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Laicità significa Libertà


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Tanto per cominciare debbo dire che "spirito" per me significa "sintesi fra intelligenza e coscienza" inoltre confermo di non essere "credente" in alcuna forma, quel che affermo è sulla base della mia diretta esperienza di esistere e di averne coscienza. Non è necessario che alcuno me ne dia conferma e ciò vale, ovviamente, per tutti.

Non serve “credere” per dire “io sono”, lo sappiamo senza ombra di dubbio da noi stessi. Mentre per sentenziare l’assunzione di una fede o la mancanza di una fede non possiamo fare a meno di usare il termine “credo” oppure “non credo”.

Se ne deduce che l’essere ed esserne contemporaneamente coscienti è naturale ed inequivocabilmente vero, mentre sostenere qualcosa che ha il suo fondamento nel pensiero, cioè nella speculazione mentale, è solo un processo, un concettualizzare.

Non voglio fare il difficile ma è ovvio che nessuno dirà mai “credo di esistere e di essere consapevole” mentre per qualsiasi altra affermazione (o forma pensiero astratta o concreta) dovrà sempre usare il termine “credo nella religione o credo nell’ateismo” od in qualsiasi altra cosa a cui si presta fede….. “Io sono” è quindi la verità pura e semplice ed è qui vano spiegare le possibili ragioni di tale “essere” giacché questo procedimento esplicativo (o interpretazione) rientra solo nella speculazione ed è quindi opinabile.

Affermare che la coscienza è il risultato della scintilla divina o il percorso casuale della materia che si trasforma in vita lasciamolo dire ai sofisti. Mentre “Io sono” è l’unico fatto incontrovertibile che non abbisogna di prova o discussione alcuna. Ed è su questa base che voglio restare. Non ha senso quindi mettersi a discutere sui “modi”…..o sulle “ipotesi”. Dico ciò per tacitare ed evitare qualsiasi contrapposizione sulla realtà del fatto contingente da me espresso (e tutti a mente serena possono esserne consapevoli).

Questa è laicità dello spirito.

La spiritualità non appartiene ad alcuna religione; essa è la vera natura dell’uomo. Lo spirito è presente in tutto ciò che esiste, non può quindi essere raggiunto attraverso uno specifico sentiero, poiché esso è già lì anche nel tentativo di perseguirlo.

La laicità è la condizione di assoluta “libertà” da ogni forma pensiero costituita, sia essa ideologica o religiosa. “Laikos”, in greco, sta a significare colui che è al di fuori di ogni contesto sociale e religioso, ovvero non appartiene ad alcun ordinamento sociale o confessionale.

Quando si parla di ricerca spirituale non si intende il perseguire un sentiero codificato, una normativa fideistica, un’appartenenza ad un credo; il cercatore spirituale è semplicemente colui che guarda sé stesso, colui che riconosce il Tutto in sé stesso e sé stesso come il Tutto.

Da questo punto di vista la ricerca spirituale può essere considerata un fatto strettamente personale, quindi il vero cercatore spirituale è assolutamente laico, allo stesso tempo riconosce ciò che è in lui come presente in ogni altra cosa. Conciliare la propria via personale con quella di chiunque altro significa saper fluire senza ostruire, apprendere e trasmettere senza pretendere, insomma si tratta di fare la pace con noi stessi e con gli altri.

Questa assoluta libertà comprende anche assoluto amore e rispetto, non essendoci assunzioni di posizioni precostituite e riferimenti assolutistici ad uno specifico sentiero.

La Spiritualità Laica è una via in cui non possono esserci dogmi o indicazioni religiose. Questa è la via in cui non si segue nessuna via. Il percorso è completamente assente, nella spiritualità laica ciò che conta è la semplice presenza a se stessi e questo non può essere un percorso ma una semplice attenzione allo stato in cui si è.

La coscienza è consapevole della coscienza.

Ed è normale che sia così poiché la spiritualità laica non può essere nulla di nuovo ma solo un “modo descrittivo” di un qualcosa che c’è già, infatti se quel qualcosa non ci fosse già che senso avrebbe esserne “consapevoli”?

Perciò Spiritualità Laica e Consapevolezza sono la stessa identica cosa. Ma noi sappiamo che la pura consapevolezza di sé è purtroppo spesso macchiata da immagini sovrimposte, create dalla nostra mente, queste immagini sono ciò che noi abbiamo immaginato possa essere la spiritualità.

Accettare se stessi come qualcosa di completamente insondabile ed in conoscibile, non riferibile ad alcun assioma di derivazione ideologica o religiosa, significa restare sospesi nel vuoto essendo vuoto. Impossibile poter scorgere i confini del proprio essere.  Questa mancanza di identificazione in qualsiasi forma strutturale (di pensiero e non) è contemporaneamente anche la “forza” della laicità spirituale. Non vi sono porti sicuri di approdo, non vi è barca, non c’è un mare, nessuno e nulla da ricercare… solo la corrente della vita, della coscienza, solo il senso di essere presenti. In questa mancanza di condizioni è possibile sentire il nostro io arrendersi, la nostra mente sciogliersi, scoprendo così il "Centro" che in verità non è un centro perché è tutto ciò che è, senza centro né periferia

Il sentire della spiritualità laica è equiparabile al sentire dell'ecologia profonda. Anzi entrambi condividono la piena consapevolezza di appartenere ad un "tutto inscindibile". L'ecologia profonda prende maggiormente in esame l'aspetto esterno di questo "tutto" mentre la spiritualità laica si occupa dell'aspetto interiore. Attraverso questa integrazione esterno-interno riempiamo una falla enorme nel pensiero e nell'azione.

Tutto quel che ci circonda e noi stessi siamo la stessa identica cosa, siamo immersi in noi stessi come acqua nell'acqua eppure continuiamo a comportarci come fossimo separati, disponendo di ciò che riteniamo "sia al di fuori di noi" come  fosse "altro" da noi. C'è una meraviglia più grande di questa?


E per  questa ragione ho voluto raccogliere in un libro, chiamato "Riciclaggio della Memoria",  una serie di documenti, articoli e racconti di vita, sia miei personali che di amici di percorso, che descrivono la presa di coscienza ecologica profonda e di riscoperta della naturale spiritualità dell'uomo.

Paolo D'Arpini

Cristianesimo rivisitato e la favola delle persecuzioni patite dai cristiani


La religione 'catto-cristiana' (e non semplicemente 'cristiana'!) venne fondata a 'tavolino' nell'arco temporale che va dal 140 al 150: in pratica, contestualmente all'arrivo a Roma di Marcione (138-140). Lo sponsor ufficiale per tale 'progetto' fu il potere secolare del tempo, vale a dire quello imperiale e quello aristocratico-senatoriale, per una volta tanto in perfetta armonia! 

Obiettivo degli sponsor, che contribuirono con un 'budget' di 200.000 sesterzi, era quello di fondare un culto da affiancare ai culti pre-esistenti, e NON per sostituirli! Un culto diretto a quella parte della società imperiale più ignorante e più sprovveduta del tempo, potenzialmente però la più pericolosa per quanto concerneva la stabilità dell'impero, dal momento che spesso dava origine a rivolte di protesta per le condizioni di estremo disagio economico in cui era costretta a vivere, soprattutto l'immensa platea degli schiavi, alla totale mercé dei suoi padroni. 

Fu solo dopo la morte di Costantino I che i suoi eredi caddero nelle mani 'artigliate' del clero plagiatore, che spinse tali governanti ad assecondare le immonde mire egemoniche del protervo clero cattolico (il quale, a causa di ciò, un secolo prima aveva scatenato la reazione furibonda dell'imperatore Decio) nel trasformare l'antica religione dell'impero (un DEMOCRATICO politeismo 'pagano') in uno dei più intolleranti monoteismi della storia umana: quello catto-cristiano! 

Che i cristiani venissero perseguitati nei primi secoli è una fola che i clerico-falsari hanno fatto credere per tanto tempo! 

La realtà fu che i VERI martiri del II secolo furono gli 'gnostico-gesuani', i quali si opponevano a tutte le menzogne (come ad esempio la falsa crocifissione e la falsa resurrezione di Gesù) fabbricate dai padri falsari per dar vita alla religione catto-cristiana. I più attivi tra questi gnostici gesuani furono gli 'eracleoniani'. Ad esempio da alcuni passaggi della letteratura patristica, apprendiamo che Eracleone si salvò a stento dalla persecuzione mortale dei fanatici cristiani guidati dal vescovo di Siracusa, fuggendo di notte dalla città. Non ci vuole molto ad intuire che se i cristiani fossero stati realmente perseguitati dall'impero, come avrebbero fatto a loro volta a perseguitare altri fedeli cristiani "eretici"? 

La verità sulla falsa persecuzione contro i cristiani dei primi secoli viene confermata in un libro dalla studiosa e scrittrice cattolica Candita Moss, la quale riconosce che nel secondo secolo non vi furono persecuzioni verso i cristiani.

Giannino Sorgi

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Induismo - La scuola Dvaita Vedanta e la setta Hare Krishna


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Il Dvaita Vedanta  (Vedanta dualistico) appartiene al sentiero della Bhakti (devozione) della tradizione induista e dal punto di vista delle credenze è quello che ha una maggiore affinità con le religioni di origine semitica:  ebraismo, cristianesimo e islam. Cioè i fedeli credono in un Dio personale denominato Vishnu e di cui Krishna è la  principale incarnazione e messia. Nell'ebraismo questa funzione è rivestita in parte da Mosè, nel cristianesimo da Gesù e nell'islamismo dal profeta Maometto. Nella mitologia dualistica vishnuita, come nelle religioni semite, le anime restano sempre separate dal loro creatore ed il massimo bene possibile è l'ascesa ad un "paradiso" in cui godere permanentemente  della presenza divina. 

Chiaro che  tale  paradiso, quasi un luogo spazio-temporale,  occorre guadagnarselo, con opere di fede, di speranza e di carità, ed il visto  (nel caso del vishnuismo) viene rilasciato da Krishna, da qui la necessità di essere a lui devoti per ingraziarsene i favori. Non tutta la filosofia vishnuita è totalmente dualistica (esiste anche il Vishishtadvaita, ovvero il non dualismo differenziato) ma quella più specificatamente correlata alla devozione verso Krishna lo è in modo particolare.  Il dualismo nasce proprio dalla formulazione di un Dio personale, più semplice da interpretare da parte delle masse di persone che non conoscevano le alte speculazioni filosofiche upanishadiche, ma sentivano l'esigenza di un dialogo con il mondo divino. Ecco perché il dualismo si contrappone alla filosofia Advaita Vedanta.

La teologia della scuola dualista è basata sui pancabheda o cinque differenziazioni. Secondo questa dottrina il divino è differente dai jiva e dalla prakriti (natura). I jiva sono differenti l'uno dall'altro e dalla prakriti, e i vari evoluti da essa sono anche differenti l'uno dall'altro. La metafisica dvaita formula due categorie, alla prima, realtà indipendente, appartiene solo Dio, alla seconda, realtà dipendente, appartiene tutto il resto.  Vishnu è sì interpretato come un Dio personale, ma nell'accezione più alta non ha una forma fisica, un'immagine antropomorfica, ma si manifesta attraverso i suoi avatar, fra cui Rama e Krishna sono i suoi principali impersonificatori.

Alla scuola dualistica vishnuita, più precisamente alla scuola  gauḍīya (che fa riferimento al santo bengalese Caitanya, una presunta reincarnazione di Krishna) apparteneva, in tempi recenti,  un monaco chiamato Swami Bhaktivedanta (al secolo Abhay Charan De), nato a Calcutta il 1 settembre 1896 e deceduto a Vṛndāvana il 14 novembre 1977, egli fu il maggior propagatore della dottrina Dvaita Vedanta in Occidente ed il fondatore del movimento Hare Krishna (formalmente "Associazione internazionale per la coscienza di Krishna"). Nel 1965, all'età di 69 anni, grazie ad un passaggio gratuito su una nave mercantile, riesce ad arrivare negli Stati Uniti, fermamente convinto di dover proseguire oltre oceano la sua missione di propagatore religioso, e qui con estreme difficoltà riesce comunque pian piano ad attirare attorno a sé un certo numero di anime, forse attratte dalla speranza di una redenzione, forse affascinate da quel mondo variopinto pieno di profumi e scosso da singhiozzi di emozione e da canti estatici. Sicuramente  quelle conversioni, avvenute principalmente tra le fila dei disperati che vivevano ai margini della società americana (un po' come accadde ai primordi del cristianesimo) alimentò una speranza ed allontanò tanti giovani dalle droghe e dalle perversioni. Bhaktivedanta ottenne tutto ciò principalmente attraverso i canti devozionali ed in particolare per mezzo del mantra:  "Hare Krishna Hare Krishna Krishna Krishna Hare Hare - Hare Rama Hare Rama Rama Rama Hare Hare". In verità questo mantra, nella originale  edizione induista, inizia enunciando  prima il nome di Rama, un avatar di Vishnu  antecedente a Krishna, ma Bhaktivedanta cambiò la posizione dei nomi, sia per una sua particolare predilezione nei confronti di Krishna sia perché i vishnuiti ortodossi gli proibirono, prima della sua partenza verso l'America, di utilizzare quell'antico mantra (definito Maha Mantra - Grande Mantra) che apparteneva specificatamente al Sanatana Dharma (Legge primordiale) e che secondo loro non poteva essere impartito ai "mleccha"  (ovvero a chi non appartiene alla tradizione induista). 

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In India infatti in tutti i templi e negli ashram tradizionali si continua a cantare  "Hare Rama Hare Rama Rama Rama Hare Hare - Hare Krishna Hare Krishna Krishna Krishna Hare Hare".

In un certo senso si può dire che la setta fondata da Bhaktivedanta  è una sorta di "eresia", propagata in occidente, un po' come lo fu il cristianesimo di San Paolo rispetto all'ebraismo originale. Ed ora -di ritorno- come spesso accade, anche in India ha preso piede questa "eresia", infatti a 
Vṛndāvana, la città  sacra a Krishna, esiste un tempio dell'IKSON  (la setta fondata da Bhaktivedanta) in cui si recita esclusivamente il mantra invertito, 24 ore su 24, tutti i giorni dell'anno.

Ma lascio da parte queste considerazioni per raccontare ai lettori l'esperienza personale che ebbi incontrando Swami Bhaktivedanta. 

Dovete sapere che nel 1974, da poco reduce  dal mio primo viaggio in India,  ebbi diversi incontri con discepoli e maestri di diverse scuole. Avvenne in quel di Roma. In quel tempo glorioso infatti ero  tornato a vivere nella città in cui ero nato,   la madrepatria mi aveva richiamato al dovere della presenza, ed io zitto zitto me ne stavo in trincea, da solo,  nella vecchia casa di Via Emanuele Filiberto 29. 

Nella mia ricerca sincretica non trascuravo i numerosi centri di yoga che, come funghi autunnali, erano sorti un po’ ovunque. Il più caratteristico, indianeggiante al 100%, era sicuramente il Tempio degli Hare Krishna. Ricordo i canti con accompagnamento musicale, l’atmosfera festosa, le vesti sgargianti delle ragazze, i musi lunghi dei ragazzi sempre attenti a non cadere in tentazione. Visitavo spesso quel  gruppo seguendolo nei vari spostamenti che subì in varie zone di Roma. Purtroppo non potevo fermarmi molto a lungo con loro, solo visite mordi e fuggi,  poiché altrimenti venivo preso d’assalto dai “missionari” sempre pronti a convertire nuovi adepti ed io –come sapete- non sono convertibile a nessuna religione. Però gli Hare Krishna mi stavano simpatici e li trovavo persino divertenti, così quando venni a sapere che il loro maestro Swami Baktivedanta  Prabhupada  sarebbe venuto in città non rifiutai l’invito ad incontrarlo. 




La riunione coloratissima avvenne  all’Hotel de La Ville (vicino al Giardino Zoologico) e praticamente c’era tutto il popolo esotico di Roma. Nella grande hall l’aspettativa era immensa, le persone eccitatissime come alla venuta di una grande star,  finalmente sul palco apparve il maestro…. In quel momento sentii l’impatto fisico di migliaia di cuori concentrati su di lui, un grande “upsurge” devozionale,  tant’è che sentii anch’io l’impulso di unire le mani in gesto di saluto inchinando il capo.  Ero consapevole però che tutta quella concentrazione amorosa dipendeva dalla devozione provata da tutti i suoi seguaci innamorati. Swami Baktivedanta  in se stesso pareva alquanto legnoso e distaccato, un po’ come  tutti gli altri maschi Hare Krishna, timorosi di Dio (e della donna tentatrice). 

Beh, il prasad cucinato dalle loro donne era comunque celestiale e ne mangiai a piene mani… Stranamente però da quella volta non sentii più l’impulso di visitare il Tempio, anche se di tanto in tanto incontravo i "devoti" e addirittura organizzai degli eventi assieme a loro pure quando andai ad abitare a Calcata, essendoci un loro ashram proprio lì nelle vicinanze. In fondo continuavano a piacermi e poi mi ricordavano quell'India magica  che ormai non c'è più... 

Paolo D'Arpini

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I due generi maschile e femminile e la pansessualità


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Nella filosofia cinese dello yin e dello yang si afferma che quando il maschile ha raggiunto l'espansione massima tende a invertirsi ed altrettanto avviene al femminile. Cosa significa? Lo yang maturo si rivolge verso se stesso e quindi sorge l'omosessualità.  Altrettanto avviene per l'eccesso di  Yin che si trasforma in lesbismo. La teoria della pansessualità, elaborata da Peter Boom, nella sua espressione più "pulita"  cerca di spiegare  questa direzione o tendenza.

La Teoria della Pansessualità (comprendente tutte le tendenze sessuali
dell’uomo, siano esse occasionali o permanenti) è basata
sull’osservazione dei fenomeni naturali ed è un argomento di ricerca
riconosciuto dalla sessuologia mondiale.

La Teoria si propone di far superare i correnti “pregiudizi” spesso
causa di disordine, emarginazione ed esclusione nella società
contemporanea.

Chiunque può esser nato con specifiche tendenze sessuali o può
svilupparle successivamente e, se non dannose socialmente, non
dovrebbe reprimerle.

La nostra sessualità, come i nostri sentimenti, può risvegliarsi in
una scala di intensità e modi verso persone di qualsiasi sesso, età ed
aspetto, vive, morte o immaginarie, verso animali, cose e verso noi
stessi.

Laddove il sesso viene considerato “peccaminoso” possono crearsi
conflitti interni, esterni e fobie.

Considerato che tutti gli stimoli vengono dalla natura, ed essendo noi
parte di essa, non siamo in grado di eluderli. Se una certa tendenza
sessuale emerge, sicuramente le risultanti necessità e risposte sono
anch’esse naturali e parte di un processo subconscio.

La storia e l’antropologia raccontano l’infinita variabilità del
comportamento sessuale: la libertà di vivere il pansessualismo può
certamente sciogliere alcune nevrosi, inutili sensi di colpa e di
vergogna. Sarebbe sufficiente accettare la nostra ed altrui sessualità
con maggiore apertura mentale per placare l’ansia causata dal credere
di aver commesso un “peccato”.

In effetti la Teoria della Pansessualità aiuta a comprendere le
numerose vie sessuali presenti o latenti in noi per accettarle e
viverle con intelligenza, responsabilità e gioiosa naturalezza.

Paolo D'Arpini