell’Islam esiste dunque solo la storia. L’aldilà, la janna, di pascoli rigogliosi, freschi boschi di montagna, ruscelli effervescenti e 42 huri, vergini cadauno – purché non divorziati –, sono una promessa strumentale alla politica. Ma forse più rispettabile rispetto a quella cristiana in quanto si riferisce, nuovamente alla sola ma assoluta dimensione storica.
(Per le donne è promesso il ritorno all’età della giovinezza inteso come condizione di sposa, che implica anche la soddisfazione sessuale. Gli omosessuali non hanno accesso al Giardino del Paradiso).
L’umma, il popolo dei musulmani, rammenta che se il rapporto con Dio è individuale, non c’è alcuna distinzione tra i fedeli, qualunque sia la loro condizione individuale nella società. Non c’è neppure alcuna forma di clero. Il rapporto col Supremo non è mediato, né mediabile. L’imam, guida, conduce la preghiera a mo’ di funzionario competente, non è tramite di niente.
Anarchia compiuta
Ogni uomo, indipendentemente dalla sua estrazione sociale, è tenuto a comportarsi secondo la shaaria, la legge divina che regolamenta ogni aspetto sociale. Il massimo possibile è semplicemente essere un buon musulmano, cioè assoggettarsi ai cinque precetti dell’Islam: la testimonianza di fede, Shahaada (Ašhadu an lā ilāha illā Allāh - wa ašhadu anna Muḥammadan Rasūl Allāh, Non vi è altro Dio che Allah e Maometto è il suo profeta), la preghiera, Salaat (cinque volte al giorno), l’aiuto ai bisognosi, Zakat (dare ai poveri per permettersi di godere quanto guadagnato), il digiuno, Ramadan (per gli adulti, un mese all’anno, cibo e bevande sono al bando durante le ore di luce solare), il pellegrinaggio a La Mecca, Haji (almeno una volta nella vita, corredato ad altri rituali).
Fatto questo null’altro è chiesto al musulmano per entrare nel regno dei cieli. La sua condizione non prevede alcuna evoluzione verso una condizione ultrastorica. Il perdono cristiano, e non solo, è sostituito con la legge del taglione, a sua volta di copyright non islamico. Ed è forse in questo punto – simbolicamente inteso – che si apre il bivio in cui le strade della cristianità e dell’Islam si separano da quella magistrale tracciata dall’Ebraismo. Sufficiente a sostenere le due visioni o le due psicologie. Quella cristiana orientata al cielo, quella islamica orientata alla terra.
Forze telluriche
Per l’islam, la storia si ripeterà in eterno perché gli uomini saranno sempre identici a se stessi. Così come hanno fatto in passato, faranno in futuro. Il loro dovere è dunque uno soltanto, non è scisso tra religioso e laico. La loro società è integrale, non a caso nelle moschee non si va soltanto a pregare, sono edifici sociali.
L’islam ha un centro esclusivamente terreno, in esso c’è il nucleo della sua forza. Un centro che altrove si è disciolto tra gli umori liquidi e arroganti del narciso individualismo dell’ultimo uomo nietzscheano.
Nessuna escatologia metafisica lo può far dubitare di se stesso o anche solo criticare. Nessun razionalismo o logica aristotelica, né bieco positivismo può nuocere l’ontologia dell’islam.
Anche in una loro espressione si trova la presenza dell’esigenza di perfezione. Così come la rappresentazione umana a mezzo di pitture, sculture, eccetera corrisponde ad un oltraggio nei confronti di Allah, la ricerca architettonica, artigianale e decorativa – nota nel mondo per la sua particolare estetica e precisione formale – rappresenta tanto la totalizzante devozione a Dio, quanto la massima tenzone che gli uomini possono compiere per innalzarsi al medesimo.
Tre perfezioni
Le tre perfezioni, quella razionalista, quella delle tradizioni e quella storicistica dell’islam hanno in sé tre diversi epiloghi o destini per l’uomo.
I
Per la prima, quella della positivistica tirannia della ragione, si può prevedere il crollo, l’implosione. Come infatti tifare – consapevoli della finitezza della storia – ad una crescita infinita se non ipotizzanto una permanente obsolescenza di ciò di cui si dispone? Come non valorizzare il crescente impoverimento umano generato dalla sottrazione di uno scopo esistenziale, sostituito da merci e da valori ad esse soggetti? Come non tenere in considerazione il crescente numero di disturbi psicologici, di incapacità di gestire se stessi.
Ma anche, come considerare accettabile la sua riduzione dell’uomo a cosa o carne da mercato? È proprio del liberismo ridurre la realtà – politica inclusa – al solo paradigma del mercato, celebrare l’individuo e disgrerare le comunità.
Esso è consapevole che l’infinito presente in noi non è comprimibile, che eccedere nella pressione ha forti controindicazioni. Provvede al problema con la soporiferizzazione attraverso la comunicazione, ormai anche elaborata attraverso il furto dei dati che le servono per soddisfarci.
La realtà dello spettacolo non è più un monito situazionista, non c’è più bisogno di scomodare Orwell, The Truman Show, Quarto Potere, Matrix, Huxley, Nietzsche, basta affacciarsi alla finestra.
Viviamo addormentati dentro la logica della Torre di Babele. Scambiamo il sogno per realtà ultima nei confronti della quale l’Intelligencija che si crede tale, i titolati, gli specialisti, i curriculati, non sanno fare altro che assecondare il sogno.
La perfezione razionalista, supportata dalla fisica meccanica classica ritiene di produrre conoscenza seguitando a scomporre l’unità. Forse la fisica quantistica, apparentemente la salverà, di fatto la ridimensionerà, obbligandola ad abdicare al trono supremo sul quale ha per qualche secolo dominato le menti. Finalmente potrà occuparsi di amministrazione delle quantità e lasciare che delle qualità e dell’invisibile si occupi chi è in grado di interpretare il mondo nelle relazione, in modo volumetrico, scorgendo cioè il flusso energetico degli intenti particolari e generali che vi fanno campo.
Un compito che la fisica quantica è in grado svolgere sebbene non supportata da nessun grande network del mondo affinché la nuova concezione della realtà si diffonda.
Il suo potere è inoltre sincretico. Tende a riconoscere – se già non si possa dire l’abbia già fatto – l’attendibilità della ricerca espressa dalle tradizioni storiche. Ecco dunque, la sola sopravvivenza del vecchio reame razionalista rimarrà soltanto nel settore amministrativo della realtà.
II
La seconda, quella della ricerca evolutiva, comunemente intesa come spirituale, è in realtà una via in cui si arriva ad avere a che fare con se stessi. Si arriva cioè a prendere coscienza che fino a prima si aveva a che fare con l’idea di se stessi, con l’io.
Sebbene anch’essa, come il cristianesimo, la scienza e ogni profondità umana, sia soggetta ad una dimensione degradata a vulgata, definita da luoghi comuni che nulla hanno a che spartire con la nuce dei principi originari – solo poi esoterici –, in essa si può cogliere la disponibilità di un equilibrio possibile, per quanto da non considerare definitivo.
Il connotato essenziale della vulgata è circoscrivibile a un’impropria interpretazione dei concetti in questione. Improprietà che deriva dall’inconsapevole impiego di strumenti logico-positivisti applicati a formule che si rivelano nella loro natura soltanto se ricreate attraverso l’ascolto e ad una sorta di nolontà, una libertà dal conosciuto e quindi dalle pretese dell’io.
Ma c’è un secondo livello di degrado che è opportuno riconoscere: la comprensione intellettuale, l’acquisizione concettuale scambiata per l’ultimo gradino da superare per accedere ai segreti. Un equivoco assai sconveniente per il ricercatore e di non facile isolamento. Tuttavia, quando subentra una presa di coscienza opportuna, compare la cima dell’incarnazione. A quel punto, l’anticima della comprensione cognitiva dimostra la sua distanza dalla vetta. Dunque non si tratta di riconoscere la vetta ma di esserla. Cessare di riflettere luce e divenirla.
Resta vero che si tratta di una evoluzione che sebbene sulla carta possa interessare tutti, di fatto l’attuale realtà dello spettacolo certo non invita ad avviare attenzioni in profondità, così come l’individualismo edonistico non favorisce la dedizione permanente necessaria a questo percorso. Rimane perciò una ricerca ristretta a coloro che, avendone l’esigenza, come l’acqua che trova il passaggio più carsico, in autonomia trovano come perseguirla.
Il destino della ricerca di sé implica la tendenza alla forza e alla stabilità dell’essere umano. Al momento appare ancora utopica per la maggioranza, ma molti segni dispersi negli oceani delle forme, fanno sospettare che l’accelerazione possa stringere i tempi. L’eventuale o la prevista implosione del paradigma egoico, potrebbe essere un elemento scatenante la cultura della natura, o psicologea come ho sentito dire.
III
La terza, o islamica, ha il forte argomento che tende ad essere soddisfacente per tutti i generi e le categorie d’uomo, fatto salvo le nature più sottili; tende a tenere uniti ciò che altre forze della vita hanno separato. Se il dramma esistenziale è sintomatico di un corpo che si concepisce come una macchina, nell’islam, il rischio di psicopatologia tende a non sussistere.
L’uomo è quello che è, indipendentemente dalla condizione sociale che riveste. Se il suo compito è rispettare la parola di Allah, come sospettare possa disperdere la sua intelligenza tra i rigagnoli di una realtà mercificata e opulente?
È anche in questo punto che l’invasività della cultura occidentale ha premuto eccessivamente fino a provocare il risentimento nei confronti dei musulmani – secondo gli islamisti – permissivi, degli sciiti e dei cristiani.
Diventa allora facile, intendere strumentale a certo pensiero uniformato, riconoscere il carattere fondante della jihad, la guerra al kafir, all’infedele in quanto corruttore di una stabilità e di una forza dell’uomo che appare doverosamente invidiabile dai molli castelli del nostro assistenzialismo, dai nostri corridoi di ospedali, di scuole, di parlamenti.
Purché non si creda che gli strumenti razioni si possano aprire gli scrigni di queste verità, diventa facile comprendere l’intento della shariaa, la sua offerta di serenità. La grande diffusione della Poesia che si dispiega nel mondo musulmano forse ne è una conseguenza.
«L’islam nasce in posizione di protesta contro un ordine sociale religioso, quello tribale pagano che lo precedeva in Arabia nel secolo VII, ma non in posizione di critica o di negazione del mondo terreno in quanto tale.
Fin dall' inizio l’islam si presenta come un movimento che intende rivendicare a sé l’intero ciclo dell’esperienza, del sapere, della volontà, della vita umana individuale e sociale, per portare a compimento nel mondo i disegni di Allah. Dunque niente posizione ambigua rispetto alle realtà mondane: non c’è bisogno di far capriole metafisiche per accettare insieme i ricchi e certe parabole sulla cruna degli aghi, la guerra e l’amore universale, lo stato e la chiesa, la carne e lo spirito, per superare tutti quegli innumerevoli dualismi che minano l’endocosmo cristiano e la civiltà occidentale»5.
«[…] la parola religione - se intesa in senso cristiano - è intraducibile in termini dell’islam ortodosso sunnita. Siamo di fronte a due endocosmi strutturalmente diversi»6.
«Il termine stesso di islam (abbandono alla volontà divina) non esprime tanto, come si suol credere, l’accettazione passiva del fato, quanto la coscienza della signoria totale ad Allah»7.
«[…] una fede che investe tutta la vita attuale, reale, immediata, terrena, soda, succosa, integrale, con la sua politica e le sue guerre, i suoi affari ed i suoi amori, senza innalzare divisioni tra sacro e profano, tra chiesa e stato, tra sacerdozio e laicato. Questo, non v’è dubbio, è un formidabile elemento di forza, è la famosa «democrazia musulmana», che spiega in qualche modo la costante vitalità dell’islam e il suo fascino per tanti popoli lungo i secoli».
È anche vero che Platone, Aristotele, Socratici e presocratici avevano dedicato il loro tempo al tema della perfezione. Ma, insieme alla questione dell’ordine, fu da parte loro trattata in termini prettamente filosofici e ontologici, vuoti di strumentalizzazione diretta verso alcuna ideologia. La loro indagine non ebbe ricadute politico-sociali paragonabili a quanto poi avvenne con l’illuminismo e il cristianesimo.
Fatti salvi questi i profondi legami filosofici relativi al binomio uomo-perfezione, per noi comuni moderni e postmoderni, può valere che, l’idea della perfezione derivi dall’Illuminismo, dalla sua capacità d’aver colto che il dominio della ragione avrebbe risolto molti dei problemi che avevano assillato la storia fino a quel momento. Un ordine si affacciava all’orizzonte. E sarebbe stata luce.
Ma, se l’epoca dei lumi ha generato il talento della ragione, il seme della paternità dell’idea di perfezione è da far risalire ad una precedente idea dell’ordine compiuto, quella cristiana. È quindi nella triade della compiutezza divina il gene di quella razionalista.
Se l’evocazione cristiano-metafisica concede a se stessa di sussistere, quella fisica, fatta di storia, esclusiva dell’intento illuminista, ha in sé il fallimentare virus dell’improprietà: cosa di più inadeguato all’uomo della perfezione? Come ridurre l’infinito umano entro lo stretto campo del razionalismo?
Lo sciamare da corpo a corpo di identici sentimenti ci rende individui-burattini. Appesi ai loro fili scambiati per realtà, il tirare e rilasciare non è mai del tutto nostro, almeno fino all’emancipazione nei confronti della loro tirannide.
Il movimento è invece relativo a come viviamo le relazioni. In queste, frugano le emozioni, incontrollabili detonatori o estintori di azioni, scelte, comportamenti, sentimenti. Veri e propri interruttori che aprono o interrompono il flusso di energia vitale.
Come detto, è un evento che accade indipendentemente dalla nostra volontà finché la serie di consapevolezze opportune non permetta l’osservazione del meccanismo del dominio e della dipendenza da emozioni e sentimenti e conduca alla liberazione.
Anche se abbiamo a che fare con due perfezioni, una della ragione, l’altra divina, una storica e una universale, il loro orizzonte immaginativo è il medesimo: per entrambe sussiste una possibilità evolutiva.
Luogo comune
La ribadita (come salvifica per chi la pronuncia) voce del Sommo: Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza, è una formula che vale per ambo gli ideali di uomo perfetto.
Germina da un humus cristiano; nasce nel momento di un cambio di passo epocale (apertura al volgo); si afferma come comandamento morale e intellettuale. Autoreferenzia il portatore.
Contiene l’intero arco spettrale per riconoscere come la suggestione evolutiva possa farci indurre a credere di poterci separare o elevare dalla storia, dal suo fango, dal suo sangue.
Virtù come definitivamente acquisibili e conoscenza come se il sapere intellettuale, coincidesse con il bene, con il giusto e con il dovere santo. Non solo, come se esso fosse disponibile e acquisibile da chiunque.
Senza contare infine che la perfezione razionalista non ha più un’opzione aperta all’equilibrio. Nella sua tronfia corsa, perde per strada l’uomo. Essa si esaurisce infatti nel
superamento tecnologico permanente e nell’accumulo ad infinitum.
Astrazioni dal conosciuto
Sebbene non secondo la via della ratione e dei saperi cognitivi, nella storia delle culture del mondo, ci avevano provato anche altri – e ci erano pure riusciti – ad affermare uno stato umano perfetto in quanto in equilibrio e nel benessere, definitivamente alieno alle forme caduche della mondanità, libero dai dogmi delle ideologie e dai tanto facili, quanto inutili moralismi, stregua di fuorvianti superstizioni.
Erano, sono stati i tentativi tradizionali uniti dal comune svincolamento dall’incantesimo dell’io, quale autentico sarcofago che ci segreta a noi stessi.
Si può infatti vivere nutrendosi di prana; si può liberarsi dal conosciuto e rientrare nell’Uno; si può denudarsi di se stessi fino a recuperare la condizione energetica della materia e muoversi con i suoi flussi; si può perdonare e accettare e recuperare la felicità, vivere nella gratitudine.
Tutto si può una volta svincolati dalla rete a strascico dell’illusione scambiata per realtà.
Entro questa dimensione starebbe anche il cattolicesimo, purché nella sua lettura esoterica. Quella della vulgata è solo uno strumento politico-economico che nulla ha a che vedere con l’evoluzione personale che porta anche a camminare sulle acque.
Così in alto come in basso
Nonostante la lezione alchemica sia disponibile a tutti, nonostante essa abbia avuto sostenitori non certo considerati occultisti e quindi ciarlatani, essa pare scivolare anche sopra il più ruvido campo razionalista.
“Solve et coagula” – “Per orientarti nell’infinito, distinguer devi e poscia unire”. Goethe
Ma, tra la perfezione Razionalista e quella delle Tradizioni, sussiste una differenza fondamentale. La si può rappresentare graficamente adottando il piano cartesiano.
Per quella razionalista, troviamo disegnato un segmento diagonale che si allunga all’infinito. La luce è sempre accesa.
Per l’altra, un ingarbuglio di sali-scendi-avanti-indietro.
Una non ammette ricadute, la sua crescita è per sua natura permanente; l’altra sa che proprio nelle indefesse ricadute, trova il necessario al suo scopo. Nel buio la sua luce.
Avere
La prima via alla perfezione, quella razionalista, ha un carattere meccanico. La seconda, euristico e serendipidico.
Una esaurisce se stessa nel sapere cognitivo, l’altra è in grado produrre conoscenza attraverso molteplici doti genericamente estetiche.
Una, per essere, separa. L’altra vede l’insieme.
Una si libra nel futuro superando ogni ostacolo, dopo aver creduto di cacciare via gli umori umani come scorie svuotate di sostanza dall’intelligenza superiore che afferma. E anche, accompagnata e sostenuta dalla certezza che le acquisizioni intellettuali sono necessarie allo scafandro iperboreo, a sua volta indispensabile per sentirsi definitivamente superiori a coloro che non adottano il medesimo protocollo di perfezione.
La loro inconsapevole bandiera tecnologica, in cui si nasconde un ché di feticistico, è autosuggellata più che mai dalle potenzialità digitali. È vero, mostruose rispetto a quelle analogiche, ma anche mostruosamente superficiali sempre rispetto a quelle estetiche.
Sembra sventoli un preciso motto: oltre all’ego non c’è verità.
Ma c’è una controindicazione.
«Una delle conseguenze dell'era tecnologica è l'incidenza diretta che questa ha avuto sulla sfera del sentimento, colpendo anzitutto la percezione che l'uomo ha di se stesso. Questo perché, per la prima volta nella storia, nasce un nuovo tipo di vergogna: non più quella tra uomo e uomo ma quella tra uomo e macchina, tra l'uomo ed il suo prodotto, verso il quale viene avvertito un senso d'inferiorità. Il problema fondamentale dell'inadeguatezza dell'uomo, nell'incapacità di tenere il passo con il mondo dei suoi stessi prodotti, viene utilizzato da Anders per introdurre la vergogna prometeica. All'interno di un mondo altamente tecnologizzato l'uomo è chiamato al confronto con un'infinità di prodotti perfetti, una fabbricazione calcolata nei minimi dettagli che va a contrastare con il «processo cieco e non calcolato e antiquatissimo della procreazione e della nascita»1.2
Essere
L’altra modalità di perfezione umana, cristiana non caccia via nulla, semmai utilizza tutte le pochezze umane quali strumenti per accedere ai luoghi oscuri di noi stessi; per specchiarsi e riconoscersi nel prossimo, in particolare quello prima denigrato. Sa che le sue acquisizioni non sono definitive, non sono sue, non separano. Sa che possono essere perdute, sache il precipizio nella follia dell’identificazione con l’io è sempre a un passo. Una qualunque orgogliosa distrazione può farci precipitare negli abissi delle supreme superstizioni della scienza e dei suoi ideologici derivati.
Non ritiene che studiando e conoscendo cognitivamente si possano compiere passi avanti, semmai è consapevole che ogni dato di quel genere, se aggiunto come verità, rischia di appesantire, di opacizzare, se non annientare la nostra creatività o libertà di essere noi stessi.
«[…] perché devo infatti affermare che la verità è solo quello ciò che io posso affermare come vero? Chi ci dice che la verità non ci sorpassa o che la nostra mente (mens) è la misura di ogni cosa invece che lo specchio (la riflessione) della “misurabililità” dell’essere? E perché, poi, dovrei accettare solo ciò che mi si presenta in modo chiaro e distinto? Forse che la mia mente è sensibile solo all’evidenza razionale? Io devo– naturalmente – accettare come chiaro e distinto ciò che io vedo come chiaramente e distintamente; né d’altronde sono tenuto ad accettare come evidente ciò che non mi appare come tale; ma perché dopo tutto dovrei rifiutare ciò che ascolto, o ciò che vedo con minore evidenza? Non lo accetterò come “chiaro”, ma potrò sempre accettarlo nel modo in cui mi viene offerto. E non può darsi il caso che precisamente le cose “supreme” e le più importanti siano aldilà del campo visivo proprio al mio occhio nudo e limitato? Se io identifico la verità con ciò che vedo chiaramente come vero, io escludo con questo atto tutto quanto sta al di sopra o al di sotto o al di là di un elemento particolarissimo della mia facoltà conoscitiva, della mia ragione».3
Entrambe le prospettive, quella razionalista e quella cristiana, sono promesse di evoluzione.
Una con passaggi di accumulo di dati come gradini progressivi a garanzia. Misurabile.
L’altra con dolore, dedizione permanente e nessun titolo sancitorio di alcunché.
Una esogena, l’altra endogena; vanitosa e virtuosa; ufficiale e ufficiosa; riconosciuta, segreta; diretta e circolare; curricolare, senza valore per il Pil.
«Un momento irripetibile, uno sguardo, un sorriso, un’intuizione un sospetto, hanno un valore che non si lascia imprigionare dalla ripetibilità. Vale a dire che se riduciamo la conoscenza a ciò che può essere ripetuto, a ciò che può essere formulato con leggi, impoveriamo la conoscenza».4
Storia
Entro l’ambito di questi argomenti non si può omettere una terza concezione del mondo. È quella dell’Islam sunnita, il più diffuso.
In essa non v’è che la storia. Alcuna evoluzione umana è concepita. I sufi, prevalentemente sciiti, sono tollerati in quanto sorta di altra fede. Nel mondo sunnita hanno vita assai più dura. È la loro interpretazione spirituale del Corano a renderli negletti dai loro stessi fratelli musulmani.
Nell’Islam esiste dunque solo la storia. L’aldilà, la janna, di pascoli rigogliosi, freschi boschi di montagna, ruscelli effervescenti e 42 huri, vergini cadauno – purché non divorziati –, sono una promessa strumentale alla politica. Ma forse più rispettabile rispetto a quella cristiana in quanto si riferisce, nuovamente alla sola ma assoluta dimensione storica.
(Per le donne è promesso il ritorno all’età della giovinezza inteso come condizione di sposa, che implica anche la soddisfazione sessuale. Gli omosessuali non hanno accesso al Giardino del Paradiso).
L’umma, il popolo dei musulmani, rammenta che se il rapporto con Dio è individuale, non c’è alcuna distinzione tra i fedeli, qualunque sia la loro condizione individuale nella società. Non c’è neppure alcuna forma di clero. Il rapporto col Supremo non è mediato, né mediabile. L’imam, guida, conduce la preghiera a mo’ di funzionario competente, non è tramite di niente.
Anarchia compiuta
Ogni uomo, indipendentemente dalla sua estrazione sociale, è tenuto a comportarsi secondo la shaaria, la legge divina che regolamenta ogni aspetto sociale. Il massimo possibile è semplicemente essere un buon musulmano, cioè assoggettarsi ai cinque precetti dell’Islam: la testimonianza di fede, Shahaada (Ašhadu an lā ilāha illā Allāh - wa ašhadu anna Muḥammadan Rasūl Allāh, Non vi è altro Dio che Allah e Maometto è il suo profeta), la preghiera, Salaat (cinque volte al giorno), l’aiuto ai bisognosi, Zakat (dare ai poveri per permettersi di godere quanto guadagnato), il digiuno, Ramadan (per gli adulti, un mese all’anno, cibo e bevande sono al bando durante le ore di luce solare), il pellegrinaggio a La Mecca, Haji (almeno una volta nella vita, corredato ad altri rituali).
Fatto questo null’altro è chiesto al musulmano per entrare nel regno dei cieli. La sua condizione non prevede alcuna evoluzione verso una condizione ultrastorica. Il perdono cristiano, e non solo, è sostituito con la legge del taglione, a sua volta di copyright non islamico. Ed è forse in questo punto – simbolicamente inteso – che si apre il bivio in cui le strade della cristianità e dell’Islam si separano da quella magistrale tracciata dall’Ebraismo. Sufficiente a sostenere le due visioni o le due psicologie. Quella cristiana orientata al cielo, quella islamica orientata alla terra.
Forze telluriche
Per l’islam, la storia si ripeterà in eterno perché gli uomini saranno sempre identici a se stessi. Così come hanno fatto in passato, faranno in futuro. Il loro dovere è dunque uno soltanto, non è scisso tra religioso e laico. La loro società è integrale, non a caso nelle moschee non si va soltanto a pregare, sono edifici sociali.
L’islam ha un centro esclusivamente terreno, in esso c’è il nucleo della sua forza. Un centro che altrove si è disciolto tra gli umori liquidi e arroganti del narciso individualismo dell’ultimo uomo nietzscheano.
Nessuna escatologia metafisica lo può far dubitare di se stesso o anche solo criticare. Nessun razionalismo o logica aristotelica, né bieco positivismo può nuocere l’ontologia dell’islam.
Anche in una loro espressione si trova la presenza dell’esigenza di perfezione. Così come la rappresentazione umana a mezzo di pitture, sculture, eccetera corrisponde ad un oltraggio nei confronti di Allah, la ricerca architettonica, artigianale e decorativa – nota nel mondo per la sua particolare estetica e precisione formale – rappresenta tanto la totalizzante devozione a Dio, quanto la massima tenzone che gli uomini possono compiere per innalzarsi al medesimo.
Tre perfezioni
Le tre perfezioni, quella razionalista, quella delle tradizioni e quella storicistica dell’islam hanno in sé tre diversi epiloghi o destini per l’uomo.
I
Per la prima, quella della positivistica tirannia della ragione, si può prevedere il crollo, l’implosione. Come infatti tifare – consapevoli della finitezza della storia – ad una crescita infinita se non ipotizzanto una permanente obsolescenza di ciò di cui si dispone? Come non valorizzare il crescente impoverimento umano generato dalla sottrazione di uno scopo esistenziale, sostituito da merci e da valori ad esse soggetti? Come non tenere in considerazione il crescente numero di disturbi psicologici, di incapacità di gestire se stessi.
Ma anche, come considerare accettabile la sua riduzione dell’uomo a cosa o carne da mercato? È proprio del liberismo ridurre la realtà – politica inclusa – al solo paradigma del mercato, celebrare l’individuo e disgrerare le comunità.
Esso è consapevole che l’infinito presente in noi non è comprimibile, che eccedere nella pressione ha forti controindicazioni. Provvede al problema con la soporiferizzazione attraverso la comunicazione, ormai anche elaborata attraverso il furto dei dati che le servono per soddisfarci.
La realtà dello spettacolo non è più un monito situazionista, non c’è più bisogno di scomodare Orwell, The Truman Show, Quarto Potere, Matrix, Huxley, Nietzsche, basta affacciarsi alla finestra.
Viviamo addormentati dentro la logica della Torre di Babele. Scambiamo il sogno per realtà ultima nei confronti della quale l’Intelligencija che si crede tale, i titolati, gli specialisti, i curriculati, non sanno fare altro che assecondare il sogno.
La perfezione razionalista, supportata dalla fisica meccanica classica ritiene di produrre conoscenza seguitando a scomporre l’unità. Forse la fisica quantistica, apparentemente la salverà, di fatto la ridimensionerà, obbligandola ad abdicare al trono supremo sul quale ha per qualche secolo dominato le menti. Finalmente potrà occuparsi di amministrazione delle quantità e lasciare che delle qualità e dell’invisibile si occupi chi è in grado di interpretare il mondo nelle relazione, in modo volumetrico, scorgendo cioè il flusso energetico degli intenti particolari e generali che vi fanno campo.
Un compito che la fisica quantica è in grado svolgere sebbene non supportata da nessun grande network del mondo affinché la nuova concezione della realtà si diffonda.
Il suo potere è inoltre sincretico. Tende a riconoscere – se già non si possa dire l’abbia già fatto – l’attendibilità della ricerca espressa dalle tradizioni storiche. Ecco dunque, la sola sopravvivenza del vecchio reame razionalista rimarrà soltanto nel settore amministrativo della realtà.
II
La seconda, quella della ricerca evolutiva, comunemente intesa come spirituale, è in realtà una via in cui si arriva ad avere a che fare con se stessi. Si arriva cioè a prendere coscienza che fino a prima si aveva a che fare con l’idea di se stessi, con l’io.
Sebbene anch’essa, come il cristianesimo, la scienza e ogni profondità umana, sia soggetta ad una dimensione degradata a vulgata, definita da luoghi comuni che nulla hanno a che spartire con la nuce dei principi originari – solo poi esoterici –, in essa si può cogliere la disponibilità di un equilibrio possibile, per quanto da non considerare definitivo.
Il connotato essenziale della vulgata è circoscrivibile a un’impropria interpretazione dei concetti in questione. Improprietà che deriva dall’inconsapevole impiego di strumenti logico-positivisti applicati a formule che si rivelano nella loro natura soltanto se ricreate attraverso l’ascolto e ad una sorta di nolontà, una libertà dal conosciuto e quindi dalle pretese dell’io.
Ma c’è un secondo livello di degrado che è opportuno riconoscere: la comprensione intellettuale, l’acquisizione concettuale scambiata per l’ultimo gradino da superare per accedere ai segreti. Un equivoco assai sconveniente per il ricercatore e di non facile isolamento. Tuttavia, quando subentra una presa di coscienza opportuna, compare la cima dell’incarnazione. A quel punto, l’anticima della comprensione cognitiva dimostra la sua distanza dalla vetta. Dunque non si tratta di riconoscere la vetta ma di esserla. Cessare di riflettere luce e divenirla.
Resta vero che si tratta di una evoluzione che sebbene sulla carta possa interessare tutti, di fatto l’attuale realtà dello spettacolo certo non invita ad avviare attenzioni in profondità, così come l’individualismo edonistico non favorisce la dedizione permanente necessaria a questo percorso. Rimane perciò una ricerca ristretta a coloro che, avendone l’esigenza, come l’acqua che trova il passaggio più carsico, in autonomia trovano come perseguirla.
Il destino della ricerca di sé implica la tendenza alla forza e alla stabilità dell’essere umano. Al momento appare ancora utopica per la maggioranza, ma molti segni dispersi negli oceani delle forme, fanno sospettare che l’accelerazione possa stringere i tempi. L’eventuale o la prevista implosione del paradigma egoico, potrebbe essere un elemento scatenante la cultura della natura, o psicologea come ho sentito dire.
III
La terza, o islamica, ha il forte argomento che tende ad essere soddisfacente per tutti i generi e le categorie d’uomo, fatto salvo le nature più sottili; tende a tenere uniti ciò che altre forze della vita hanno separato. Se il dramma esistenziale è sintomatico di un corpo che si concepisce come una macchina, nell’islam, il rischio di psicopatologia tende a non sussistere.
L’uomo è quello che è, indipendentemente dalla condizione sociale che riveste. Se il suo compito è rispettare la parola di Allah, come sospettare possa disperdere la sua intelligenza tra i rigagnoli di una realtà mercificata e opulente?
È anche in questo punto che l’invasività della cultura occidentale ha premuto eccessivamente fino a provocare il risentimento nei confronti dei musulmani – secondo gli islamisti – permissivi, degli sciiti e dei cristiani.
Diventa allora facile, intendere strumentale a certo pensiero uniformato, riconoscere il carattere fondante della jihad, la guerra al kafir, all’infedele in quanto corruttore di una stabilità e di una forza dell’uomo che appare doverosamente invidiabile dai molli castelli del nostro assistenzialismo, dai nostri corridoi di ospedali, di scuole, di parlamenti.
Purché non si creda che gli strumenti razioni si possano aprire gli scrigni di queste verità, diventa facile comprendere l’intento della shariaa, la sua offerta di serenità. La grande diffusione della Poesia che si dispiega nel mondo musulmano forse ne è una conseguenza.
«L’islam nasce in posizione di protesta contro un ordine sociale religioso, quello tribale pagano che lo precedeva in Arabia nel secolo VII, ma non in posizione di critica o di negazione del mondo terreno in quanto tale.
Fin dall' inizio l’islam si presenta come un movimento che intende rivendicare a sé l’intero ciclo dell’esperienza, del sapere, della volontà, della vita umana individuale e sociale, per portare a compimento nel mondo i disegni di Allah. Dunque niente posizione ambigua rispetto alle realtà mondane: non c’è bisogno di far capriole metafisiche per accettare insieme i ricchi e certe parabole sulla cruna degli aghi, la guerra e l’amore universale, lo stato e la chiesa, la carne e lo spirito, per superare tutti quegli innumerevoli dualismi che minano l’endocosmo cristiano e la civiltà occidentale»5.
«[…] la parola religione - se intesa in senso cristiano - è intraducibile in termini dell’islam ortodosso sunnita. Siamo di fronte a due endocosmi strutturalmente diversi»6.
«Il termine stesso di islam (abbandono alla volontà divina) non esprime tanto, come si suol credere, l’accettazione passiva del fato, quanto la coscienza della signoria totale ad Allah»7.
«[…] una fede che investe tutta la vita attuale, reale, immediata, terrena, soda, succosa, integrale, con la sua politica e le sue guerre, i suoi affari ed i suoi amori, senza innalzare divisioni tra sacro e profano, tra chiesa e stato, tra sacerdozio e laicato. Questo, non v’è dubbio, è un formidabile elemento di forza, è la famosa «democrazia musulmana», che spiega in qualche modo la costante vitalità dell’islam e il suo fascino per tanti popoli lungo i secoli».
Lorenzo Merlo
1 Gunther Anders, L'uomo è antiquato. I. Considerazioni sull'anima nell'epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati-Boringhieri, Torino, 2003, p. 32.
2 https://mondodomani.org/
3 Paolo Calabrò, Le cose si toccano. Raimon Panikkar e le scienze moderne, Reggio Emilia, Diabasis, 2011, pp. 64-65.
4 Raimon Panikkar, La porta stretta della conoscenza, Rizzoli, Milano, 2005, p 217
5 Fosco Maraini – Paropàmiso – Leonardo da Vinci, Bari, 1963
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