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Santoni e miracoli del pensiero - Un'altra vita è possibile?

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Ormai ero arrivato a crederci anch’io di essere un caso disperato, visto che me lo facevano capire un po’ tutti: alcuni con tatto e diplomazia, in modo indiretto ma allusivo, altri proprio sfacciatamente e senza riguardi. Il peggio era quando – soprattutto le donne- mi guardavano con quell’aria di compatimento mista a una sorta di materna tenerezza che proprio non riuscivo a mandar giù. “Eh, poverino…” era il loro pensiero inespresso, mentre si scambiavano pietosi sguardi di circostanza.
Ma cosa c’era che non andava in me?
Esteriormente, niente: certo, non ero molto bello, però i miei pezzi erano tutti al posto loro. E mentalmente? Anche: quoziente intellettivo nella media, secondo tutti i test psicologici proposti periodicamente dalle riviste (ne avevo fatta incetta in un periodo di vari mesi, a partire dal Piccolo Chimico per finire con Annabella Di Giorno, senza naturalmente tralasciare Cucina erotica, Sofà & Nunsofàgnente, Punto croce uncinata, Il Fighetto e Lo spazzino moderno).
Insomma niente, sembravo un inno alla normalità.
Il problema era quando mi mettevo a fare qualcosa – e intendo qualsiasi cosa: ne usciva un pasticcio da minorati, peggio di un Picasso trasferito alla realtà di tutti i giorni.
Se compravo un cane quello col cavolo che mi si affezionava: mi mostrava i denti e dopo qualche mesetto mi mordeva quando meno me l’aspettavo: uno si era anche abituato a pisciarmi addosso, come regola quotidiana.
Se facevo una torta o qualsiasi specialità culinaria intervenivano i pompieri. Avevo dovuto rifare la cucina quattro volte in due anni.
Non andavo ormai più in macchina, perché mi aveva convocato l’assicuratore per farmi assistere personalmente al rogo della mia polizza da parte sua nel suo ufficio, e minacciandomi che se la compagnia falliva a causa mia lui mi avrebbe bruciato, allo stesso modo, la casa.
Le biciclette: penso di aver raccolto sulle gomme più chiodi di quelli presenti in tutti i negozi di ferramenta della città. I pattini a rotelle: fratture e distorsioni.
Quindi andavo a piedi, ma nemmeno ciò era esente da rischi: infatti un paio di volte mi avevano sfiorato dei vasi da fiori caduti dai balconi, e qualche vecchietta in bicicletta colta da improvviso malore riusciva sempre a centrarmi in pieno ogni tanto. I piccioni si passavano parola quando mi vedevano uscire di casa e scommettevano sulla qualità della loro mira nei miei confronti.
La volta che, miracolosamente, ero riuscito ad attirare nel mio letto una femmina d’uomo (sorvolando sulle sue caratteristiche fisiche) e lei mi aveva chiesto di chiudere le tende, scendendo dal letto ero inciampato nel lenzuolo, e nel cadere mi ero aggrappato alla tenda, tirandola giù insieme al bastone, che era caduto direttamente in testa alla ragazza, che era stata messa kappao e avevo dovuto chiamare il 118. Avventura finita. Prima ancora di cominciare.
Insomma, qual’ era la soluzione? 

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Mi dissero: sai, nel Nepal conosco un santone…
Il solo pensiero di quel che sarebbe potuto succedere ai miei sfortunati compagni viaggiatori in aereo mi atterriva; d’altronde a mali estremi, estremi rimedi…..
Incredibilmente, tutto andò bene. Però, mentre facevo la fila per scendere dall’aereo a Kathmandu sentii un tonfo e un’esclamazione soffocata provenire dalla carlinga del pilota. Immediatamente corse fuori una hostess con il viso angosciato, chiamando aiuto e chiedendo se c’era un dottore a bordo.
Che freddo su quelle montagne innevate, altitudine media 5000 metri SLM! Gli Yak mi guardavano con compatimento – anche loro!- come se sapessero che ero freddoloso di natura. Bene o male (e direi più male che bene) arrivammo dal santone. Aspettavo ansiosamente le sue parole di saggezza.
Mi accoglie dicendo: “Vuoi un tè? Un caffè? Uno zabaione? Un cognacchino? Un maritozzo con la panna?”
“Ma.... come,lei…?”
“Ah, ah! Ci sei cascato!” e si fa una risatina chioccia, sommessa e contenuta, tipica del grande saggio himalayano. Strano santone, pensai. 
“Che ore sono?” Mi fa poi.
“Mmmh… le otto e mezza”
“Uohh, stasera gioca il Milan, aspetta che accendo”
Io lo guardo sbigottito mentre si dirige verso un immenso televisore al plasma, per rendermi poi conto che è finto. 
“Ah, ah! Ci sei cascato!”
“Ma insomma, sono venuto fino in Nepal per farmi prendere per il sedere?” Penso.
“No, certo che no” dice lui, ovviamente allenato, come tutti i santoni, a leggere il pensiero. “E’ che mi piace esordire in umiltà....come in un gioco!” E giù un’altra risatina di stampo orientale. 
Poi mi dice: “Guarda!” Stende un braccio e sulla parete della sua umile casetta si materializza una sorta di schermo, diviso in due da una striscia nera. Mi fa assistere a tutti gli eventi più salienti della mia vita, nelle due versioni: reale e alternativa, cioè di come sarebbe potuta andare. Gli faccio:
“Sì, è facile così, ma bisogna esserci dentro le cose, per capire com’è in realtà. Altrimenti non è giusto.”
“Hai ragione, ragionissima!” E si proietta nello schermo, prendendo il mio posto nel film della mia vita.
“Ah, ah! Ci sei cascato!” Gli dico. 
“Ah, ah! Ci sei cascato!” Gli dico. 
E spengo lo schermo con lo stesso gesto della mano che avevo visto fare a lui per accenderlo, lasciandolo a sbrigarsela da solo con i miei guai mentre io me ne andavo a pescare sul lago ghiacciato con il thermos del suo tè. 
Avevano proprio ragione i miei amici: quel santone faceva miracoli!

Simon Smeraldo

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