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La Coscienza nel credere e nello sperimentare

“Sii ciò che sei…” ovvero “Conosci te stesso” 
Categorie di pensiero e categorie di esperienza: ateo – teista / agnostico – gnostico Il linguaggio non è solo semantica. Eppure c’è già all’interno della mente un “seme” che consente la comprensione di concetti sottili, che non hanno corrispondenza nel mondo materiale. Ad esempio quando un bambino apprende a parlare ed a scrivere, non segue solo esempi concreti: tavolo, cibo, cane, etc… Vi sono pure i concetti e sentimenti che vengono “riconosciuti” intuitivamente, per una sorta di ammissione interna che va aldilà dell’esempio. In questo caso si presuppone che vi sia già una pre-conoscenza innata di tali concetti, il linguaggio insomma non è altro che descrizione di un qualcosa che abbiamo già dentro.
La stessa cosa si può dire della conoscenza di vita. La vita nasce dall’inorganico ma se non fosse già presente nella materia in forma germinale come potrebbe sorgere e trasformarsi in intelligenza e coscienza? Da ciò se ne deduce che la coscienza e l’intelligenza sono come una “fragranza” della materia e quindi non vi è reale separazione. La differenza è solo nella fase… La vita è un’espressione manifestativa della materia. Partendo da questa considerazione generale osserviamo che la spinta evolutiva di questa intelligenza/vita si evolve attraverso stati diversi di consapevolezza. Nelle forme pensiero esistono gradi descrittivi della maturità assunta da questa intelligenza. Tralasciamo per il momento gli aspetti più vicini all’emozionalità, all’istinto, e prendiamo in considerazione solo gli aspetti “filosofici” del pensiero umano. Osserviamo che sia in occidente che in oriente vengono descritti gli aspetti separativi e unificativi del processo mentale (solve et coagula ovvero: “il credere è statico lo sperimentare dinamico”).
In Grecia come in India si è parlato di pensiero duale e pensiero non-duale. Nel pensiero duale (dvaita) viene inserita ogni forma cristallizzata separativa, come il teismo e l’ateismo. Queste due categorie infatti sono viste come sfaccettature della stessa conformazione separativa. Il teista è colui che crede in un dio separato da sé, lo immagina in veste di essere superiore e dotato di immensi poteri e vede se stesso come creatura alla sua mercé. Il teista crede che la sua propria esistenza è consequenziale e secondaria al dio. L’ateo parimenti, crede di non credere, ovvero nega ogni sostanza all’ipotetico dio basando il suo credo sul relativismo materialista. Il teista e l’ateo sono arroganti affermativi della propria “verità” (presunta od immaginata). Ovviamente entrambe queste fedi si basano sulla piccolezza e separatezza dell’io ed abbisognano di uno sforzo continuo e costante per affermare o negare, un tentativo frustrante che comunque non prende in considerazione l’agente primo, l’io, se non in forma passiva e marginale. Questo modo di pensare duale è lo stesso sia per il religioso che per l’ateo materialista, i quali credono in causa-effetto, nella volontà di Dio o nella fortuità del caso.
E’ un percorso puramente speculativo, basato comunque sul credere, sul ritenersi piccoli elementi separati di un qualcosa che magari pian piano la scienza (o la religione) corroborerà. Ma sappiamo che l’orizzonte è sempre più avanti… mai raggiungibile, insomma siamo persi nel nulla…. Nel vuoto. 
La fase successiva dell’auto-conoscenza si definisce non-duale (advaita), in questo caso si inizia a tener conto del soggetto, della coscienza attraverso la quale ogni percezione e sentimento sono possibili, si riconosce nella consapevolezza la matrice della propria esistenza. In questa categoria si pongono l’agnostico e lo gnostico. Alla base della ricerca dell’agnostico si pone l’esperienza diretta ed il superamento della concettualizzazione descrittiva. L’esperienza empirica viene portata alle sue estreme conseguenze con il riconoscimento della costante presenza dell’io nel processo implicato. Viene superato così il modello del credere in verità precostituite accettando la realtà intrinseca dello sperimentatore che esperimenta.
Per cui l’agnostico esprime sostanzialmente una spiritualità laica. L’agnostico sa che non può esserci altra certezza che quella dell’esperimentatore ma allo stesso tempo non vi è ancora realizzazione definitiva. La coscienza individuale non si è fusa nella coscienza universale benché permanga l’intuizione dell’unità primigenia del tutto. Stando così le cose egli non può affermare, egli dice di non sapere, la sua è una saggezza in fieri, in maturazione. L’agnostico non può più identificarsi con un nome forma specifico ed allo stesso tempo manca della consapevolezza indifferenziata del sé e quindi non afferma e non nega. Ma il suo costante e continuo discernimento giunge infine ad una inaspettata e spontanea fioritura, e qui l’intelligenza individuale si scioglie e giunge a maturazione, la coscienza conosce se stessa, la gnosi (jnana).
Lo gnostico non sente il bisogno di dichiarare alcunché, la sua realizzazione è totale e definitiva, aldilà di ogni concetto separativo, la sua presenza non è limitata ad un nome forma, egli conosce se stesso come il tutto inscindibile dal quale ognuno di noi proviene e risiede. Lo gnostico d’altronde non ha mezzi per esprimere la sua esperienza giacché il linguaggio umano è molto distante dall’esperienza diretta del sé. Infatti prima c’è la consapevolezza del sé, poi la coscienza dell’io individuale che assume una forma nello specchio della mente, quindi la riflessione del pensiero ed infine la descrizione del linguaggio parlato o scritto. 
Il saggio non vede differenza alcuna fra se stesso e gli altri, sa che la base è la stessa per ognuno (materia-spirito in continua trasformazione), egli “conosce” che la coscienza e l’esistenza sono inscindibili nell’assoluta unità (uno senza due). Ma la sua esperienza -che è la comune natura di tutti- può essere riconosciuta e percepita per spontanea simpatia dallo spirito maturo. 
In questo processo a quattro fasi, fra dualismo e non-dualismo, si manifesta tutto il gioco della vita e della coscienza.
Paolo D'Arpini 
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spiritolaico@gmail.com
Intervento tenuto ad  Assisi – domenica 15 giugno 2008 sul Tema: Scienza, evoluzione della Coscienza, nel corso della manifestazione "L'oriente incontra l'Occidente" organizzata da Shanti Mandir 

Il concetto di "etere" in varie filosofie e nella scienza



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Atomo: cose c'e' fra atomo ed elettrone? Secondo gli antichi l’Etere era la parte più alta, pura e luminosa dello spazio. L’etere cosmico sarebbe quindi un’ipotetica sostanza, estremamente rarefatta e imponderabile, che riempirebbe tutto l’Universo. I fisici stessi hanno introdotto questa entità fittizia che riempirebbe lo spazio, altrimenti considerato vuoto, perché non riuscivano a far quadrare alcune teorie fisiche.
Al concetto di etere si associa generalmente quello di onde elettromagnetiche: è provato che esse siano in grado di essere trasmettesse nel vuoto (anzi, la propagazione nel vuoto è migliore, perché la presenza di un materiale, sia pur trasparente, la rallenta), ma ancora sono in atto studi che spieghino come questo sia possibile. Il termine sanscrito Akasha, tradotto con etere, indica il più sottile dei cinque elementi che costituiscono l'universo manifesto. Etere può essere sostituito dal termine” vuoto vibrante”. Alla concezione spaziale di vuoto corrisponde quella temporale di immobilità e quella percettiva di silenzio, cosicché tali termini finiscono per equivalersi; vuoto mentale, immobilità e silenzio rappresentando lo stesso stato di assenza di pensiero discorsivo o immaginativo. Il vuoto è l'aspetto dominante della creazione, ed è ciò che mette in relazione, l'uno con l'altro, i vari oggetti (ovvero ciò che esiste) ed è pure il luogo della rappresentazione in forma eterica di tali oggetti. Con forma eterica si intende la matrice, la formula vibratoria. Tutto ciò che è nasce prima di tutto come simbolo nel vuoto.

Negli anni ’80, alcuni scienziati russi hanno avanzato l’ipotesi dell’esistenza di un campo curvo di tipo elettromagnetico detto campo di torsione. Secondo Anatoli Asimov il campo di torsione sarebbe caratterizzato da campi di energia sottile, la cui emanazione sarebbe in grado di viaggiare alla velocità di almeno 109 volte quella della luce (ovvero avrebbe una frequenza di molto maggiore); inoltre i campi di torsione associati ai comuni campi elettrici, magnetici e di gravità porterebbero ad una teoria unificata dei campi tale da estendere il reame della scienza fino ad includere gli effetti del reame della consapevolezza (come dire? si passerebbe dalla fisica alla metafisica con una teoria scientifica).
Torniamo un po’ indietro e chiariamo un po’ il concetto di onde e di campo per coloro che ne sono a digiuno.

Un’onda viene definita come una perturbazione che si propaga nello spazio trasportando energia. Un’onda ha sempre origine in una sorgente, che è ciò che produce una perturbazione dello spazio che la circonda. Abbiamo diversi tipi di onde: sonore, quelle elastiche, luminose, radio ecc.

Il concetto di onda si ritrova in tutti i campi della fisica. In alcuni casi (onde sonore, elastiche, onde del mare) l’ambiente in cui si propaga l’onda è un mezzo materiale (aria, terra, acqua); la luce e tutte le altre radiazioni elettromagnetiche possono invece propagarsi sia nella materia che nel vuoto. Tanto per intenderci le onde elettromagnetiche sono quelle dei cellulari, dei forni a microonde, ecc.

Il campo, come suggerisce la parola stessa, è il campo d’azione di queste onde. Si estende a partire dalla sorgente fino all’infinito; in realtà l’energia tende a disperdersi durante la propagazione delle onde e il campo avrà un raggio d’azione limitato nello spazio e nel tempo (come descritto nelle leggi di Maxwell). Naturalmente l’intensità del campo sarà quindi tanto maggiore quanto più si è vicini alla sorgente.

Shri Mataji ci ha detto che le vibrazioni sono onde elettromagnetiche ad altissima frequenza (superiore a quella delle onde correntemente usate) e che la teoria del campo di torsione le descrive a livello scientifico molto chiaramente.
Soffermiamoci su alcune interessanti caratteristiche delle onde elettromagnetiche. L’insieme di tutte le onde elettromagnetiche esistenti (spettro elettromagnetico) si estende su un ambito enorme di frequenze, dalle basse frequenze delle onde radio fino a quelle molto alte dei raggi gamma (prodotti ad esempio nelle reazioni nucleari all’interno del Sole).

Più alta è la frequenza più le radiazioni possono penetrare nella materia. Quindi immaginiamo quale possa essere il potere di penetrazione nella materia delle vibrazioni, che hanno sicuramente una frequenza molto superiore a quelle delle radiazioni conosciute!
Un’onda elettromagnetica trasporta energia nella direzione della propagazione; questo è valido anche per le vibrazioni, poiché, come abbiamo visto (vedi Conoscere e trasformare il mondo con le vibrazioni), le possiamo dirigere verso un chakra o verso una persona. L’entità dell’energia trasmessa dipenderà da quanto noi saremo antenne trasmittenti di essa, ovvero sorgenti.
Le onde elettromagnetiche sono uno strumento estremamente rapido e versatile per inviare informazioni a distanza (es. radio, cellulari, TV, computer). Le vibrazioni sono lo strumento più rapido e preciso per tutte le informazioni sottili, al punto che istantaneamente possiamo conoscere lo stato sottile di qualcuno che si trovi dall’altra parte del mondo!

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Principi sottili
Le vibrazioni che sentiamo sono il riflesso della Luce dello Spirito. Lo Spirito è immobile, tutto ciò che fa è riflettersi nell’Anima; questo Suo riflesso crea le onde di vibrazioni che si diffondono.”
Shri Mataji, Volterra 25 Luglio 1986
Con l’acquisizione della consapevolezza vibratoria si entra effettivamente nell’Etere (in sanscrito Akasha), cioè in quello spazio permeato dalle vibrazioni (chaitanya), che solo nello stato di yoga riusciamo a percepire. L’etere non è più qualcosa di rarefatto e imponderabile, oppure un concetto astratto; diventa invece una dimensione vera e propria, nella quale anche spazio e tempo cambiano di significato: la consapevolezza vibratoria è infatti istantanea e universale, poiché consente di conoscere in modo puntuale e immediato eventi o situazioni personali sia vicini che lontani nello spazio e nel tempo. 

Il concetto di sostanza che riempie lo spazio diventa in Sahaja Yoga consapevolezza reale — perché mediata dal nostro sistema nervoso autonomo — della presenza di un’Energia diffusa ovunque, dagli spazi cosmici fino alle più piccole particelle, assolutamente accessibile alla nostra coscienza una volta che la nostra attenzione venga sintonizzata non più sulle ‘vibrazioni mentali’ di ego e super ego bensì sul piano sottile.

“Una volta che il Sahasrara è aperto dovete poi scendere nel Vishuddhi chakra. Se l’illuminazione non agisce nel Vishuddhi chakra non potete sentire le vibrazioni. Dovete sviluppare la coscienza collettiva.”
Discorso di Shri Mataji sul Vishuddhi 1988

L’elemento Etere è quindi associato al Vishuddhi chakra, che è il chakra della comunicazione. Infatti è tramite esso che noi abbiamo percezione della realtà prima di tutto attraverso i sensi e poi, a livello più sottile, attraverso le vibrazioni. Prendersi cura del Vishuddhi chakra, ci permette di avere una buona percezione delle vibrazioni, sia quelle interiori che quelle esteriori.

“… Se non ci sono impedimenti, la Kundalini sale direttamente al Brahmarandra, sulla sommità del capo, nell’area della fontanella e va oltre. A questo punto l’elemento Etere entra in gioco e la diffonde: è così che sentiamo la brezza fresca, che è energia sottile. Questa è la proprietà dell’etere che è l’essenza dello spazio”.
Discorso di Shri Mataji su gli Elementi e loro qualità, 1985
Per entrare nella dimensione dell’etere (e quindi sentire le vibrazioni dello Spirito) dobbiamo però essere in ‘consapevolezza senza pensieri’:

Per trasformare le vostre energie in energie dello Spirito dovete permettere allo Spirito stesso di dirigere tutte le cose. Gli sforzi della mente dovrebbero essere ridotti e l’energia dello Spirito dovrebbe lavorare attraverso di voi.
La prima cosa da raggiungere è il distacco; il distacco comincia con il pensiero; se voi abbandonate il dominio che agisce su voi stessi (cioè il dominio del vostro ego e superego), entrate nel dominio dello Spirito.
Provate a sviluppare l’abitudine ad osservare le cose senza pensarci su, abituate la vostra mente a non reagire; dovete avere organi dei sensi che non reagiscono, perché devono reagire solo allo Spirito… poiché lo Spirito stesso è attivo, agisce di per Sé. Come potete constatare che le vibrazioni non parlano ma agiscono. Se voi potete ridurre l’effetto delle reazioni, allora evolvete molto più in alto.”

Discorso di Shri Mataji del 22 Aprile 1985
Il Mantra-seme è Mercurio; la divinità preposta è Sadasiva e la sua energia vitale è Sakini. L’elemento associato al quinto chakra è l’etere, altrimenti noto come Akasha o spirito. E’ al quinto chakra che affiniamo la nostra consapevolezza al punto da riuscire a percepire il sottile campo di vibrazioni noto come piano etereo. La voce umana esprime le informazioni che rendono possibile la comunicazione verbale. Oratori, autori, poeti, ma anche quanti si esprimono attraverso i mass-media si servono del potere della parola. Il suono è una forza che attraversa lo spazio che ci contiene attraverso vari tipi di frequenze che, proprio come lo spettro cromatico, sono captate solo in parte dai nostri sensi. Noi viviamo immersi in un oceano di onde sonoro-cromatiche e ad ogni vibrazione sonora corrisponde una frequenza cromatica. Il suono ha la capacità di creare modulando l’etere attraverso onde sonore che si spostano nell’atmosfera. 

Il presupposto indispensabile è un centro della laringe forte, che facilita la comunicazione e le relazioni basate sulla voce. Anche la capacità di apprendimento e concentrazione così come l’apertura verso le opinioni altrui sono di ricondursi al Vishuddha. In questo chakra si palesa il potere della manifestazione cioè la capacità di creare nella propria vita quello che si desidera. Si può modificare la realtà attraverso le ONDE DI SUONO veicolate dall’elemento ETERE. Tuttavia è necessario lavorare sull’allineamento tra mente, corpo e spirito affinché i nostri obiettivi appaghino tutti gli aspetti correttamente. Il rischio è quello di essere condizionati dall’accanimento verso una meta anche quando non è affine al nostro percorso. Ciò potrebbe impedire di cogliere le infinite possibilità che sono disponibili in ogni momento.

VIVEKANANDA, dice:
Secondo i filosofi indù l’intero universo è composto di due elementi, uno dei quali è chiamato AKASHA-Etere. Esso è l’esistenza onnipresente e onnipervadente. Tutto ciò che ha forma, tutto ciò che è composto proviene da esso. E’ l’Akasha-Etere che diventa aria, liquido, solido; e’ l’Akasha-Etere che diventa il sole, la terra, la luna, le stelle ,le comete; corpo animale, pianeta, ogni forma che noi vediamo, che sentiamo, che esiste .Ma in sé stesso questo elemento non può essere percepito; è così sottile che supera la normale percezione; può solo esser visto quando è diventato grossolano e ha preso forma. All’inizio della creazione esiste solo l’Akasha-Etere; alla fine , i solidi, i liquidi, i gas si dissolvono nuovamente nell’Akasha-Etere, da cui procede poi la creazione seguente.”
Tratto dal libro di ALICE A.BAILEY :L’Anima e il suo meccanismo

Il corpo vitale o eterico è il mezzo per cui si esprime la vita dell’anima”
Trattamenti e tecniche
Naturalmente non ci sono dei trattamenti che fanno uso dell’elemento Etere in sé, ma ci sono trattamenti che usano le vibrazioni che, come abbiamo visto, si propagano nell’Etere. In merito potete leggere e approfondire su” Come migliorare i chakra con le vibrazioni.”
Visualizzare l’azzurro per alcuni minuti al giorno . Coltivare e praticare sempre sincerità e verità. Scrivere i propri pensieri, leggere a voce alta, cantare, suonare e ascoltare musica, recitare mantra e preghiere. Molto utile anche lo studio dei simboli.
DESIDERIO di conoscenza
FORZA vibrazione
GHIANDOLE ENDOCRINE tiroide
ORGANO DI PERCEZIONE orecchio
SISTEMA NERVOSO plesso faringeo
QUALITA’ comunicazione e preghiera/mantra
SENSO PREDOMINANTE udito
SIMBOLI cerchio vuoto, mantra, l’onda, la voce interiore,
SOGNI sogni e visioni che riguardano il passato della razza umana, sogni profetici e rivelatori.
COLORE azzurro
Metatron è il Custode degli archivi Akashici che rappresentano la memoria universale, la Coscienza cosmica.

Affermazioni di riequilibrio
Io comunico, io mi esprimo.
Esprimo con sicurezza e precisione le mie necessità, emozioni, desideri, sentimenti, senza creare attriti ma migliorando le relazioni tra me e gli altri.



Paola Turrini -  turrinipaola@libero.it

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Elogio della natura selvaggia e della bellezza

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Ricorda, la bellezza è qualcosa che appartiene alla natura selvaggia. La bellezza non è mai addomesticata, nel momento in cui la addomestichi, diventa brutta. 
Non c’è modo di addomesticare la bellezza. La bellezza deve essere intrinsecamente selvaggia, perché fa parte della natura. 
Non è coltivata, è naturale. Ecco perché gli alberi sono così belli, gli animali sono così belli, gli uccelli sono così belli. È impossibile trovare un uccello brutto, o un cervo brutto. La natura è spontaneamente bella.
Solo l’uomo diventa brutto. E l’assurdo è che solo l’uomo cerca di essere bello. In quello sforzo per diventare bello, subentra la bruttezza. L’idea stessa di diventare bello dimostra che hai ammesso di essere brutto; l’idea stessa trae origine dalla condanna di te stesso. 
Una cosa è certa: una persona che cerca di essere bella ha ammesso la sua inferiorità, la sua bruttezza, la sua inutilità. E sta cercando di nasconderle, di coprirle, di migliorarle. 
L’uomo è l’unico animale che cerca di essere bello ed è l’unico animale brutto.
Quindi la prima cosa da ricordare nella vita è che più sei vicino alla natura – al suo aspetto selvaggio, all’oceano selvaggio, alle montagne selvagge, alla giungla selvaggia – più sei bello. Nella bellezza c’è gioia. E dalla bellezza nasce l’amore, dalla bellezza nascono l’espressione e la creatività.
Solo una persona bella può essere creativa, perché accetta se stessa. È così felice di essere se stessa, è così grata di essere se stessa, che da questa gioia, gratitudine e accettazione nasce la creatività naturale. 
Vuole fare qualcosa per dio, perché dio ha fatto così tanto per lei. Vuole dipingere un quadro, o comporre musica, o rendere questo mondo un po’ migliore, aiutare gli esseri umani a crescere. Vuole fare qualcosa, perché dio ha fatto così tanto per lei. 
Dalla gratitudine nasce la creatività: è la vera sorgente della creatività. Ma questo è possibile solo quando ti accetti, quando non cerchi di nasconderti dietro delle maschere, quando non cerchi di camuffarti, quando non generi una personalità, ma permetti alla tua essenza di dire la sua.
Gli animali non hanno una personalità. Non sto parlando degli animali domestici, che iniziano ad avere una personalità. Un cane selvatico non ha personalità, solo essenza, ma non appena il cane è addomesticato inizia a diventare politico, inizia a diventare diplomatico. Comincia a essere una persona, non è più un individuo, finge. Se lo picchi continua a scodinzolare per compiacerti: questa è personalità. Vorrebbe farti a pezzi, ma sa che tu sei il capo e conosce i suoi limiti. Sa che presto sarà l’ora di cena e sarà in difficoltà; sarà picchiato, punito. Conosce la sua impotenza, quindi crea una personalità, una maschera. Diventa falso, inizia a fingere, diventa civile, diventa educato e perde la bellezza.
La bellezza è selvaggia ed è vasta. L’oceano è selvaggio ed è vasto. Non riesci a vedere l’altra sponda. Non puoi mai vedere l’altra sponda della bellezza. Puoi sentirla, ma non puoi afferrarla. Non puoi stringerla tra le mani. Puoi viverla, puoi godertela, puoi immergerti in profondità, ma non sarai mai in grado di capirla; è insondabile, è immensurabile. La bellezza è oceanica, vasta, immensamente vasta. La bellezza ha profondità, proprio come l’oceano; e più è profondo, più è divino. Profondità significa divino. La profondità è la dimensione del divino.
Una persona civile vive in superficie: è un nuotatore, non un sub. Sa perfettamente come comportarsi sulla superficie. Conosce molto bene la superficie: i suoi modi, le sue maniere, l’etichetta e tutto il resto. Al di sotto c’è un’immensa profondità, ma la ignora.
La bellezza è profonda: più diventi pro­fondo, più sei bello. E poi la bellezza non è di questo mondo, perché la pro­fondità è la dimensione del divino. Più vai in profondità, più dal tuo nu­cleo più intimo inizia a sgorgare qual­cosa. La bellezza non è un make-up, è una sorgente. Il make-up è superficiale.
Ho letto di un uomo che disse al suo amico: “Ho scoperto il miglior contraccettivo del mondo”. L’amico chiese: “Che cos’è?” e l’uomo rispose: “Dico a mia moglie di togliersi il trucco. Quando si toglie il trucco non mi interessa più fare l’amore con lei”.
Quindi le persone fanno l’amore con il make-up? È esattamente ciò che sta accadendo: le persone fanno l’amore con la personalità, che è il trucco, che è solo un ornamento intorno a te, non sei tu. Quindi anche l’amore diventa brutto, superficiale, banale, non ha più la qualità della preghiera, dell’intimità, non ha più la qualità dell’eternità.
Quindi ricorda queste tre cose: la bellezza è selvaggia come un oceano selvaggio, la bellezza è vasta come l’oceano – non si vede l’altra sponda – e la bellezza appartiene alla profondità, mai alla superficie. Se raggiungi la bellezza, raggiungi la beatitudine, raggiungi la benedizione.
Questo è ciò che si definisce “prepararsi a dio”: diventare belli. 
Osho 
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Para-spiritualità e psico-analisi...

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Ho sempre avuto la sensazione, una specie di intuizione prelogica, che tra esperienza mistico/spirituale ed esperienza psicoterapeutica, soprattutto psicoanalitica, ci fossero delle analogie, delle omologie.
Di questa sensazione/intuizione ho avuto una piccola conferma leggendo tempo fa (su un numero de “il venerdì” de “la Repubblica”, quello uscito il 5 ottobre 2018) l’intervista rilasciata a Benedetta Craveri dal critico d’arte Jean Clair, che aveva organizzato a Parigi una mostra intitolata “Sigmund Freud. Dallo sguardo all’ascolto”.
Mostra che si proponeva di indagare il rapporto tra il padre della psicoanalisi e le immagini; e i motivi per cui questo rapporto ad un certo punto della vita di Freud si era interrotto per lasciare spazio sempre maggiore all’uso della parola.
Un passaggio dell’intervista mi aveva colpito in modo particolare. Benedetta Craveri chiede a Jean Clair: “Ma per quale motivo Freud smette di interessarsi alle immagini?
E Jean Claire risponde: “Freud prende progressivamente coscienza che la disposizione delle parole, l’uso della sintassi e del vocabolario ci dicono quanto e forse più delle immagini e rivelano la complessità della psiche”.
Ancora la Craveri: “Questa scommessa sulla forza salvifica della parola come unica fonte di verità va interpretata come un ritorno di Freud alla religiosità ebraica?
E Jean Clair: “La priorità data all’ascolto, il modo di conferire sempre dei significati a una parola ricordano in modo sorprendente quella saggezza talmudica a cui Freud ha fatto ritorno nei suoi ultimi anni di vita.
E’ ciò che avvicina non poco la psicoanalisi a un tipo di spiritualità ebraica e a un certo modo di leggere, ascoltare e interpretare le parole. La psicoanalisi comporta un passo indietro a favore del silenzio e dell’ascolto.
E, fatto su cui non si insiste abbastanza, questa presa di distanza dalla dimensione visiva è sottolineata dal fatto che l’analista non deve essere visto dall’analizzato…
Quante volte vediamo nei film la poltrona dello psicoanalista affiancata al divano?
E’ un errore madornale, perché la poltrona deve essere collocata dietro la testata del divano.
Ci è forse dato di vedere il volto di Dio?
Mosè si vela la faccia davanti al roveto ardente.
Dio ha una voce, non un volto.
In un certo qual modo la psicoanalisi ripete questo meccanismo”.
A partire anche da questa riflessione di Jean Claire, vorrei provare ad argomentare le ragioni che mi portano a vedere delle analogie, a mio avviso forti, profonde, tra l’esperienza spirituale in generale, quella mistica in particolare e la terapia psicoanalitica.
La prima analogia che mi viene in mente è che entrambe queste esperienze, quella mistica e quella psicoanalitica, costituiscono un percorso, un cammino, non esteriore e materiale ovviamente, ma interiore: spirituale, appunto.
In cosa consiste questo percorso? Nell’entrare in contatto con il proprio mondo pulsionale (come direbbero gli psicoanalisti), con le proprie passioni e i propri istinti animali (come direbbero i mistici), prenderne consapevolezza, non tanto per negarli (anche se i mistici a volte fanno anche questo, ma questi sono i cattivi mistici), quanto per trascenderli in nome del “principio di realtà” (dicono gli psicoanalisti) o dell’amore per Dio (dicono i mistici).
Famosa è la frase di Freud per identificare questo tragitto/percorso: “Laddove c’era l’Es ci sarà l’Io”.
Laddove per “Es” possiamo intendere il mondo inconscio dei desideri e degli istinti e per “Io” il mondo inconscio che è diventato (almeno in parte) conscio, ha preso atto della realtà ed ha trovato una (più o meno) equilibrata mediazione tra “il principio del piacere” (da cui è dominato l’Es) e “il principio della realtà” (istanza che caratterizza tipicamente l’Io).
La frase di Freud potrebbe essere parafrasata da un mistico in questo modo: “Laddove c’era l’Es ci sarà Dio”.
Laddove per “Es” possiamo intendere esattamente le stesse cose che intende la psicoanalisi (cioè le passioni, gli istinti animali) e per Dio la voce della nostra coscienza, che è più intima a noi di noi stessi, che ci fa vedere non solo ciò che istintivamente siamo portati a desiderare (questo è l’Es) ma anche ciò che è/sarebbe meglio per noi e per quelli che ci circondano.
La seconda analogia che vedo è questa. Il percorso della psicoterapia psicoanalitica è in fondo null’altro che un cammino di formazione, un addestramento progressivo a prendere contatto con l’Altro da Sé, con il proprio Maestro o demone interiore.
Chi va dallo psicoanalista è afflitto da questa incapacità fondamentale: non sapersi guardare dentro, non riuscire a gestire le proprie pulsioni ed emozioni o perché queste gli prendono troppo la mano o perché egli le frustra, reprime, esageratamente, se non totalmente.
Nella terapia psicoanalitica l’Altro da Sé è, soprattutto nella fase iniziale ma anche in quella intermedia, un altro in carne ed ossa. E’, infatti, lo psicoanalista, col quale il paziente attiva una vera e propria dinamica di identificazione (il famoso transfert).
Solo nella fase finale della psicoterapia, il paziente riesce a introiettare dentro di sé l’analista e diventa analista di se stesso. A questo punto può camminare da solo, perché ha imparato a riconoscere l’Altro da Sé dentro di sé.
Il percorso mistico, a pensarci bene, non è molto diverso. Il mistico è uno che consapevolmente cerca Dio, in realtà è attratto dal mistero profondo che è rappresentato dall’esistenza umana e cerca una risposta alla domanda di senso che tutti ci poniamo.
Ricercando Dio in realtà egli cerca se stesso o, meglio, l’Altro da Sé, che è la parte più profonda e intima di ognuno di noi. Senza l’Altro nessun colloquio interiore è possibile.
Nell’esperienza mistica, all’inizio, l’Altro da Sé assume (o, meglio, può assumere; ci sono anche mistici che ne fanno subito a meno) le sembianze del Dio esterno a sé o di un Maestro di vita in carne ed ossa.
Più, però, la sua vita spirituale va avanti, più cresce e si affina, più il Dio esterno diventa interno, si interiorizza. Dio e l’Altro da Sé si fondono e alla fine resta (può restare) solo l’Altro da Sé, come guida e maestro interiore.
Ed ecco la seconda analogia che volevo mettere in evidenza: come il paziente, ad un certo punto della psicoterapia, può fare a meno dell’analista, così il mistico ad un certo punto del suo percorso spirituale può fare a meno di Dio, perché Dio abita oramai in lui, non è più fuori di lui, è stato da lui introiettato.
La terza analogia mi viene suggerita dall’intervista, di cui ho riportato integralmente il passaggio da cui ha tratto spunto questa mia meditazione.
Dio non ha un volto, ha solo una voce. E Gesù, infatti, viene presentato da Giovanni (nel prologo, versetto 1 del suo Vangelo) innanzitutto come Verbo, cioè Parola, quindi come Voce che parla, come Maestro. “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”.
Lo psicoanalista, anche lui, più che un volto, è una voce. Tanto è vero che (quasi) si nasconde al paziente, si fa vivo solo con la parola, quasi a sottolineare il primato della parola su quello del volto.
Anzi, a dire il vero, lo psicoanalista tende a parlare il meno possibile per cedere il più possibile la parola al paziente, perché il paziente impari a parlare sempre di più e sempre meglio con se stesso, anzi con l’Altro da Sé.
Il mistico cerca per definizione qualcuno che è invisibile. Ma, in fondo, anche il paziente in terapia cerca qualcuno che è invisibile.
Non solo (e, a dire il vero, non tanto) perché il terapeuta si nasconde dietro il divano su cui è sdraiato il paziente (come sostiene Jean Clair). Ma perché colui che cerca il paziente non è una realtà che vive fuori di lui, bensì è una persona che abita in lui, è lui stesso, il vero se stesso.
Credo e spero di aver dato qualche dimostrazione della tesi da cui sono partito: c’è una profonda e significativa analogia tra il percorso psicoterapeutico e quello spirituale-mistico.
Giovanni Lamagna

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Etere, l'elemento onnipervadente



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È il più sottile dei 5 elementi, quello più impalpabile, più etereo E' l'elemento onnipresente che tutto pervade, è la dimora degli altri quattro elementi, è lo spazio che separa i differenti oggetti e ne permette la varietà. Nel corpo rappresenta gli spazi vuoti, come ad esempio nel tratto intestinale, nei vasi linfatici e sanguigni, negli spazi intercellulari, nei polmoni. La materia in realtà è vuota al suo interno; se si potesse comprimere l'uomo eliminando completamente tutti gli spazi vuoti si otterrebbe un granello di sabbia quasi invisibile, che continuerebbe però a pesare 70 kg (cit. Piero Angela). 

Dei cinque sensi, l'unico che percepisce lo spazio è l'udito, perché è nello spazio che si propaga il suono. Il suono Om (aum) è secondo i Veda il suono primordiale che ha dato origine all'universo, così come nella Bibbia l'origine è descritta attraverso il Verbo di Dio. Anche la scienza attribuisce la nascita dell'universo ad un suono: il Big Bang. Il suono, la vibrazione è una presenza molto forte nella nostra vita e nella nostra emotività; proprio perché il corpo è per la maggior parte costituito da spazio vuoto, ed è in questo spazio che si propaga la vibrazione, influenzando notevolmente tutto il nostro sistema. Possiamo dire che anche se l'orecchio è l'organo che percepisce e riconosce i suoni, la vibrazione la sentiamo in ogni parte del corpo.

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I suoni ci coinvolgono completamente influenzandoci in maniera positiva o negativa.

Pensiamo a quanto ci può irritare un suono sgradevole, o un tono di voce aggressivo, o parole scortesi; al contrario ci rilassa un suono melodico, o ci consola una voce dolce o delle parole comprensive. Cerchiamo di fare attenzione ai suoni che ci circondano spegniamo la tv quando non ci interessa, non prestiamo attenzione ai pettegolezzi, non ascoltiamo discorsi violenti ed omofobi, e allo stesso tempo stiamo attenti ai suoni che emettiamo alle parole al tono di voce che creeranno o modificheranno positivamente o negativamente l'energia attorno a noi. 

Spendiamo un po' del nostro prezioso tempo all'ascolto del silenzio, del vuoto, dello spazio; all'inizio sarà difficile, non siamo abituati, anzi cerchiamo sempre di riempire gli spazi, i silenzi, perché il vuoto ci fa paura, crea ansia. Impariamo a vivere questo elemento sottile, soffermiamoci a guardare il cielo ad ascoltare il suo silenzio e lentamente ci allontaneremo dall'attaccamento ossessivo alla materia e inizieremo a vivere un senso di leggerezza, di pace, di libertà che ci porterà ed elevare la nostra spiritualità.

Paola Turrini - turrinipaola@libero.it

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La compassione buddhista o l’amore cristiano...?


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Molti considerano il concetto buddhista di “compassione” e quello cristiano di “amore” quasi omologhi, come se essi si riferissero a due esperienze molto affini.
Io ritengo, invece, che non solo i due concetti siano parecchio diversi, ma che soprattutto corrispondano a due esperienze molto diverse.
La compassione è l’atteggiamento – soprattutto emotivo/affettivo – che mi porta a condividere il tuo dolore, anzi la tua stessa condizione umana, che è una condizione di fondamentale sofferenza. Provare compassione vuol dire, in altri termini, sentirmi vicino al tuo dolore, alla tua sofferenza.
L’amore è, invece, l’atteggiamento – anche questo soprattutto emotivo/affettivo – che mi porta a provare non solo solidarietà per la tua sofferenza, ma mi spinge anche a desiderare per te il massimo di felicità possibile e a darmi da fare, adoperarmi, perché tu la possa sperimentare.
L’amore, quindi, per me è qualcosa in più della compassione.
La compassione si fonda su una concezione fondamentalmente pessimistica dell’esistenza, secondo la quale la vita è essenzialmente, principalmente, strutturalmente dolore, sofferenza.
Il dolore della nascita, che avviene nelle sofferenze del parto e dà origine alle sofferenze future della vita.
Il dolore della vecchiaia, che ci fa sentire l’avvicinarsi della morte e ci fa quindi sperimentare con forza la “impermanenza”, cioè la fuggevolezza, la non durata eterna della vita.
Il dolore della malattia, causato dagli squilibri che vengono a crearsi talvolta nel nostro corpo, fino a quello finale che ne causa la dissoluzione e , quindi, la morte.
Il dolore della morte, generato dalla perdita della vita.
Il dolore causato dall'essere vicini a ciò che non "piace".
Il dolore causato dall'essere lontani da ciò che si "desidera".
Il dolore causato dal non "ottenere" ciò che si "desidera".
Il dolore causato dai cosiddetti cinque “aggregati”, ovvero dalla loro unione e dalla loro separazione. I cinque aggregati sono: il corpo, le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza.
L’amore cristiano si fonda su una concezione del mondo e della vita che non è certo del tutto e banalmente ottimistica, ma non è neanche del tutto e cupamente pessimistica.
Per il cristiano che ama (e non prova solo compassione) la vita non è solo dolore, ma può essere anche gioia e, in alcuni momenti almeno, perfino felicità.
Basti citare il passo del Vangelo di Matteo 6,25-34 (il primo che mi viene in mente):
«Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro? E chi di voi può con la sua preoccupazione aggiungere un'ora sola alla durata della sua vita? E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro. Ora se Dio veste in questa maniera l'erba dei campi che oggi è, e domani è gettata nel forno, non farà molto di più per voi, o gente di poca fede? Non siate dunque in ansia, dicendo: “Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?" Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più. Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno».
Non ci sono dubbi: anche in Gesù è presente un discorso che invita al distacco. Ma il distacco di cui parla il Vangelo è un distacco dalle preoccupazioni e dalle ansie della vita, pieno di fiducia nella vita. Che invita a goderne e non a disprezzarla. A non rovinarsene la gioia e il godimento a causa delle ansie e delle preoccupazioni.
Ben distante, dunque, dal distacco ascetico e cupo del Buddha, che considera la vita essenzialmente dolore e sofferenza e quindi invita i suoi seguaci a separarsene mentalmente, fino a raggiungere il Nirvana, che è assenza di sofferenza, non certo pienezza di gioia e felicità: realtà che per il Buddha non sono esperibili dall’uomo.
I due diversi modi di guardare e considerare la vita hanno delle profonde e rilevantissime ricadute nel modo con cui essi suggeriscono di guardare agli altri e di rapportarsi a loro.
Per Buddha gli uomini si devono rapportare ai loro simili con un atteggiamento di compassione per la loro sofferenza. Che vuol dire provare empatia e condivisione del loro dolore strutturale, fondamentale: non c’è altro da condividere.
Per Cristo, invece, come la sua stessa vita ha mirabilmente testimoniato, si tratta di condividere con gli altri gioie e dolori: le gioie della festa e dell’amicizia fraterna e i dolori della malattia e della morte. E in questo consiste l’amore.
Che è dunque cosa ben diversa dalla semplice compassione.
La concezione del Buddha è triste e cupa e spinge fondamentalmente alla rinuncia alla vita, alla rassegnazione, via, via sempre più consapevole, ad un destino di morte. Buddha è come se dicesse: più ci si rassegna e prepara al dolore e alla morte, meno se ne soffrirà, quando il dolore e la morte sopraggiungeranno per noi.
La concezione di Gesù è, invece, luminosa, gioiosa, perfino allegra. Anche egli parla di distacco. Ma dalle ansie e dalle preoccupazioni eccessive o addirittura inutili (potremmo perfino dire dai fantasmi di morte, cui sono legate le nostre nevrosi). Non certo dalle gioie e, perfino, dai piaceri che la vita può regalarci.
Tra i due messaggi, quello di Buddha e quello di Gesù, personalmente, preferisco (e di gran lunga) quello di Gesù.
Giovanni Lamagna
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Solstizio invernale. L'avvento del cristianesimo e la storia manipolata


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Siamo ormai vicini alla festività di Natale, fervono i preparativi per la vigilia, cene, pranzi luculliani ci aspettano e poi brindisi e regali, ecc. ecc. E per i cattolici anche funzioni religiose. Ma aldilà dell’attesa del Natale quanti di voi si sono mai chiesti l’origine di questa festa, chi è stato ad inventarla e quando è comparsa per la prima volta? In questo breve servizio cercheremo di dare qualche risposta, di sfatare luoghi comuni e sconfessare fake news storiche, il tutto, come sempre in nome della verità. 

Cominciamo a dire che, ancora prima del Cristianesimo, gran parte delle popolazioni indoeuropee celebravano con vari riti il Solstizio d’Inverno perché rappresentava la fine dei giorni più bui e l’inizio di quelli con più luce. Questo evento astronomico (2 volte l’anno in Inverno e in estate) cadeva e cade sempre tra il 21 e il 22 di dicembre (quest’anno alle ore 4,19 del 22 dicembre). Quindi tra il 20 e il 27 di dicembre si celebrava in molte antiche culture questo rito. Nell’antica Roma alle radici del Natale c’è proprio una festa dedicata al Sole, ed esattamente al Sol invictus, l’astro invitto (invincibile), che ancora una volta sconfiggerà le tenebre a beneficio della luce del Sole. 

Ma ancora prima va menzionato il calendario celtico dove alla fine del giorno più breve dell’anno, si effettuava la festa di Yule (21 dicembre), notte in cui la dea della fertilità partoriva nel ventre della terra colui che, nel corso del ciclo annuale, sarebbe diventato il dio della luce e suo nuovo compagno. 

Nell'antica Roma, prima e subito dopo il solstizio invernale (pensiamo tra il 17-23 dicembre) era usanza scambiarsi regali, come facciamo noi oggi, tra parenti e conoscenti e imbandire festosi banchetti. Si celebrava così la festa dei Saturnali, dedicata al dio dell'agricoltura, Saturno. Una curiosità che pochi conoscono: in quei giorni di festa era prevista anche un'inversione di ruoli tra schiavi e padroni, a rappresentare l'antico stato di uguaglianza tra gli uomini. A partire dal I secolo d.C. a Roma, e soprattutto nelle province dell’impero, era adorato il dio Mitra, una divinità accompagnata dal simbolo del Sole, originaria dell’India e poi approdata definitivamente in Persia. 

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La sua comparsa nel mondo dei culti religiosi, gli studiosi l’attribuiscono intorno al 1400 a.C. – Il mitraismo come religione fu subito accolta e professata dai soldati e da dignitari del senato romano. Il Cristianesimo intanto muoveva i suoi timidi passi nel mondo e cominciava a diffondersi soprattutto nei territori meridionali dell’impero romano. Era comunque un movimento religioso malvisto soprattutto dagli ebrei che non riconoscevano la figura di Gesù come Messia, perché per loro (ancora oggi) quello vero doveva ancora manifestarsi. 

I romani, che tolleravano gran parte dei culti religiosi, questa nuova religione fu da questi inizialmente l’ignorata. Questo fino al 64 d.C. poi, a seguito del disastroso incendio di Roma, dove la comunità cristiana era ancora tollerata, fini per essere perseguitata. Qui è doveroso, sulla base di nuovi interessanti studi degli storici, sfatare la favola che fu l’imperatore Nerone a dar fuoco alla città. E’ dimostrato infatti che da molti giorni si trovava ad Anzio e non sul Palatino a godere delle fiamme che divoravano Roma, come invece scrisse più tardi Svetonio (70/75 d.C.-140/150) che è risaputo disprezzava l’imperatore Nerone. 

Da alcuni recenti scavi si sono trovate testimonianze scritte che ci dicono come le frange più estremiste dei cristiani abbiano commesso l’errore di manifestare in pubblico la gioia per il disastroso incendio che, secondo loro, fu mandato dal Signore perché Roma si era moralmente imbarbarita come a suo tempo fu Sodoma. Da qui l’inizio delle persecuzioni verso i cristiani e questo a causa dell’improvvida posizione di alcune frange intransigenti di cristiani. Tuttavia, imprigionati 300 cristiani e giustiziati oltre la metà perché accusati di aver appiccato il fuoco, la persecuzione terminò. 

A testimonianza di ciò, Paolo, il leader dei cristiani a Roma, poté continuare la sua predicazione e nessuna conseguenza ci fu per i cristiani delle province. E poi in seguito, durante il governo di Nerone, non fu varata nessuna legge che 17 proibisse ai cristiani di professare la propria fede. Le persecuzioni vere e proprie invece cominciarono con Domiziano (81-96 d.C.), e proseguirono con Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio, Settimio Severo, Massimino, per assumere, con Diocleziano, le forme del genocidio. 

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Tralasciamo una parte della storia romana e arriviamo a Costantino, perché senza la scelta fatidica dell’imperatore Costantino (280-337 d.C.) forse il cristianesimo non avrebbe avuto la popolarità e diffusione che oggi conosciamo. In quel periodo a Roma e nelle sue province esistevano molti culti e confessioni religiose, alcuni radicati in Egitto ( Il culto di Iside), in Persia, in Palestina ( L’Ebraismo) e infine provenienti dai popoli nord europei, tra cui il Druidismo. Tra tutte queste Costantino scelse di privilegiare il culto cristiano, successivamente suggellato nell’Editto di Milano del 313 d.C.. 

Per gli studiosi questa scelta fu sollecitata da sua madre Elena che, convertitasi al cristianesimo, spinse il figlio ad elevare questa nuova religione al vertice di tutte le altre. Senza questo intervento forse la religione di Stato sarebbe stata un’altra. Costantino, dopo aver scelto il cristianesimo, con l’aiuto di intellettuali e saggi dell’epoca che lo assistevano intellettualmente, cercò di realizzare un percorso intelligente e indolore nel tentativo (ben riuscito!) di sostituire i simboli di altre religioni con quelli della nuova religione. Il culto di Mitra nel I secolo d.C. si era già diffuso a Roma, soprattutto come culto guerresco praticato dai legionari. I più antichi santuari del dio risalgono al II secolo. Nel III secolo d. C., ci fu la fusione di Mitra con il simbolo del Sol Invictus e il mitraismo iniziò a ridimensionarsi, sopraffatto dal più potente culto solare. 

Sembrava quindi che l’adorazione al Sole (Sol Invictus) avrebbe oscurato tutti gli altri culti e si sarebbe trasformato in un culto ufficiale dell’impero romano. Fu l’imperatore Aureliano (270 d.C.), la cui madre era una sacerdotessa del Sol invictus, ad elevarlo a prima religione, infatti fece costruire un tempio al Sole e fondò una casta sacerdotale allo scopo di attribuire maggiore ufficialità al culto dell’astro dispensatore di vita. Ma successivamente Costantino, avvertendo che tutto l’impero cominciava a scricchiolare e, quindi, era necessario trovare una religione capace di evitare squilibri geopolitici interni, scelse il Cristianesimo. La figura di Cristo secondo l’imperatore e secondo i dotti che lo assistevano intellettualmente finì per sostituire proprio su Mitra. Vediamo perché: Anche Mitra, come Gesù, era stato mandato sulla terra dal padre per combattere contro il Male; anche Mitra era nato da una vergine di nome Anahita, miracolosamente fecondata dal dio Ariman (Anche Krishna nell’Induismo è partorito da una vergine e chi la feconda compare sotto forma di luce), Mitra nasce il 25 di dicembre dentro ad una grotta; anche lui era attorniato da dodici seguaci; anche Mitra celebrò con essi l’ultima cena prima di morire; anche Mitra resuscitò dal regno dei morti; anche il culto di Mitra parlava di inferno e cielo, di giudizio universale; anche il giorno dedicato a Mitra era la domenica; anche il gran sacerdote del culto di Mitra veniva chiamato papa e portava il copricapo frigio di colore rosso, un mantello rosso, un anello e un bastone pastorale; anche gli iniziati al mitraismo praticavano un rito di consumazione di pane, vino e acqua. Quindi una perfetta opera di sovrapposizione ad un culto più antico. 

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Geniale la scelta della data di nascita del Gesù, in questo modo si assorbivano tutti gli antichi riti pagani legati al solstizio d’inverno, non solo, ma si dava un taglio deciso a tutte le interpretazione delle varie correnti cristiane che dissentivano tra di loro sulla data di nascita del Cristo. I Basilidiani ad esempio ne celebravano la natività tra il 6 e il 10 gennaio, i Cristiani egizi tra il 19 e il 20 aprile o altri il 28 marzo, in cui si pensava fosse stato creato anche il sole. 

Perciò, grazie a Costantino, che nel 325 d.C. indisse a Nicea il I° Concilio Ecumenico della Chiesa, il Cristianesimo diventò  religione riconosciuta  dell’impero Romano e poi, con Teodosio (380 d.C.) l’unica religione dell’Impero autorizzata. Da quel momento il 25 di dicembre diventa la data officiale del Natale. Potremmo parlarne ancora, aggiungere fatti e storie inedite, enigmi svelati sul Natale, ma ci fermiamo qui, perché riteniamo che sia per il momento abbastanza quanto fin qui scritto, ma ne riparleremo…

Filippo Mariani - A.K. Informa n. 50

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