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Agro Falisco - Esempio di bioregione culturalmente omogenea

Vista della valle del Treja da Calcata

Ricordo che abitando a Calcata,  la culla della civilizzazione falisca, ed avendo da poco contribuito alla fondazione della Rete Bioregionale Italiana, mi cimentai nel tentare di individuare la mia bioregione di appartenenza, considerando sia l'aspetto storico che geomorfologico. 

Infatti sapevo che negli USA, dove il concetto bioregionale era riemerso in seguito ad una presa di coscienza sull'identità dei luoghi, si interpretava il bioregionalismo più che altro in termini geografici, facendo combaciare i "limiti" bioregionali con quelli di un habitat naturalistico, un bacino fluviale, una pianura, un deserto, una montagna.. etc.  

Ovviamente la nostra matrice europea e la considerazione del Genius Loci di una specifica area fece sì che l'individuazione del territorio bioregionale in cui mi riconoscevo avesse sia le caratteristiche di uno specifico territorio caratterizzato da rocce tufacee, vegetazione e fauna, corsi d'acqua, etc,  ma soprattutto contraddistinto da una originale civiltà storica, quella dei Falisci. 

Quello che segue è un testo discusso e commentato durante un incontro bioregionale tenuto a Faleria, verso l'autunno del 2008, in cui si parlava tra l'altro della formazione di un "parco culturale  dell'Agro Falisco", un tema che era stato dibattuto in varie sedi e da parecchi anni (a cominciare dalla fine degli anni '70) in vari incontri tenuti a Calcata, a Civita Castellana, a Nepi, a Campagnano, etc.

La culla della civilizzazione falisca.

A valle della stretta di Orte, dopo aver ricevuto le acque del Nera, il fondovalle del lume Tevere si allarga gradatamente e, prima di compiere la grande ansa che si è dovuto aprire intorno al monte Soratte, viene accresciuto, quasi nello stesso punto, a sinistra dal torrente Aia ed a destra dal Treja. Questo luogo per secoli ha rappresentato il crocevia di due importanti civiltà italiche, quella Falisca e quella Sabina. Tutta l’area è dominata dalla massiccia presenza del Soratte, una montagna ritenuta sacra, che si solleva unica ed atipica, con il bianco del suo calcare, nel piatto paesaggio vulcanico che la circonda. Questa era la sede del Dio Soranus, l’antico nome di una divinità solare, che dall’alto protegge tutto l’Ager Faliscus.

I Falisci sono una popolazione di origine indoeuropea che prosperarono nell’area bagnata dal fiume Treja e dai suoi affluenti. Questo complesso sistema di corsi d’acqua forma un bacino idrografico piuttosto ampio che, infatti, coincide con la regione anticamente conosciuta come “Agro Falisco”.

Questo territorio è geograficamente delimitato da una serie di colline che si aprono verso nord-est. La parte interiore del bacino ha un andamento Est-ovest, mentre la parte più alta tende verso Nord-est. È in questo settore che si trovano i rilievi maggiori. quali la macchia di Monterosi (mt. 430), Il Monte Roccaromana (mt 812) ed il Monte Calvi, tutti appartenenti all’apparato vulcanico Sabatino; mentre Poggio Cavaliere (mt 809). Poggio Maggiore (mt. 622) ed il Monte San Rocco (mt. 700) fanno parte del complesso Vicano. Nella parte interiore del suo bacino il Treja scorre essenzialmente verso Nord, seguendo in senso inverso la direzione del primordiale percorso del Tevere (Paleotiber) mentre in prossimità di Civita Castellana cambia bruscamente direzione volgendosi a confluire nel Tevere.

Amministrativamente il bacino del Treja è compreso fra le due province di Roma (Rignano Flaminio, Sant’Oreste, Magliano Romano, Mazzano Romano, Campagnano di Roma, Sant’Oreste, Morlupo, Capena, ed altri) e Viterbo (Bassano Romano, Calcata, Capranica, Faleria, Corchiano, Caprarola, Castel Sant’Elia, Civita Castellana, Sutri, Monterosi, Nepi, Ronciglione, ed altri), complessivamente la popolazione residente nell’intero bacino è di circa 200.000 abitanti e la sua estensione è di poco più di 700 chilometri quadrati. Probabilmente questa è la ragione che ha permesso la conservazione degli ecosistemi vegetali delle forre del Treja, aree troppo impervie e di difficile utilizzazione agricola.

Le formazioni vegetali tipiche sono rappresentate da una mescolanza di alberi a foglie caduche e di sempreverdi, definite dai botanici come boschi di transizione di querceti misti. Nel nostro caso alla presenza dei querceti misti è connessa una situazione di microclima locale determinato dalla particolare situazione orografica e del suolo. Gli alberi di questi boschi sono per la parte sempreverde il leccio e per la componente caducifoglia la roverella, il ceno, il tarpino nero e l’acero campestre. Nella spalla di tufo, libera da vegetazione, nidificano i passeri, mentre il gatto selvatico riposa al sole di piccole radure. Nelle cavità ricoperte di edera e vitalba si trovano i nidi dell’allocco e del gufo e la tana invernale del gufo.

I ruderi abbandonati o le grotte offrono riparo ai tassi ed alle volpi.

Nel fori dei muri nidificano i barbagianni mentre le cime dei grandi alberi e le crepe delle rocce più ripide permettono ai rapaci, come il falco lanario, di nidificare. Le acque limpide di alcuni fossi ospitano il bel gambero di fiume, che ancora si nasconde sotto i massi di tufo ed è una preda notturna della puzzola. Ma la fauna è sempre più messa a repentaglio da una dissennata utilizzazione del territorio che non risparmia nell’uso di fertilizzanti, anticrittogamici ed insetticidi e diserbanti, mentre l’edilizia induce a tagliare sempre nuove fette di territorio vergine. È per tutti questi motivi che dalle associazioni protezioniste, soprattutto la Legambiente di Civita Castellana ed il Comitato per l’Agro Falisco di Calcata, giungono continue sollecitazioni per arrivare ad un ampliamento dell’area protetta, allargandola a tutte le forre del bacino del Treja.

Tutto questo territorio è oggi sede di importanti attività umane. L’utilizzazione prevalente è quella agricola. Le attività industriali sono concentrate nell’area che gravita attorno al comune di Civita Castellana. Altra attività caratteristica è quella estrattiva, con la presenza di numerose cave di tufo, che in alcuni casi hanno modificato radicalmente l’assetto originario del paesaggio.

Per quanto riguarda gli aspetti colturali si ha una netta divisione fra la parte alta del bacino, in cui prevalgono i noccioleti e castagneti, e quella inferiore con i prati-pascoli e seminativi. Un po’ ovunque sono distribuiti oliveti e vigneti.

Nel territorio di Nepi, dove maggiore è la disponibilità di acqua superficiale, è particolarmente praticata l’orticoltura. La ceramica è l’attività industriale più diffusa, una tradizione che si ricollega alla grande quantità di oggetti in terracotta rinvenuti sin dal periodo falisco, ma oggi essa è fonte di grave inquinamento, provocato dai residui chimici degli impasti e dei colori, tra cui desta preoccupazione la presenza di piombo e cadmio. Infatti, malgrado gli impianti debbano essere dotati di depuratori, spesso questi non funzionano a dovere o addirittura non vengono nemmeno azionati.

Di conseguenza si possono incontrare nei fossi che confluiscono nel Treja grandi chiazze giallastre o bianche. C’è da dire però che il maggiore danno ambientale viene causato dagli scarichi civili dei numerosi centri urbani, in quanto le loro reti fognanti scaricano nel fiume senza essere minimamente depurate. Tuttavia anche se questo territorio è considerato un ambiente fortemente antropizzato si rinvengono ancora formazioni vegetali di tipo forestale, per lo più localizzate nella parte centrale del bacino del Treja, dove i corsi d’acqua, incidendo profondamente i depositi vulcanici, danno origine ad una serie di forre, che rappresentano un’unità morfologica di grande interesse naturalistico. 

Su queste ruvide pareti tufacee sono state scolpite le necropoli e le dimore rupestri che sono la caratteristica del paesaggio dell’Agro Falisco, infatti i Falisci trasformarono le rupi in schiere di facciate architettoniche. L’esecuzione di scavi nella roccia tufacea ed il suo uso particolare ha rappresentato un archetipo che servì come modello per le popolazioni avvicendatesi sul territorio. Il primo vero e proprio insediamento arcaico, la mitica Fescennium, è una città policentrica (risalente al 1200 a.C.) che è stata localizzata fra Narce, Pizzopiede e Monte Lisanti, proprio sulle rive del Treja, in un’area che attualmente ricade nei comuni di Calcata e Mazzano Romano. È perciò da qui che ebbe origine la tribù dei Falisci ed è qui che, con decreto regionale del Lazio del 1982, fu costituito il primo lembo dell’area protetta delle forre, denominato Parco suburbano della Valle del Treja. Invero l’Agro Falisco pullula di siti naturali, adatti alla edificazione, infatti molti sono i centri fortificati che punteggiano questo territorio.

Falleri (l’attuale Civita Castellana) fu la città più popolosa, anche se non assurse mai al ruolo di capitale, essendo la civilizzazione dei Falisci costituita in federazione di libere città stato. Altri centri importanti furono Nepet (Nepi), Sutrium (Sutri) e la già nominata Fescennium (Narce).

L’identità culturale del popolo falisco, anche dopo la definitiva conquista romana avvenuta nel 241a.C., rimase sotto fora di religione di cui Giunone Curite (Dea della fertilità) era la massima espressione. Durante il periodo romano il bacino del Treja fu attraversato dalla via Amerina che, all’altezza dell’attuale Monterosi deviava in direzione di Amelia (Umbria) edè lungo questa direttrice che si spostò la maggior parte della popolazione e delle attività. Fu durante le invasioni barbariche che le genti l’Agro falisco ripresero ad occupare i siti ben protetti del periodo pre-romano e nacquero così centri come Castel Porciano, Filissano, Stabia ed in particolare Castel Paterno (attualmente nel territorio comunale di Faleria) dove l’imperatore Ottone III stabilì la sua residenza nella speranza di restaurare il Sacro Romano Impero, ed i due centri storici di Calcata e Mazzano Romano, attualmente inseriti nel Parco del Treja. 


La struttura urbanistica di questi abitati era, ed è, molto semplice: una o due vie mediane longitudinali attraversate da più strette vie trasversali; al centro, la piazza grande con la chiesa, il municipio e le abitazioni dei nobili; all’estremità della parte accessibile era collocato il castello: come baluardo difensivo sormontato da una torre di avvistamento. Infatti in epoche di grandi sconvolgimenti era più sicuro abitare in posti piccoli ed isolati mentre in epoche con stabilità economica è più agevole abitare lungo le grandi vie di comunicazione. Ciò che è un ricordo del passato è facilmente verificabile ed attuale anche oggi.  
(Fonti storiche da saggi di Paolo Portoghesi, Gianluca Cerri e Gilda Bocconi)


Paolo D’Arpini

Il mito della felicità per "legge" e l'entusiasmo filosofico e civile dei padri americani


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Nella Dichiarazione d’Indipendenza americana  del 1776 un gruppo di uomini  presi da  “entusiasmo” filosofico e civile,  concepirono un diritto mai affermato prima: il diritto alla felicità. “L’uomo ha diritto alla felicità,  è una di quelle epigrafi scritte nei cieli, un grido di libertà destinato ad echeggiare per sempre nel concerto universale della storia umana", scrisse un idealista.   La cosa fa il paio  con  l'inneggiare solenne dei rivoluzionari francesi  del 1789 che chiedevano "Libertà, uguaglianza e fraternità".

Ogni diritto idealmente sancito  ha però un senso se può essere esercitato in totale libertà. Eppure Goethe disse “Nessuno è più schiavo di chi si ritiene libero senza esserlo”. Questa affermazione del massimo filosofo e poeta tedesco dovrebbe farci riflettere sull'assiona "libertà e diritto alla felicità".

Tanto per cominciare occorre chiedersi cosa sia la felicità e cosa sia la libertà. Questi due concetti ricorrono spesso nelle filosofia orientali ma assumono significati diversi rispetto a quelli che vengono assegnati dal pensiero razionalistico occidentale. Nelle filosofie orientali la felicità   è vista come  la conseguenza di un ottenimento o di un godimento prolungato, una soddisfazione mentale, uno stato di benessere comunque legato alla condizione psicofisica. Infatti la vera gioia, priva di attributi o cause,  in India è chiamata "ananda".

Ananda,  come intensità e durata è di molto superiore  alla felicità,  è lo stato  in cui il sé riconosce se stesso in se stesso, non è quindi il risultato di un condizionamento o di un perseguimento ma rappresenta il continuo permanere della coscienza/consapevolezza della  propria intima natura. Il termine occidentale  più prossimo a questo stato è la  "beatitudine",  che  emerge spontaneamente allorquando si realizza la  nostra natura divina.  


Quindi la felicità, di cui  si parla nella dichiarazione d'indipendenza USA, è semplicemente un diritto sociale, l'affermazione  a  poter perseguire un appagamento, una condizione benestante,  cercando in tutti i modi un soddisfacimento attraverso azioni  in accordo con  quei legittimi  stimoli e desideri che ci contraddistinguono.  Questo diritto si pone su un piano leggermente più elevato della ricerca del  "piacere" ma rientra sempre nella sfera del perseguibile per mezzo di uno sforzo e con una precisa determinazione mentale.

Ma dal punto di vista "spirituale" o dell'auto-conoscenza tale ricerca della felicità può persino essere vista come un impedimento al sorgere della  "vera gioia". La felicità è inutile, dipende dall’infelicità, mentre la  gioia la  trascende, essendo al di là della dualità dell’essere felice o infelice.

Dal punto di vista buddista non si parla mai di ricerca della felicità bensì di estinzione della sofferenza. Ovvero l'attenzione è rivolta verso la cancellazione della struttura mentale (ego)  che è causa della sofferenza umana. Nella  formulazione delle Quattro nobili verità è  detto:  «Oh monaci, il Tathāgatha, il Venerabile, il Perfettamente risvegliato, ha messo in moto l'incomparabile ruota della Legge, cioè l'annunciazione, l'esposizione, la dichiarazione, la manifestazione, la determinazione, la chiarificazione, l'esposizione dettagliata delle Quattro nobili verità. E di quali quattro? Della nobile verità del dolore, della nobile verità dell'origine del dolore, della nobile verità della cessazione del dolore, della nobile verità della via che porta alla cessazione del dolore.»
(Buddha Shakyamuni. Saccavibhaṅga Sutta, Majjhima Nikāya).

Anche nella visione taoista  è detto che "il Tao che può essere annunciato (perseguito), non è il principio che è stato da sempre".   Nelle  massime sulla condotta pratica di vita di Lao Tzu  l'obiettivo principale è quello di ristabilire l'armonia col Principio attraverso un ritorno allo stato originario, a una condizione per così dire primordiale, e attraverso la liberazione della spontaneità e dell'istintività naturali. L'idea di una reintegrazione dell'uomo nell'ordine cosmico del resto non è rimasta circoscritta ai seguaci del taoismo, ma ha improntato tutta la cultura cinese.  Idee fondamentali della mistica taoista sono: il ritorno alla spontaneità naturale, l'etica dell'agire non agire, l'unione mistica con il mondo e con il suo ordine immanente. Nonché un complesso di concetti che sono alla base delle tecniche taoiste per la disciplina interiore: la quiete, l'assenza di desiderio, il disinteresse, l'oblio.

Solo  in un ramo collaterale del Taoismo, quello cinico ed edonista, insegnato da un certo  "maestro Lie", si consiglia la  soddisfazione dei desideri, in una sorta di "carpe diem",  in conseguenza  dell'impermanenza della vita. In questo filone  traspaiono già le influenze dell'alchimia taoista più tarda, sulla ricerca di una lunga vita in buona salute e  sulla capacità di manifestare poteri occulti,  un    patrimonio narrativo importato  dal sistema yoga indiano.

Per quanto riguarda poi il concetto di "libertà" il discorso si fa ancora più ingarbugliato poiché  dovremmo esaminare i due filoni di pensiero, quello del "libero arbitrio" e quello del "destino". Forse per non confondere troppo le idee del lettore sarà meglio che lasciamo questo argomento ad una successiva disquisizione. 

Paolo D'Arpini

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