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La compassione buddhista o l’amore cristiano...?


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Molti considerano il concetto buddhista di “compassione” e quello cristiano di “amore” quasi omologhi, come se essi si riferissero a due esperienze molto affini.
Io ritengo, invece, che non solo i due concetti siano parecchio diversi, ma che soprattutto corrispondano a due esperienze molto diverse.
La compassione è l’atteggiamento – soprattutto emotivo/affettivo – che mi porta a condividere il tuo dolore, anzi la tua stessa condizione umana, che è una condizione di fondamentale sofferenza. Provare compassione vuol dire, in altri termini, sentirmi vicino al tuo dolore, alla tua sofferenza.
L’amore è, invece, l’atteggiamento – anche questo soprattutto emotivo/affettivo – che mi porta a provare non solo solidarietà per la tua sofferenza, ma mi spinge anche a desiderare per te il massimo di felicità possibile e a darmi da fare, adoperarmi, perché tu la possa sperimentare.
L’amore, quindi, per me è qualcosa in più della compassione.
La compassione si fonda su una concezione fondamentalmente pessimistica dell’esistenza, secondo la quale la vita è essenzialmente, principalmente, strutturalmente dolore, sofferenza.
Il dolore della nascita, che avviene nelle sofferenze del parto e dà origine alle sofferenze future della vita.
Il dolore della vecchiaia, che ci fa sentire l’avvicinarsi della morte e ci fa quindi sperimentare con forza la “impermanenza”, cioè la fuggevolezza, la non durata eterna della vita.
Il dolore della malattia, causato dagli squilibri che vengono a crearsi talvolta nel nostro corpo, fino a quello finale che ne causa la dissoluzione e , quindi, la morte.
Il dolore della morte, generato dalla perdita della vita.
Il dolore causato dall'essere vicini a ciò che non "piace".
Il dolore causato dall'essere lontani da ciò che si "desidera".
Il dolore causato dal non "ottenere" ciò che si "desidera".
Il dolore causato dai cosiddetti cinque “aggregati”, ovvero dalla loro unione e dalla loro separazione. I cinque aggregati sono: il corpo, le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza.
L’amore cristiano si fonda su una concezione del mondo e della vita che non è certo del tutto e banalmente ottimistica, ma non è neanche del tutto e cupamente pessimistica.
Per il cristiano che ama (e non prova solo compassione) la vita non è solo dolore, ma può essere anche gioia e, in alcuni momenti almeno, perfino felicità.
Basti citare il passo del Vangelo di Matteo 6,25-34 (il primo che mi viene in mente):
«Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un'ora sola alla durata della sua vita? E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. Ora se Dio veste in questa maniera l'erba dei campi che oggi è, e domani è gettata nel forno, non farà molto di più per voi, o gente di poca fede? Non siate dunque in ansia, dicendo: “Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?" Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più. Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno».
Non ci sono dubbi: anche in Gesù è presente un discorso che invita al distacco. Ma il distacco di cui parla il Vangelo è un distacco dalle preoccupazioni e dalle ansie della vita, pieno di fiducia nella vita. Che invita a goderne e non a disprezzarla. A non rovinarsene la gioia e il godimento a causa delle ansie e delle preoccupazioni.
Ben distante, dunque, dal distacco ascetico e cupo del Buddha, che considera la vita essenzialmente dolore e sofferenza e quindi invita i suoi seguaci a separarsene mentalmente, fino a raggiungere il Nirvana, che è assenza di sofferenza, non certo pienezza di gioia e felicità: realtà che per il Buddha non sono esperibili dall’uomo.
I due diversi modi di guardare e considerare la vita hanno delle profonde e rilevantissime ricadute nel modo con cui essi suggeriscono di guardare agli altri e di rapportarsi a loro.
Per Buddha gli uomini si devono rapportare ai loro simili con un atteggiamento di compassione per la loro sofferenza. Che vuol dire provare empatia e condivisione del loro dolore strutturale, fondamentale: non c’è altro da condividere.
Per Cristo, invece, come la sua stessa vita ha mirabilmente testimoniato, si tratta di condividere con gli altri gioie e dolori: le gioie della festa e dell’amicizia fraterna e i dolori della malattia e della morte. E in questo consiste l’amore.
Che è dunque cosa ben diversa dalla semplice compassione.
La concezione del Buddha è triste e cupa e spinge fondamentalmente alla rinuncia alla vita, alla rassegnazione, via, via sempre più consapevole, ad un destino di morte. Buddha è come se dicesse: più ci si rassegna e prepara al dolore e alla morte, meno se ne soffrirà, quando il dolore e la morte sopraggiungeranno per noi.
La concezione di Gesù è, invece, luminosa, gioiosa, perfino allegra. Anche egli parla di distacco. Ma dalle ansie e dalle preoccupazioni eccessive o addirittura inutili (potremmo perfino dire dai fantasmi di morte, cui sono legate le nostre nevrosi). Non certo dalle gioie e, perfino, dai piaceri che la vita può regalarci.
Tra i due messaggi, quello di Buddha e quello di Gesù, personalmente, preferisco (e di gran lunga) quello di Gesù.
Giovanni Lamagna
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Solstizio invernale. L'avvento del cristianesimo e la storia manipolata


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Siamo ormai vicini alla festività di Natale, fervono i preparativi per la vigilia, cene, pranzi luculliani ci aspettano e poi brindisi e regali, ecc. ecc. E per i cattolici anche funzioni religiose. Ma aldilà dell’attesa del Natale quanti di voi si sono mai chiesti l’origine di questa festa, chi è stato ad inventarla e quando è comparsa per la prima volta? In questo breve servizio cercheremo di dare qualche risposta, di sfatare luoghi comuni e sconfessare fake news storiche, il tutto, come sempre in nome della verità. 

Cominciamo a dire che, ancora prima del Cristianesimo, gran parte delle popolazioni indoeuropee celebravano con vari riti il Solstizio d’Inverno perché rappresentava la fine dei giorni più bui e l’inizio di quelli con più luce. Questo evento astronomico (2 volte l’anno in Inverno e in estate) cadeva e cade sempre tra il 21 e il 22 di dicembre (quest’anno alle ore 4,19 del 22 dicembre). Quindi tra il 20 e il 27 di dicembre si celebrava in molte antiche culture questo rito. Nell’antica Roma alle radici del Natale c’è proprio una festa dedicata al Sole, ed esattamente al Sol invictus, l’astro invitto (invincibile), che ancora una volta sconfiggerà le tenebre a beneficio della luce del Sole. 

Ma ancora prima va menzionato il calendario celtico dove alla fine del giorno più breve dell’anno, si effettuava la festa di Yule (21 dicembre), notte in cui la dea della fertilità partoriva nel ventre della terra colui che, nel corso del ciclo annuale, sarebbe diventato il dio della luce e suo nuovo compagno. 

Nell'antica Roma, prima e subito dopo il solstizio invernale (pensiamo tra il 17-23 dicembre) era usanza scambiarsi regali, come facciamo noi oggi, tra parenti e conoscenti e imbandire festosi banchetti. Si celebrava così la festa dei Saturnali, dedicata al dio dell'agricoltura, Saturno. Una curiosità che pochi conoscono: in quei giorni di festa era prevista anche un'inversione di ruoli tra schiavi e padroni, a rappresentare l'antico stato di uguaglianza tra gli uomini. A partire dal I secolo d.C. a Roma, e soprattutto nelle province dell’impero, era adorato il dio Mitra, una divinità accompagnata dal simbolo del Sole, originaria dell’India e poi approdata definitivamente in Persia. 

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La sua comparsa nel mondo dei culti religiosi, gli studiosi l’attribuiscono intorno al 1400 a.C. – Il mitraismo come religione fu subito accolta e professata dai soldati e da dignitari del senato romano. Il Cristianesimo intanto muoveva i suoi timidi passi nel mondo e cominciava a diffondersi soprattutto nei territori meridionali dell’impero romano. Era comunque un movimento religioso malvisto soprattutto dagli ebrei che non riconoscevano la figura di Gesù come Messia, perché per loro (ancora oggi) quello vero doveva ancora manifestarsi. 

I romani, che tolleravano gran parte dei culti religiosi, questa nuova religione fu da questi inizialmente l’ignorata. Questo fino al 64 d.C. poi, a seguito del disastroso incendio di Roma, dove la comunità cristiana era ancora tollerata, fini per essere perseguitata. Qui è doveroso, sulla base di nuovi interessanti studi degli storici, sfatare la favola che fu l’imperatore Nerone a dar fuoco alla città. E’ dimostrato infatti che da molti giorni si trovava ad Anzio e non sul Palatino a godere delle fiamme che divoravano Roma, come invece scrisse più tardi Svetonio (70/75 d.C.-140/150) che è risaputo disprezzava l’imperatore Nerone. 

Da alcuni recenti scavi si sono trovate testimonianze scritte che ci dicono come le frange più estremiste dei cristiani abbiano commesso l’errore di manifestare in pubblico la gioia per il disastroso incendio che, secondo loro, fu mandato dal Signore perché Roma si era moralmente imbarbarita come a suo tempo fu Sodoma. Da qui l’inizio delle persecuzioni verso i cristiani e questo a causa dell’improvvida posizione di alcune frange intransigenti di cristiani. Tuttavia, imprigionati 300 cristiani e giustiziati oltre la metà perché accusati di aver appiccato il fuoco, la persecuzione terminò. 

A testimonianza di ciò, Paolo, il leader dei cristiani a Roma, poté continuare la sua predicazione e nessuna conseguenza ci fu per i cristiani delle province. E poi in seguito, durante il governo di Nerone, non fu varata nessuna legge che 17 proibisse ai cristiani di professare la propria fede. Le persecuzioni vere e proprie invece cominciarono con Domiziano (81-96 d.C.), e proseguirono con Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio, Settimio Severo, Massimino, per assumere, con Diocleziano, le forme del genocidio. 

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Tralasciamo una parte della storia romana e arriviamo a Costantino, perché senza la scelta fatidica dell’imperatore Costantino (280-337 d.C.) forse il cristianesimo non avrebbe avuto la popolarità e diffusione che oggi conosciamo. In quel periodo a Roma e nelle sue province esistevano molti culti e confessioni religiose, alcuni radicati in Egitto ( Il culto di Iside), in Persia, in Palestina ( L’Ebraismo) e infine provenienti dai popoli nord europei, tra cui il Druidismo. Tra tutte queste Costantino scelse di privilegiare il culto cristiano, successivamente suggellato nell’Editto di Milano del 313 d.C.. 

Per gli studiosi questa scelta fu sollecitata da sua madre Elena che, convertitasi al cristianesimo, spinse il figlio ad elevare questa nuova religione al vertice di tutte le altre. Senza questo intervento forse la religione di Stato sarebbe stata un’altra. Costantino, dopo aver scelto il cristianesimo, con l’aiuto di intellettuali e saggi dell’epoca che lo assistevano intellettualmente, cercò di realizzare un percorso intelligente e indolore nel tentativo (ben riuscito!) di sostituire i simboli di altre religioni con quelli della nuova religione. Il culto di Mitra nel I secolo d.C. si era già diffuso a Roma, soprattutto come culto guerresco praticato dai legionari. I più antichi santuari del dio risalgono al II secolo. Nel III secolo d. C., ci fu la fusione di Mitra con il simbolo del Sol Invictus e il mitraismo iniziò a ridimensionarsi, sopraffatto dal più potente culto solare. 

Sembrava quindi che l’adorazione al Sole (Sol Invictus) avrebbe oscurato tutti gli altri culti e si sarebbe trasformato in un culto ufficiale dell’impero romano. Fu l’imperatore Aureliano (270 d.C.), la cui madre era una sacerdotessa del Sol invictus, ad elevarlo a prima religione, infatti fece costruire un tempio al Sole e fondò una casta sacerdotale allo scopo di attribuire maggiore ufficialità al culto dell’astro dispensatore di vita. Ma successivamente Costantino, avvertendo che tutto l’impero cominciava a scricchiolare e, quindi, era necessario trovare una religione capace di evitare squilibri geopolitici interni, scelse il Cristianesimo. La figura di Cristo secondo l’imperatore e secondo i dotti che lo assistevano intellettualmente finì per sostituire proprio su Mitra. Vediamo perché: Anche Mitra, come Gesù, era stato mandato sulla terra dal padre per combattere contro il Male; anche Mitra era nato da una vergine di nome Anahita, miracolosamente fecondata dal dio Ariman (Anche Krishna nell’Induismo è partorito da una vergine e chi la feconda compare sotto forma di luce), Mitra nasce il 25 di dicembre dentro ad una grotta; anche lui era attorniato da dodici seguaci; anche Mitra celebrò con essi l’ultima cena prima di morire; anche Mitra resuscitò dal regno dei morti; anche il culto di Mitra parlava di inferno e cielo, di giudizio universale; anche il giorno dedicato a Mitra era la domenica; anche il gran sacerdote del culto di Mitra veniva chiamato papa e portava il copricapo frigio di colore rosso, un mantello rosso, un anello e un bastone pastorale; anche gli iniziati al mitraismo praticavano un rito di consumazione di pane, vino e acqua. Quindi una perfetta opera di sovrapposizione ad un culto più antico. 

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Geniale la scelta della data di nascita del Gesù, in questo modo si assorbivano tutti gli antichi riti pagani legati al solstizio d’inverno, non solo, ma si dava un taglio deciso a tutte le interpretazione delle varie correnti cristiane che dissentivano tra di loro sulla data di nascita del Cristo. I Basilidiani ad esempio ne celebravano la natività tra il 6 e il 10 gennaio, i Cristiani egizi tra il 19 e il 20 aprile o altri il 28 marzo, in cui si pensava fosse stato creato anche il sole. 

Perciò, grazie a Costantino, che nel 325 d.C. indisse a Nicea il I° Concilio Ecumenico della Chiesa, il Cristianesimo diventò  religione riconosciuta  dell’impero Romano e poi, con Teodosio (380 d.C.) l’unica religione dell’Impero autorizzata. Da quel momento il 25 di dicembre diventa la data officiale del Natale. Potremmo parlarne ancora, aggiungere fatti e storie inedite, enigmi svelati sul Natale, ma ci fermiamo qui, perché riteniamo che sia per il momento abbastanza quanto fin qui scritto, ma ne riparleremo…

Filippo Mariani - A.K. Informa n. 50

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Effetto serra o nuova glaciazione? - I dubbi di Giorgio Nebbia...

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C’è o non c’è? Mi riferisco all’”effetto serra” sulla cui esistenza si scontrano due vivaci gruppi.
Un primo gruppo sostiene che esistono dei mutamenti climatici dovuti all’immissione nell’atmosfera di vari gas, principalmente anidride carbonica, ma anche metano, idrocarburi clorurati e fluorurati e alcuni altri, che sono i sottoprodotti di attività umane e soprattutto di scelte merceologiche: questo gruppo, insomma, sostiene che le attività e le scelte produttive umane compromettono il clima in futuro, ragione per cui è necessario sottoporre a revisione critica i consumi, i processi produttivi, usare le fonti energetiche e le materie prime rinnovabili, eccetera. Esiste poi un altro gruppo che sostiene che i mutamenti climatici che si stanno osservando sono occasionali, che simili mutamenti ci sono sempre stati in passato, che la concentrazione dell’anidride carbonica nell’atmosfera è cambiata più volte durante la lunga storia geologica della Terra e che non sono le attività di produzione e di consumo di energia e di merci che alterano il clima. Le ricchezze della natura, la scienza e la tecnica sono in grado di risolvere i guasti ambientali, ragione per cui non c’è bisogno di alcun mutamento nell’andamento delle economie nazionali e mondiali.
I due gruppi, a cui partecipano con uguale vigore chimici e giornalisti, fisici e storici, meteorologi e geografi, difendono le rispettive inconciliabili posizioni con ricche citazioni in stizzosi dibattiti fino a reciproche accuse su chi è pagato da chi per sostenere le sue tesi.
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Al dibattito sull’effetto serra si affianca quello sull’energia nucleare, di moda da quando, dopo le ultime elezioni nazionali, il nuovo governo ha deciso di avviare un programma di costruzione di varie centrali nucleari. Uno dei due gruppi sostiene che le centrali nucleari producono elettricità costosa, con impianti che alterano il territorio, inquinano durante il funzionamento e lasciano in eredità alle generazioni future scorie radioattive quasi eterne. L’altro gruppo sostiene che l’Italia è rimasta esclusa dall’energia nucleare per colpa dello sciagurato referendum del 1987 che ne fermò l’uso, che le centrali nucleari producono elettricità a basso costo, come dimostra la Francia, che occorre elettricità a basso prezzo per far funzionare le fabbriche e rendere competitiva la produzione italiana di merci e macchinari e che le fonti solari, eoliche e simili mai potranno fornire elettricità come fanno così bene le centrali nucleari. E, infine, questo secondo gruppo sostiene che il programma nucleare governativo fa diminuire le costose importazioni di petrolio e di gas naturale che, bruciando, immettono nell’atmosfera gas con effetto serra. Ma non abbiamo appena detto che l’effetto serra non esiste? Eppure i due partiti, quello che contesta l’effetto serra e quello che sostiene l’energia nucleare hanno vaste zone e protagonisti comuni.
Non si capisce niente. A me pare che la società contemporanea brancoli nel buio. Ci si augura che diminuiscano le importazioni di petrolio ma si guarda con preoccupazione alla disoccupazione provocata dalla chiusura di alcune raffinerie; ci si augura che diminuiscano i fumi nelle città e la congestione del traffico automobilistico, ma nello stesso tempo si incoraggia, anche grazie a incentivi statali, la produzione e la vendita di automobili che funzionano bruciando prodotti petroliferi.
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Ogni giorno aumenta la massa dei rifiuti solidi (ormai 40 milioni di tonnellate all’anno quelli domestici e urbani) e anche qui si contrappongono coloro che chiedono una diminuzione dei consumi e il riciclo dei rifiuti, con quelli che vorrebbero bruciare i rifiuti negli inceneritori o seppellirli nel sottosuolo.
La vita è intessuta di contraddizioni, come aveva detto il filosofo tedesco Hegel: il compito della politica dovrebbe essere proprio il superamento o la conciliazione delle contraddizioni, ma mi sembra che ben poco venga fatto in questo senso. Ci aspettano periodi tempestosi, che possono essere superati soltanto con coraggio e lungimiranza. Quanto all’energia e all’ambiente il mio modesto pensiero è che occorra un piano nazionale, ed europeo, forse globale, ma almeno nazionale, basato su scelte che inevitabilmente sono tecniche ed economiche.
La quantità di energia che occorrerà in futuro, le fonti di energia a cui rivolgersi, l’inquinamento che ne deriverà, dipendono dalla decisione di quello che sarà prodotto per soddisfare bisogni umani, a cominciare da quelli elementari e irrinunciabili: il diritto alla casa, a muoversi e, soprattutto il diritto al lavoro. Si tratta di decidere quali case costruire per chi vive ancora nelle baracche, dove costruirle nel territorio, quali e quante automobili fabbricare, quali e quanti prodotti agricoli produrre nei campi: grano e patate, pomodori e legname, girasoli e olio di oliva.
Per attuare queste decisioni, nell’interesse pubblico, generale, può intervenire soltanto lo stato con i suoi soldi. Un privato ha interessa a costruire quartieri e alberghi di lusso per i ceti abbienti, non certo case per sfrattati e immigrati; un privato guadagna col funzionamento delle eleganti cliniche private, non spende soldi per aggiustare i corridoi e le sale operatorie degli ospedali pubblici; produrre automobili popolari e a basso consumo non rende al privato quanto costruire automobili potenti e lussuose; riciclare i rifiuti non rende quanto incenerirli e immetterli in discariche, e così via. Già oggi lo stato interviene con i suoi soldi, ma per rispondere a domande private che non risolvono i problemi né dell’occupazione, né dell’energia, né della casa per i meno abbienti.
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Occorre una svolta perché dalle contraddizioni irrisolte sono travolti proprio i più deboli ed è travolto l’ambiente, con cieli fumosi, colline che franano, fogne che sporcano i mari, rubinetti che non danno acqua; ed è travolto di più il Sud.
Giorgio Nebbia – nebbia@quipo.it
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