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Convertirsi a se stessi (in senso laico)

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Sento spesso dire “sono distratto/a”.
E chi lo dice, in questo modo, quasi si autoassolve, come se il suo fosse un piccolo difetto caratteriale o un piccolo “peccato” veniale.
In realtà, la persona che lo dice non è affatto distratta; o, meglio, non è in primo luogo distratta.
Ma è, in primis, dissipata, confusa, disgregata, caotica, priva di un saldo centro interiore.
Che non è un “piccolo difetto” o un “problema di poco conto”.
Poi, per conseguenza e per forza di cose, è anche distratta.
Ma la distrazione è solo il sintomo esteriore e superficiale di un disturbo interiore e niente affatto banale.
Che potremmo altrimenti definire come mancanza o incapacità o volontà di raccogliersi, di entrare in contatto con se stesso/a.
Quasi un ripudio di sé.
“Sia fatta la tua volontà”: è un’invocazione che può fare solo chi è passato per una profonda conversione. Non la può nemmeno concepire chi non ha fatto una tale esperienza.
Prima della conversione, nessuno potrà dire e dirà mai “Sia fatta la tua volontà!”.
Ogni uomo, infatti, che non si sia ancora convertito, ci tiene bene a dire: “Io faccio esclusivamente la mia volontà; non mi abbasso a fare la volontà di nessun altro; nessuno mi è padrone!”.
E’ solo dopo una “conversione”, una metanoia, che un uomo potrà dire “Sia fatta la tua volontà”.
Potrebbe pensarsi, a questo punto, che io stia qui parlando di una conversione religiosa. E che per “la tua volontà” stia intendendo quella di un Dio Signore, che ci domina e ci sovrasta.
E, invece, no: io non sto parlando affatto di una conversione per forza di cose religiosa; né sto riconoscendo implicitamente l’autorità di un Dio Signore a cui sottomettersi.
Sto parlando di una conversione che non necessariamente deve avere i caratteri della scelta religiosa. Ma di una conversione che può sperimentare qualsiasi uomo che ad un certo punto modifica radicalmente il suo modo di pensare e di vivere.
Che passa, cioè, da una visione e da un modo di vivere egolatrico, egocentrico, narcisista (che è il modo di pensare e di essere naturale del bambino o dell’uomo primitivo e selvaggio), ad una visione e ad un modo di vivere in cui non mi sento più io il centro del mondo e nella mia vita ci sono anche gli altri, che pesano almeno quanto me.
L’uomo nuovo, “convertito” (nel senso laico e non necessariamente religioso che ho sopra chiarito) decide, per questo, di fare non più la propria volontà, ma la volontà dell’Altro che abita in lui, la volontà del suo Maestro interiore.
E non per stupida sottomissione o masochismo. E neppure per esclusivo e idealistico altruismo.
Ma perché ha ricevuto una “illuminazione” che lo ha “convertito” ed ha compreso che la “sua” volontà lo conduceva in un vicolo cieco, verso il ripiegamento su se stesso e, quindi, verso l’autodistruzione psicologica.
La volontà dell’Altro da me è, invece, apertura al prossimo, alle relazioni, alla socializzazione e, per questo, all’espansione del Sé.
Che è la salvezza in termini psicologici (quindi, non necessariamente religiosi), la cura, la terapia contro il male oscuro, vera e propria peste incombente, da cui corre il rischio di essere contagiato l’animo dell’uomo.

Giovanni Lamagna

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