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Simbologia fiabesca e "matrimonio" degli opposti


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Ormai si sa che le fiabe più volentieri si fanno leggere tra le righe, dove trasportano molte più informazioni che nel testo vero e proprio; deve ricredersi chi pensi che siano state concepite come storie per bambini, anche se magari lo sono nel loro aspetto esteriore.

In questa favola siamo messi di fronte ad una dinamica fondamentale del mondo fenomenico nei confronti del contesto più ampio in cui l’uomo è inserito.

Ma andiamo per gradi. La storia.

Una giovanissima principessa viene mandata a raggiungere il regno lontano in cui l’aspetta il principe suo promesso sposo (che non la conosceva di persona). Ella parte a cavallo con la sola compagnia della sua “fantesca”,un termine abbastanza arcaico con cui si designava la cameriera personale e dama di compagnia al contempo.

Nel congedarsi piangendo da lei la madre le affida un fazzoletto su cui ha versato tre gocce del suo sangue, dicendole che le sarebbe venuto utile per strada: un viatico. La ragazza se lo nasconde in seno.

Notiamo per inciso che il viaggio, come allontanamento spesso non voluto dalla propria casa, è praticamente onnipresente nelle favole: ma ci ritorneremo su.
Poco dopo l’inizio del viaggio, giunti nei pressi di un corso d’acqua, la principessa ha sete, e chiede alla fantesca di smontare e attingerle da bere: la donna risponde malamente e si rifiuta di farlo, cosicchè la giovane deve adattarsi e scendere lei stessa a bere.

La cosa si ripete dopo un po’, e la fantesca è ancora più sgarbata. La ragazza “che era di buon animo” non le risponde ma si adegua anche stavolta a bere da sola; ma nel chinarsi sul ruscello le sfugge di seno i fazzoletto. La fantesca se ne accorge e da quel momento sa che la principessa è nelle sue mani e impone alla ragazza lo scambio delle parti: la costringe ad indossare i suoi vestiti e a cavalcare il suo ronzino,prendendo lei posto sul bel cavallo parlante della ragazza; e così si presentano al castello del pretendente, dove la serva si spaccia per la promessa sposa e come tale viene accolta.

Alla quale invece tocca il destino di serva: deve dormire nella stalla e accudire a un branco di oche di giorno. L’accompagna un garzone, che quando lei si scopre i capelli per pettinarsi nota che essi sono d’argento puro; ma tutti i suoi tentativi di strappargliene qualcuno vengono frustrati.

La fantesca fa decapitare il cavallo della principessa affinchè non sveli i retroscena della vicenda, e fa inchiodare la testa sull’arco di ingresso della città, dove la principessa passa tutti i giorni e lui esprime il suo lamento su di lei.
Il re padre del principe però comincia subodorare qualcosa , c’è qualcosa che non lo convince; e pedinando di nascosto la principessa alla fine scopre la verità. La fantesca viene messa a morte(con un inganno il re le fa pronunciare la sua stessa condanna) e la ragazza vive felice e contenta con il principe.

In questa fiaba siamo di fronte a uno sdoppiamento: la ragazza e la fantesca ovviamente rappresentano simbolicamente due aspetti della stessa individualità. Sono, come nell’aneddoto vedico-indù, i due uccelli “amici” che dimorano su un grande albero: uno ne mangia i frutti, l’altro lo rimane a guardare. Chiaramente si tratta della parte di noi incarnata, l’Io, mentre l’altra è il Sé, quella che è presente-assente dato che non è parte della compagine fisica ma in qualche modo vi è collegata da un altro piano dell’essere. E’ l’atman degli induisti.

Il “cattivo” delle fiabe , nonostante ciò che ci creda comunemente, non è che una proiezione di noi stessi, e la sua sconfitta segna il passaggio ad un diverso livello di consapevolezza,in cui si prende coscienza di ciò che si è in realtà: un’entità spirituale in un veicolo fisico. E’ solo adeguandosi alla percezione che il male o il nemico sia al di fuori di noi, un fattore esterno, che noi stessi perpetuiamo tale dinamica senza mai poterci sganciare da essa. La fantesca perciò rappresenta tutte le tendenze più basse, carnali,e volgari dell’io, mentre la principessa la sua parte nobile, elevata: infatti sono legate dall’essere nello stesso viaggio, che nelle fiabe sempre il viaggio iniziatico oppure l’entrata nel mondo fenomenico. Il viatico della madre, le sue tre gocce di sangue sul fazzoletto, servono proprio a rammentare che ci sono tre livelli di noi stessi:lo spirito, l’anima e il corpo. Quando la ragazza lo perde subentra l’oblio della propria identità, ed ecco che lo spirito, l’identità superiore, cioè un’entità potente e di alte vibrazione energetiche,diventa ostaggio del corpo che la ospita e che la imprigiona, un’entità effimera e dotata di bassa frequenza energetica. 

E’ un po’ il paradosso della vita materiale, nella quale però sempre presente la possibilità di riacquisire la consapevolezza: i capelli d’argento della principessa sono questo vincolo con la sua realtà superiore, dato che l’argento tradizionalmente rappresenta il mercurio, metallo liquido che quando la temperatura (simbolica del livello di consapevolezza) sale, s’impenna.

All’anima riunita con il Sé non resta che una vita perenne insieme al principe, la polarità complementare a cui sempre, nelle fiabe, l’eroina (guarda caso quasi sempre femmina) si congiunge nel matrimonio sacro degli opposti.

Simon Smeraldo

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Caravaggio morente sulla spiaggia di Porto Palo in Sicilia!


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Ero là, bocconi sulla sabbia, a ingurgitare sciabolate di luce, strappi di buio; e i miei occhi... oh, i miei occhi... infuocati, brucianti, consumati di vita.

Quella vita che non mi apparteneva già più, se mai mi era appartenuta.

L’arsura, il freddo, la notte, il giorno.

Mari tempestosi sconvolgevano l’orizzonte, ma il litorale si stendeva placido allungando la vista con il suo infinito blu. La pace, la pace immensa che cancellava l’incupirsi di ogni cielo, l’assurdo e interminabile svoltare di angoli di ogni mio labirinto; che attizzava la fioca luce dell’alba, fredda e indifferente alle mie sorti. Che avrò mai fatto, perché io?

Eppure, mi dicevano, eppure.... tu dipingi la vita stessa, tu la fai conoscere a noi mortali, nella vertigine dell’essere che spoglia ogni travestimento, smaschera ogni impostura... il trionfo delle tue figure sulla tela è la nostra stessa vittoria; la testimonianza che viviamo, e che vivremo per sempre, perché la mente di quello stesso dio che si agita dentro di noi ci ha visti così: patetici ma saggi, sconfitti ma degni d’amore, bruti o eccelsi, giusti o bricconi, sagaci o mentecatti; infinitamente stupidi perché infinitamente vivi; eterni, malgrado noi.

La mia gioia è la mia dannazione. E in fondo, due facce della stessa moneta. C‘è un prezzo per tutto: così dicono. Ed ora, signori, io ho pagato. Sì: pagato, e per bene.

La luce, il buio. Il pieno, il vuoto.

Ora la mia stessa ombra, io la vedo, vaga fra i cimiteri dei morti viventi, ingombri delle ossa dei vivi già morti da sempre. Quell’ombra sembra braccarmi da vicino, mi incalza, mi sovrasta.

E allora, io....?

Un gioco, uno stupido gioco? Oppure una furfanteria della sorte? O, per meglio dire, o chiedere (ma a chi? a chi non so) la decisione di calcare questo palcoscenico ribaldo, da dove... da dove mai era scaturita?

Vagamente, comprendevo.

Comprendevo, per esempio, che la luce in verità stava ingoiando il mio buio, lo cancellava poco a poco. 

Ed ogni sferzata, ogni cazzotto preso, ogni ingiuria, ogni goccia di sudore, di sangue....tutto, tutto era stato un dono dei miei complici, i compagni della mia recita terrena. Rinsavire è il senso del mio viaggio; e il contributo di tutti costoro, chiamateli amici se volete, è stato fondamentale.

Cali ordunque il sipario; si finisce, e si ricomincia.

Ma stavolta, perdio, ah, stavolta sarà diversa, lo giuro a me stesso.

Parto, lascio tutto; le maschere di cartapesta dello spettacolo si accartocciano, prive di valore. 

Il pubblico rumoreggia, ma tant’è: non si può rinviare. 

D’altronde queste evanescenti figure non troveranno di meglio che gremire qualche altro teatro per sollazzarsi davanti a qualche altro insulso spettacolo, certo più in voga di questo mio che oramai ha chiuso i battenti.

E là dove vado non c’è nessun chiaroscuro da dipingere. Quindi, trattenete gli applausi, risparmiate il fiato.

Rimane, di vero, la pulsazione del calore nelle sue vene e nelle mie, la luce spiritata nei suoi occhi che mai potrò dipingere qual’è davvero, perché non ne sono né maestro né padrone, ma solo servo: l’amore.