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Un altro Gesù, nei vangeli apocrifi
Diversamente da quanto riportato nei Vangeli canonici in merito alla
poca considerazione di Gesù per gli animali e l’astinenza dalla
carne, in alcuni episodi dei Vangeli apocrifi troviamo un Gesù
tutt’altro che indifferente verso la condizione degli animali .
In un primo tempo i Vangeli apocrifi non erano affatto considerati
tali, e alcuni Padri della Chiesa si fecero garanti di quei testi poi
condannati. La maggior parte degli antichi teologi di derivazione
apostolica li ritennero assolutamente veri e alcuni talvolta preferiti
a quelli neotestamentari. E talune parti vennero anche interpolate nei
testi canonici, come il Protovangelo di Giacomo a cui fa riferimento
la Chiesa per ciò che concerne alcuni episodi della madre di Gesù. Il
Padre della Chiesa Clemente Alessandrino, tra il 190 e il 210,
annovera tra le sacre scritture il Vangelo degli Ebrei e il Vangelo
degli Egizi e numerose lettere apostoliche poi considerate eretiche.
Nel Vangelo degli Ebrei Gesù dice: "Sono venuto ad abolire i sacrifici
e se non cesserete di fare sacrifici non si allontanerà da voi l'ira
di Dio".
Nel Vangelo degli Ebioniti (comunità vegetariana con un profondo
rispetto per gli animali) quando un discepolo gli chiede: "Dove vuoi
che prepariamo per te, per consumare la Pasqua? Gesù risponde: "Ho
forse manifestato il desiderio di mangiare carne con voi questa
Pasqua"?
Nell’aramaico “Vangelo della vita perfetta” si legge: “Maledetti siano
i cacciatori perché saranno a loro volta cacciati”.
Nelle pergamene del Mar Morto, scoperte nel 1947 in una località dove
vissero gli Esseni, l’Angelo dice a Maria: “Tu non mangerai carne né
berrai bevande forti perché il bambino sarà consacrato a Dio dal
ventre di sua madre.” Negli stessi testi Gesù dice: “Siate rispettosi
e compassionevoli non solo verso i vostri simili ma verso tutte le
creature poste sotto la vostra tutela”. E troviamo ancora Gesù che
rimprovera aspramente i pescatori: “Forse che i pesci vengono a voi a
chiedere la terra e i suoi frutti?” Lasciate le reti e seguitemi”.
Il Vangelo dei Dodici Santi, riscoperto nel 1888 e tradotto
dall'Aramaico dal Reverendo Gideon Jasper Ouseley: " Queste sono le
creature vostre compagne della grande casa di Dio, sono vostri
fratelli e sorelle e condividono lo stesso respiro di vita
nell'Eterno. E chiunque si prenda cura di una delle ultime di queste
donandole da mangiare e da bere secondo le sue necessità è come se lo
facesse a me." Prima di tutte le cose c'è l'amore, amatevi gli uni
con gli altri e amate tutte le creature di Dio, e da questo tutti gli
uomini sapranno che siete miei discepoli".
Dal Vangelo Esseno della Pace di Gesù Cristo secondo l’apostolo
Giovanni delle Chiese Cristiane d’Oriente, originale in aramaico del
3° sec. d.C. Bibl. Vat. 156-P, pubblicato nel 1928 da Edmond Bordeaux
Szekely, tradotto da un antico manoscritto da lui scoperto
nell’archivio segreto del Vaticano:
“Io in verità ve lo dico: colui che uccide uccide se stesso e colui
che mangia la carne degli animali abbattuti mangia un corpo di morte.
Io vi chiederò conto del loro sangue spumeggiante, il loro sangue nel
quale dimora l’anima. Io vi chiederò conto di ogni animale ucciso.
Chi uccide un animale uccide suo fratello e la carne degli animali
uccisi nel suo corpo diventerà la sua stessa tomba. Chi si nutre della
carne degli animali uccisi mangia un corpo di morte. Non uccidete e
non mangiate la carne delle vostre prede innocenti se non volete
diventare schiavi di Satana: questo è il sentiero che conduce alla
morte attraverso la sofferenza. Poiché la vita viene solo dalla vita e
dalla morte viene solo la morte. Non uccidete dunque né uomini né
animali perché i vostri corpi diventano ciò che mangiate e il vostro
spirito ciò che pensate. Io vi chiederò conto di ogni animale ucciso
come di ogni uomo”.
- Il Libro Esseno di Mosè: “Non ucciderai nessuna cosa
vivente: la vita viene solo da Dio che la dà e la riprende”.
- La Pace Settupla, Gesù dice: “Se qualcuno che soffre dolori
e gravi affezioni vi chiede aiuto, esortatelo a rinnovare se stesso
col digiuno e la preghiera. Ditegli di invocare l’Angelo del Sole,
l’Angelo dell’Acqua e l’Angelo dell’Aria affinché essi possano entrare
nel suo corpo e scacciare il potere di Satana. Persuatelo a mangiare
sempre alla mensa apparecchiata con i doni di nostra Madre Terra: i
frutti degli alberi, le erbe dei campi. Egli non dovrà evocare il
potere di Satana nutrendosi della carne degli animali perché chi
uccide uccide suo fratello e chi mangia la carne di bestie uccise
mangia il corpo della morte. Ditegli di preparare il suo cibo con il
fuoco della vita non con il fuoco della morte”.
Come conciliare la legittimità del consumo di carne della Chiesa con
le molte dichiarazioni di molti Padri, Santi della prima Chiesa
cristiana e le stesse regole della maggior parte dei Fondatori di
Ordini monastici sviluppatisi dopo la morte di Gesù?
I PADRI DELLA CHIESA
Eusebio di Cesarea diceva che tutti gli apostoli di Cristo si
astenevano dalla carne. Secondo Eusebio, Egesippo scrive nella Storia
della Chiesa che Giovanni non mangiò mai la carne.
Tertulliano scrive che durante i primi secoli i cristiani primitivi
non toccarono mai carne: “Non è permesso a noi cristiani assaggiare
pietanze nelle quali potrebbe essere stato mescolato il sangue di un
animale .
S. Pietro nelle Omelie Clementine, XII,6 rec. VII,6. afferma:
“Mangiare carne è innaturale quanto la pagana adorazione dei demoni.
Io vivo di pane e olive, ai quali aggiungo solo di rado qualche
verdura”.
S. Girolamo affermano: “Dopo che Cristo è venuto non ci è più
consentito mangiare la carne”.
S. Ambrogio afferma: “La carne fa cadere anche le aquile che volano”.
S. Giovanni Crisostomo scrive: “Mangiare la carne è innaturale e impuro”.
Gregorio di Nazianzo: “L’ingordigia di pietanze a base di carne è
un’ingiustizia abominevole”.
Basilio il Grande: “Il corpo appesantito con cibi a base di carne
viene afflitto dalle malattie. Si può difficilmente amare la virtù
quando si gioisce di piatti e banchetti a base di carne. La carne è un
alimento contro natura che appartiene ad un mondo passato” .
S. Clemente Romano dice che S. Pietro si nutriva di pane, olive ed erbe.
Porfirio: “Gesù ci ha portato il cibo divino, il cibo carneo è
nutrimento dei demoni”.
S. Clemente Alessandrino: “La carne ottenebra l’anima. Dobbiamo
cibarci come Adamo prima della caduta, non come Noè dopo il peccato. I
nostri corpi sono simili a tombe di animali uccisi. Credo che i
sacrifici cruenti siano stati inventati solo dalle persone che
cercavano un pretesto per mangiare carne”. Diceva pure che Matteo si
nutriva di semi, frutta ed erbaggi. (Pedagogo II,1-16).
I DANNI DI SAN PAOLO
S. Paolo: “Tutto è mondo, d’accordo: ma è male per un uomo mangiare
dando scandalo. Perciò è bene non mangiare carne, né bere vino, né
altra cosa per la quale tuo fratello possa scandalizzarsi (Lettera ai
Romani: 14-20).
“Tutto è lecito ma non tutto è utile. Tutto ciò che è in vendita sul
mercato mangiatelo pure, senza indagare per motivo di coscienza. Se
qualcuno vi invita, mangiate tutto quello che vi viene posto davanti,
senza fare questioni per motivo di coscienza” (Lettera ai Corinzi:
10-27).
“Forse che Dio si prende cura dei buoi”? (Lettera ai Corinzi. 9-9).
Nel concetto giudaico, la sofferenza e il sangue versato
dell’innocente purifica le colpe del peccatore: “Quasi tutte le cose
vengono purificate con il sangue e senza spargimento di sangue non
esiste perdono” (Lettera agli Ebrei: 9-22).
Franco Libero Manco
Sii ciò che sei...
Un amico mi scrive: "...avrei una domanda da porti. Da circa un anno, da quando qualcosa in me si è rotto, sto procedendo ad un'auto indagine costante, diciamo ad una meditazione che prende tutto ciò che avviene durante le mie giornate. Poi mi capita di rileggere qualcosa di Uppaluri Gopala Krishnamurti e tutto quello che sto facendo mi sembra inutile e piombo nello sconforto. E' come se stessi camminando in equilibrio su di una fune e qualcuno con un banale soffio d'alito mi facesse cadere giù. Ma come si può uscire da queste contraddizioni che ti fanno sentire come una foglia al vento? Grazie Maestro.."
Rispondo:
"....disinteressati di qualsiasi cosa ti venga suggerito dall'esterno. Gli insegnamenti indiretti, appresi di seconda mano, possono anche essere distrazioni. Le esperienze raccontate dai vari maestri sono le loro esperienze non possono essere riprodotte. Qualsiasi sia la tua pratica -e per pratica intendo il peculiare approccio in cui la tua mente fissa l'attenzione su se stessa- prosegui con costanza e determinazione in quella.
Non è importante quale sia la pratica ma la sincerità, costanza e volontà nel perseguimento che conta. E' come quando si è innamorati non può esserci un modo codificato per dimostrare il proprio amore verso la persona amata, l'amore si mostra nei modi che gli sono congeniali...
A che serve quindi leggere come un altro ha amato? Non vi sono criteri stabiliti in cui l'amore debba esprimersi, quel che conta è l'intensità in cui l'amore si manifesta. E' lo spirito di abnegazione che conta, la pazienza, la sincerità, la fiducia, l'adesione, la fedeltà...
E poi non chiamarmi "maestro" che così già poni una differenza ed una separazione fra noi. Dal punto di vista umano siamo fratelli, dal punto di vista del Sé siamo la stessa cosa."
Paolo D'Arpini
Il sincretismo favorisce la pace universale?
Non esiste una sola persona al mondo che sia identica ad un’altra, che abbia gli stessi pensieri, lo stesso modo di sentire, gli stessi sogni, le stesse speranze, l’identico modo di concepire i problemi e le soluzioni. Se ne deduce che nelle relazioni affettive umane ci sarà sempre qualcosa che non condividiamo perfettamente anche con la persona più giusta, saggia ed equilibrata. Ma se nei rapporti interpersonali si evidenziano solo gli aspetti discordanti il rapporto è spesso destinato a naufragare. Ma il differente modo di sentire e di vedere le cose è la nostra vera ricchezza, ciò che ci consente di progredire, di ampliare il nostro piccolo mondo personale, ciò che permette alla stessa vita di manifestarsi nell’universo. Il principio di armonica convivenza tra le parti trova la sua peculiare base nella coppia dove i due elementi, differenti per estrazione sociale, culturale, religiosa, stabiliscono un rapporto di intesa e di collaborazione in virtù della volontà di accettare l’altro nei suoi differenti modi di essere come ciò che completa e arricchisce la nostra stessa natura. Ma affinché la coppia, e quindi la famiglia, sia un elemento armonico e positivo è necessario che il singolo componente sia a sua volta dotato di principi di lealtà, rispetto, condivisione, amore.
Nulla potrebbe esistere nell’universo se vi fossero soltanto atomi di elio o di carbonio. Nulla potrebbe manifestarsi se non nell’interazione armonica delle differenti sostanze che compongono la materia. La fusione armonica tra due elementi totalmente differenti in natura, l’idrogeno e l’ossigeno, unendosi danno vita all’acqua senza la quale la vita non sarebbe possibile sulla terra. Allo stesso modo se vi fossero soltanto rocce calcaree, o se la terra producesse solo alberi di mele, solo betulle o solo pomodori. Nessuna specie avrebbe potuto svilupparsi senza la armonica simbiosi con tutte le altre con le quali interagisce. Nessun progresso culturale, scientifico, spirituale potrebbe avvenire se non si attingesse alle differenti culture che popolano la terra. Se tutti avessero le mie stesse idee come potrei superare il mio piccolo universo? Il mio pensiero è la sintesi sommatoria del pensiero degli altri, di tutti coloro che hanno contribuito alla mia formazione; la mia coscienza è la sintesi sommatoria di tutte le esperienze morali, emozionali e spirituali che hanno contribuito alla mia formazione.
Credere che i grandi sistemi politici possano uniformare le loro ideologie è una follia, come l’idea che una di queste sia destinata a prevalere sulle altre; credere che un giorno tutta l’umanità sia destinata a diventare cristiana, induista, buddista o musulmana, o tutta di sinistra, di destra o di centro, sarebbe come dire che il pensiero umano sia destinato per legge naturale a standardizzarsi, a massificarsi. L’idea del migliore al quale la massa tende a identificarsi ha i suoi aspetti altamente positivi in quanto spinge l’individuo verso la sua realizzazione integrale, ma quando sussistono divergenze assolutistiche ha anche i suoi aspetti negativi in quanto entra naturalmente in antitesi con ciò che non è ancora maturo per condividere e incarnare una posizione ancora storicamente e culturalmente da raggiungere.
Qualunque dottrina che presume essere destinata a prevalere sulle altre ha in se il germe della discordia, della violenza e della sopraffazione. Nell’ambito dell’inevitabile globalizzazione probabilmente spariranno i confini, le frontiere, i passaporti, e perfino le monete nazionali. Ma, probabilmente, non ci sarà mai un’idea univoca sulle grandi dottrine, sui grandi principi culturali. L’intelligenza umana e la maturità della coscienza porteranno inevitabilmente ad accettare la realtà che ogni individuo è un universo unico nel suo genere, ma ciò che serve all’uomo non è il trionfo di una verità su un’altra ma l’armonica convivenza, la simbiosi delle stesse. Valorizzare e sintonizzare le diversità questo è il compito più alto e nobile in cui l’uomo moderno è chiamato a confrontarsi. L’idea di Dio (come principio di bene, di realizzazione e progresso integrale) deve essere punto di convergenza della parte più nobile e costruttiva del pensiero e dello spirito umano.
Il sincretismo, componente fondamentale del pensiero universalista, può essere identificato ad un’orchestra il cui scopo è dar vita ad un concerto sinfonico: se ognuno dei componenti suona un diverso brano musicale ci sarà solo frastuono, rumori tra loro discordanti, mentre è necessario non solo che lo strumento di ognuno sia accordato ma che ogni musicista sia disposto a sintonizzarsi con il resto dei componenti l’orchestra facendo riferimento al maestro, nella fattispecie ad un codice che armonizzi il gruppo, al fine di realizzare una sinfonia. Il sincretismo, si può configurare anche come l’assemblaggio dia un mosaico in cui le tessere posizionate al punto giusto danno vita all’immagine d’insieme, diversamente se le tessere vengono disposte a caso, oppure se alcune vengono a mancare l’opera resta incompleta. Così per tutti i popoli della terra e per ogni individuo. Non solo ognuno deve avere la consapevolezza di essere insostituibile parte del Tutto ma avere la volontà di trovare l’armonia in se stesso e la volontà di far riferimento a un Codice Universale che sintonizzi ogni elemento con il suo prossimo e tutta la creazione.
Quindi, allo stesso modo dell’armonica convivenza tra due o più elementi, il Sincretismo è la sintonia degli aspetti più costruttivi e più eticamente evoluti di ogni regola sociale, di ogni dottrina a carattere etico, morale, spirituale, filosofico: è il mettere insieme ciò che unisce, tralasciando ciò che è stato (per esperienza storica) ed è motivo di separazione e di contrasto: è quel principio inteso a mettere in consonanza, realtà diverse tra loro per cultura, credo religioso, estrazione sociale, politica, purché ci sia la volontà di tendere ad un obiettivo comune, condiviso: quello che consente all’essere umano il bene individuale e collettivo, il progresso morale, mentale, spirituale, culturale, scientifico. Il fine non può essere quello di un’umanità che identifica i suoi principi solo in una delle grandi religioni o in una delle centinaia piccoli movimenti religiosi, spirituali o filantropici: anche se questo portasse l’umanità resterebbe divisa tra i suoi componenti anche se armonici tra loro.
Come in una squadra di tecnici in cui ognuno mette a disposizione il meglio della sua esperienza professionale per la realizzazione di un progetto comune, allo stesso modo gli aspetti più evoluti dello scibile umano, (giuridico, politico, medico, scientifico, tecnologico, religioso, filosofico ecc.) non solo devono interagire armonicamente ma creare un punto di riferimento delle conoscenze (come in una banca dati.) dei codici morali e dei precetti delle grandi dottrine che possono rendere l’uomo più buono, più giusto, più solidale, più fraterno, in un nuovo sistema universale valido per tutto il genere umano. Ma come mettere insieme tutti i principi delle diverse dottrine? Può il cristianesimo entrare in simbiosi con l’induismo, l’islamismo, il buddismo o l’ebraismo? Come conciliare dogmi e precetti antitetici e che nella storia sono stati e sono motivo di contrasti e di guerre? Quando nell’uomo sussiste la buona volontà ogni ostacolo può essere superato. Una commissione super partes di studiosi, teologi, di filosofi ed esperti delle varie materie dovrebbero estrapolare la parte più significativa dei testi ciò che non altera il contenuto, che può essere messo in sintonia con gli altri testi e che nella sostanza porta al bene di tutti.
Il problema è che ognuno può avere una sua visione del bene e della realizzazione dell’uomo: ciò che io ritengo bene per me e per pianeta può non coincidere con le convinzioni di un altro. Ma io ritengo che il Bene sia, per definizione, ciò che tutela la vita, la libertà, il rispetto delle esigenze vitali e consente l’evoluzione integrale di ogni essere vivente, mentre Male sia tutto ciò che si oppone ai valori fondamentali della vita. Questo a mio avviso dovrebbe essere il punto di convergenza al quale i rispettivi componenti del genere umano dovrebbero far riferimento nell’attuazione della visione sincretista delle cose.
Rifiutare il valore della diversità significa rifiutare il valore della vita. Il mio essere fisico, mentale, emozionale e spirituale è fatto dall’interazione armonica degli elementi cosmici che dall’esterno entrano e si uniscono a costruire la mia entità corporea. Io sono fatto delle cose che mangio, portate chissà da quale regione del pianeta, le quali hanno assimilato l’aria venuta da altri continenti, la luce che viene dagli spazi siderali, succhiato dalla l’acqua terra e i minerali che entrano a far parte del mio corpo. In me (come in ogni essere vivente) sussistono tutti gli elementi dell’universo. Tutto è in me e io sono nel Tutto. Se io fossi solo al mondo non avrei la possibilità di evolvere, di arricchirmi dell’esperienza degli altri, di venire a conoscenza di fatti lontani dal luogo in cui vivo. Il principio di valorizzazione delle diversità, il valore della complementarietà, come assioma nel sincretismo, non va, ovviamente esteso anche al criminale, al ladro o all’assassino, ma solo a tutto ciò che, positivo per sua essenza e natura, integrandosi con il resto dei componenti, contribuisce al bene collettivo. Nella comparazione valutativa tra gli effetti positivi, benefici e costruttivi e quelli negativi, dannosi e lesivi è necessario bandire ogni regola, principio, codice, o prodotto della scienza o della tecnologia come del pensiero umano, che si è rivelato nocivo per l’evoluzione dell’uomo, degli animali e dell’ambiente.
Perché il sincretismo? Se gli uomini raggiungessero un livello di evoluzione morale, mentale e spirituale tale da vivere in benessere e armonia con se stesi e con il prossimo e le nazioni interagissero armonicamente tra loro, nascerebbe spontanea l’esigenza di dar vita ad una sola e grande famiglia e quindi di avere codici comuni. E se l’umanità diventasse una sola famiglia che senso ha avere regole diverse? Non solo. Non è possibile far parte di una stessa famiglia, pensare di relazionarsi in amore e accordo, in empatia e condivisione se ognuno, seguendo regole diverse, si comporta in modo differente e spesso antitetico. La sola possibilità di vera pace sulla terra è l’accettazione amichevole dell’altro nella bellezza della sua diversità. La sintonia delle diversità è la meta del genere umano proteso verso il progresso civile, morale e spirituale ma è soprattutto la meta di ogni individuo, di ogni grande e piccola associazione filantropica, specialmente se accomunate dagli stessi ideali, dagli stessi obiettivi. Diversamente si ristagna nella propria relativa impotenza, nel proprio piccolo recinto, nella propria parziale visione delle cose.
Questa rivoluzione ha bisogno di operatori, di gente disposta a lavorare per la sua realizzazione per accelerarne i ritmi naturali. Ognuno che sente la necessità della instaurazione di un mondo migliore dovrebbe far sua questa grande missione, sentire la responsabilità del proprio destino e quello dell’intero genere umano. Nessuna rivoluzione si attua se non attraverso il rinnovamento personale, nella volontà di essere un elemento positivo, armonico al servizio della vita, dell’amore universale.
Franco Libero Manco
Il sogno è reale, finché dura, ma non è vero... (la vita è sogno)
Una volta un amico mi disse: "...sai che ci siamo incontrati in sogno ed abbiamo fatto questo e quello, che ne dici?" - Gli risposi: "Spiegare è come giustificare, tu sei lì che sogni e mi dici di avermi incontrato nel tuo sogno poi ti svegli e mi chiedi "sai che ci siamo incontrati in sogno ed abbiamo fatto questo e quello, che ne dici?"
Iniziamo con un discorso sul karma (l'agire). Non esiste karma, è tutto nel sogno, finché continuiamo a sognare facciamo varie interpretazioni del nostro sogno e cerchiamo di dargli un senso, lo chiamiamo causa-effetto oppure libera scelta o quello che ti pare, ma poi a che serve descrivere la verità del sogno?
Per uscirne fuori, per un risveglio dal dualismo, si "consiglia" di non attaccarsi alle ragioni ed agli eventi del sogno ma di concentrarsi su ‘colui che sogna’, sulla coscienza, sull'io... senza seguire i pensieri, le intenzioni di questo o quello, bello o brutto….
Tutto qui... A che serve ulteriore speculazione quando lo specchio non potrà darti mai alcuna sostanza? Solo il senso dell'essere, di esistere, è innegabile, non si può mettere in dubbio, è la sola certezza o "capitale" che abbiamo.
Per esprimere l'essere noi diciamo "io sono", questo sia nello stato di veglia che nel sogno, ma persino nel sonno profondo, o nello svenimento, questo essere è implicito anche se – allora - non possiamo affermarlo, eppure siamo ben consapevoli... di esistere.
Essendo quindi questa coscienza l'unica ed assoluta verità, puoi anche chiamarla "Dio" - se vuoi - nel senso che essa rappresenta la vera "esistenza presenza". Per quel che riguarda la coscienza personale, o mente, essa è solo una rifrazione, una "forma" della coscienza, variegata ed irripetibile, come una goccia d'acqua che non è mai uguale all'altra, come una foglia che non è mai uguale all'altra, come un granello di polvere che non è mai uguale all'altro, nessuna coscienza individuale può essere uguale ad un'altra... questa diversità è la caratteristica della coscienza quando si manifesta nell'aspetto individuale. Ma questa "diversità" è possibile solo perché la coscienza (che è la matrice) nella sua espressione indifferenziata è alla base di ogni e qualunque manifestazione vitale.
La "consapevolezza" priva di attributi è il substrato necessario per svelare ogni attributo.
"....just for the sake of the game..."
Paolo D'Arpini
Per uscirne fuori, per un risveglio dal dualismo, si "consiglia" di non attaccarsi alle ragioni ed agli eventi del sogno ma di concentrarsi su ‘colui che sogna’, sulla coscienza, sull'io... senza seguire i pensieri, le intenzioni di questo o quello, bello o brutto….
Tutto qui... A che serve ulteriore speculazione quando lo specchio non potrà darti mai alcuna sostanza? Solo il senso dell'essere, di esistere, è innegabile, non si può mettere in dubbio, è la sola certezza o "capitale" che abbiamo.
Per esprimere l'essere noi diciamo "io sono", questo sia nello stato di veglia che nel sogno, ma persino nel sonno profondo, o nello svenimento, questo essere è implicito anche se – allora - non possiamo affermarlo, eppure siamo ben consapevoli... di esistere.
La coscienza non è un processo descrivibile in alcuna forma, la coscienza può essere sperimentata e direttamente conosciuta, il momento che cerchiamo di descriverla essa sfugge al nostro controllo, subentra l'astrazione del pensiero, eppure essa "assiste" anzi "consente" il pensiero, essa è testimonianza e causa prima di ogni andamento mentale. Purtroppo la mente usa il linguaggio dualistico e speculare e quindi non può descrivere ciò che è al di là dello specchio. La mente è il riflesso, la coscienza è la luce che si manifesta come riflesso.
Essendo quindi questa coscienza l'unica ed assoluta verità, puoi anche chiamarla "Dio" - se vuoi - nel senso che essa rappresenta la vera "esistenza presenza". Per quel che riguarda la coscienza personale, o mente, essa è solo una rifrazione, una "forma" della coscienza, variegata ed irripetibile, come una goccia d'acqua che non è mai uguale all'altra, come una foglia che non è mai uguale all'altra, come un granello di polvere che non è mai uguale all'altro, nessuna coscienza individuale può essere uguale ad un'altra... questa diversità è la caratteristica della coscienza quando si manifesta nell'aspetto individuale. Ma questa "diversità" è possibile solo perché la coscienza (che è la matrice) nella sua espressione indifferenziata è alla base di ogni e qualunque manifestazione vitale.
La "consapevolezza" priva di attributi è il substrato necessario per svelare ogni attributo.
L'individualità della mente muore con la morte fisica, ma non la pura coscienza che continua a manifestarsi in altre innumerevoli forme, la cosìddetta anima individuale è una maschera, una proiezione fittizia, un personaggio nel sogno nella coscienza.
Quanti personaggi sogniamo in un sogno e chi sono essi se non il sognatore stesso, ovvero la coscienza che sogna? Quindi, aldilà di ogni pensiero, religioso o ateo che sia, non si può negare quell' "io sono", cioè l'unica verità. E' questo "io sono" che viene definito l'Assoluto nell'Advaita Vedanta, come pure nel pensiero Platonico, e persino nella Bibbia è detto: "I am that I am" - Io sono quel che sono.
Che senso ha continuare a menar il can per l'aia su un'esperienza ovvia, un'esperienza che non ha bisogno di essere confermata da alcuno, ed in cui solo lo sperimentatore è reale? Eppure nel momento in cui ricominciamo a ragionare su questo "io sono" appaiono le inevitabili differenze di pensiero (religioni, interpretazioni, ideologie, filosofie) che, come dicevamo all'inizio, sono infinite quante le forme ed i nomi.... ed allora? Se tu dici, "io lo penso… e ci credo", ciò vuol dire essere qui, ovvero "presenza-fissità", intendendo l'esser-ci in un luogo e in un tempo.
Sarai però d'accordo che l'essere non è condizionato dal luogo e dal tempo, l'essere è indipendente dal luogo e dal tempo e non ha nessun bisogno di riscontro per conoscere la sua esistenza, né serve una conferma nel pensiero. Siccome siamo abituati a confrontarci, e sin qui abbiamo dialogato molto..., possiamo anche dire che "ci" siamo tutti dentro, in questa elaborazione dell'esser-ci (sempre tu, io .. e tutti gli altri).
Ma se tu, indipendentemente dal confronto con noi tutti, non sapessi di esistere "ab initium" -indipendentemente dalla "nostra" supposta esistenza- (e nota bene che ciò vale per ognuno di noi) potresti forse dire di non esistere? Potresti affermare oggettivamente e soggettivamente di non esistere se non avessimo questo confronto letterario?
Hai forse bisogno di guardarti allo specchio per conoscere la tua esistenza?
Ma, nel girare in tondo, ci sembra di compiere un dato percorso e siccome siamo abituati a considerare l'esistenza quando si manifesta sotto forma di "pensiero" e – chiaramente - siccome il pensiero, come la parola e come ogni concetto, è per sua natura condivisibile (in quanto si presuppone che possa essere trasmesso ad un "altro"), qualsiasi considerazione appaia nella nostra mente diventa per noi un assioma, una verità, che "possediamo" in comune, ma – attenti - a chi appare quel pensiero? Prima di poterlo condividere, chi è quell'io cosciente che lo percepisce (e successivamente lo condivide)? Senza la prima persona, senza l'essere in prima persona, come è possibile divenire coscienti dell'altro? E del qui ed ora, etc. etc. etc.
Questo bel discorso, perciò, non implementa la nostra esistenza, il nostro essere coscienti, se non – forse - per il "sospetto" (mi auguro sia certezza) che "io sono quel che tu sei". Io sono, e quindi tu sei e quando tu sei, io sono allo stesso tempo, ecco - ci siamo riflessi l'uno nell'altro, quindi tu ed io siamo la stessa identica cosa: cioè, coscienza.
Continuando nel riverbero, la vedi ora la "specularità" delle forme? Ma per i fatti pratici accettiamo la separazione, come in un sogno, perché questo è il gioco della coscienza...
"....just for the sake of the game..."
Paolo D'Arpini
...sulle vie del karma... verso "un destino crudele" o verso la liberazione dal senso di separazione?
Quando si parla della legge di causa ed effetto, ovvero di karma e sue conseguenze, alcune persone "religiose" ritengono che ci sia una ingiustizia di fondo, da parte della divinità, che consente la formazione di un male che poi deve essere scontato dalle anime, su questa terra o in un altro mondo, attraverso un "destino crudele", personale e collettivo.
Il guaio del concetto di "Dio" è che noi lo riteniamo un ente alieno, separato da noi, per questo, guardando con gli occhi della spiritualità laica, io non apprezzo molto le religioni teiste. Nel girare in tondo versò ciò che siamo, nel "percorso" del ritorno alla nostra pienezza, che non abbiamo mai perso ma solo dimenticato, ci sembra di toccare delle "tappe".
Talvolta ci piace sostare nel concetto dell'etica ma il concetto di bene e di male è un contro-altare da saltare a piè pari. Yin e Yang sono aspetti relativi alla manifestazione, come il polo positivo e negativo dell'energia elettrica che fa muovere il mondo.
Lasciamo da parte ogni spiegazione morale che non farebbe altro che creare ulteriore confusione poiché sta all'interno dell'illusione, nello specchio duale della mente, lasciamo da parte ogni concettualizzazione, vediamo se resta qualcosa?
Qualcosa resta di sicuro, è la Coscienza che consente ogni visualizzazione e percezione, che è la "percezione" stessa.
In ognuno di noi è la sola presenza reale che illumina il senso dell'io (e del tu). Senza detta coscienza non potrebbe esistere alcunché. Tu sei -io sono- quella coscienza e basta.
....La coscienza non è ciò che appare nella coscienza, non è -per intenderci- sensazione, pensiero, emozione, intuizione, visione ma è quella luce che rende possibile ogni percepire. Perciò anche questa spiegazione fatta di parole non può qualificare o indicare la coscienza. E perfino questo mio è un futile tentativo di definire l'indefinibile... ogni definizione è contenuto e mai può essere contenitore.
Inseguendo il concetto di Coscienza non possiamo seguire un tracciato solido, ma possiamo almeno stabilire ciò che "non" è coscienza, neghiamo ogni costrutto, assioma, assunzione, pretesa di descrivere ed incarnare la coscienza.
Ed è proprio in questi termini che si configura la mia opposizione nei confronti delle religioni e delle ideologie. Ma non vi è alcun obbligo a restare impantanati in un "credo" (il momento che ne hai capito le conseguenze). Solo colui che insiste nel voler credere è compartecipe del bene e del male di quel credo.
Eppure, non è il credere anch'esso un pensiero? E non dicevamo poco fa che la coscienza non può mai essere "rappresentata" da un pensiero, da una immagine?
Quindi, perché restare avvinghiati a qualcosa che è mera illusione, un simbolo duale del "bene e male"? Ed inoltre, non è forse detto persino nella bibbia che l'uomo fu allontanato dal paradiso terrestre per aver voluto tastare il frutto del bene e del male? E non è detto, ancora, stavolta nel vangelo, ‘beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli?’ Ed in questo caso non è forse lo spirito della caparbietà e dell'illusione di considerarsi separati che impedisce l'accesso a quel regno?
La sola cosa da fare è abbandonare l'arroganza separativa e senza paura tornare alla nostra vera casa (che non abbiamo mai lasciato)...
Eppure, non è il credere anch'esso un pensiero? E non dicevamo poco fa che la coscienza non può mai essere "rappresentata" da un pensiero, da una immagine?
Quindi, perché restare avvinghiati a qualcosa che è mera illusione, un simbolo duale del "bene e male"? Ed inoltre, non è forse detto persino nella bibbia che l'uomo fu allontanato dal paradiso terrestre per aver voluto tastare il frutto del bene e del male? E non è detto, ancora, stavolta nel vangelo, ‘beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli?’ Ed in questo caso non è forse lo spirito della caparbietà e dell'illusione di considerarsi separati che impedisce l'accesso a quel regno?
La sola cosa da fare è abbandonare l'arroganza separativa e senza paura tornare alla nostra vera casa (che non abbiamo mai lasciato)...
Paolo D'Arpini
Karma e sangue freddo!
…nel nostro mondo di manifestazione esiste la legge del Karma… E tutto quello che (ci) accade dipende da questa legge… Una persona fa (dice, o pensa) una certa cosa e questo fatto mette in moto tutta una serie di eventi e circostanze in linea con quella azione… Se l’azione è buona crea effetti buoni, se invece è meno buona, ovviamente creerà effetti spiacevoli. Il punto è che noi non abbiamo il controllo dei nostri pensieri (e spesso, neanche delle parole e delle azioni…).
Così, questi pensieri sottili ci fregano e fanno originare quei fatti spiacevoli (e purtroppo, noi non ne siamo consapevoli perché spesso avvengono a distanza di tempo e spazio e non sempre a riguardo delle stesse persone, (cioè, se uno ha un pensiero di rabbia, di invidia o di qualunque altro tipo emotivo verso una data persona, è possibile che a distanza di tempo (anche anni…) e in luoghi diversi quei pensieri mi si ritorcano contro, con una energia negativa attivata dalla risposta karmica, e potrà accadere che altre persone cercheranno di farmi del male…
Tutto questo dipende soprattutto dalla nostra mente ignorante che NON RICONOSCE IL VERO MODO DI ESSERE DEI FENOMENI, e quindi, CREDENDOCI CIECAMENTE, li rende REALI e pertanto ci fa subire gli effetti di questa nostra adesione e cieca credenza alla loro presunta realtà… Ci vogliono ANNI di pratica meditativa profonda, a fianco di un vero insegnante del vero Dharma, per capire tutto questo e darci l’opportunità di far smettere di generare quel tipo di karma. Ed inoltre, devi sapere che LE PREGHIERE SERVONO A POCO, nel senso che fintanto che non si arriva alla vera Comprensione di come stanno veramente le cose, anche le nostre preghiere o recite di mantra, vengono espresse in modo dualistico, con la speranza che qualche entità divina (purtroppo, non-reale neanche essa…), ci venga in aiuto e in soccorso.
Perciò, ora sai… e dunque al momento il miglior consiglio che posso darti è di distaccarti da questi tuoi pensieri che ti fanno credere a quel fastidioso fatto… Cerca di evitare di rimuginarci sopra… Manda via ogni tua interpretazione personale, e lascia cadere la cosa, vedrai che in breve tempo quella cosa svanirà dalla tua mente e non ti tormenterà più, perché l’effetto karmico si sgretolerà e passerà (come d’altronde tutte le cose…). La tua arma in questo momento deve essere la pazienza.
Nel Chan noi la chiamiamo ‘anupatthikadharmakshanti’, ed essa significa “La paziente sopportazione dell’Increato – cioè di ciò che non esiste in modo reale). Così, devi sopportare che la cosa passi, lascia passare questo momento, NON REAGIRE e lasciala andare. Se tu la dimenticherai essa non avrà più vera esistenza…
Alberto Mengoni – Centro Nirvana
Preghiera alla erbe di guarigione
Un tempo le erbe furono Déi: numi benevoli al servizio del genere
umano, prole generata dal ventre prolifico della Madre Terra,
strumento alchemico di salute. L’umido suolo fu il loro altare;
l’uomo, fragile creatura, il loro fedele adepto.
O erbe potenti, ora a tutte voi rivolgo la mia preghiera!
Imploro la vostra autorità, voi che la Madre Terra
ha generato e ha offerto in dono all’umanità:
ha riunito in voi i rimedi e i poteri curativi,
affinché siate sempre utilissimo aiuto
per l’intero genere umano.
Di ciò vi supplico e prego: venite,
avvicinatevi più rapidamente con le vostre virtù,
poiché Lei, che vi ha creato, mi ha concesso
di raccogliervi; è inoltre propizio colui al quale
l’arte medica è stata affidata. E nella misura in cui
la vostra virtù ne ha il potere, assicurate il rimedio
che giovi alla salute. Vi prego che mi facciate grazia
per la vostra forza, affinché in ogni situazione,
qualunque atto avrò compiuto nel vostro nome,
a chiunque vi avrò somministrato, garantiate successo
e rapido effetto. Che sempre mi sia lecito,
col favore della vostra autorità,
raccogliervi...
vi farò offerta dei frutti della terra e vi renderò grazie
nel nome della Madre che stabilì che foste generate.
La fortuita conservazione di quattro manoscritti di antichi erbari (il
più antico è del VI secolo d.C.) ha concesso la sopravvivenza di
questo breve frammento poetico in lingua latina, un’invocazione alle
erbe nota con il nome di Precatio omnium herbarum: non l’unica nel suo
genere, ma certamente tra le più commoventi attestazioni della
devozione dell’uomo antico nei confronti del potere terapeutico insito
nella natura. Nulla di più spontaneo, per la visione magica e
animistica che è propria del senso religioso più arcaico,
dell’invocare gli dèi nelle loro forme arboree, simulacri capaci di
sacrificare all’uomo una corporeità vegetale offerta per essere
spezzata, recisa, raccolta, trasformata e utilizzata sotto forma di
rimedio medicinale.
Il richiamo insistito alla maiestas e alle virtutes delle erbe
officinali avviene nel nome di una madre, Mater Tellus, che ha
predisposto l’ordine del cosmo. Non è dunque un caso se questo
frammento è accompagnato nelle diverse redazioni da una seconda
preghiera, la Precatio Terrae, intensa invocazione a una divinità
antica quanto l’uomo: la sacra Terra, arbitra della natura e di tutto
ciò che è vitale, colei che ogni cosa genera e rigenera. Una dea
dispensatrice di molteplici doni che, nell’immagine potente dell’inno,
sorge dal caos primordiale per riportare la luce e mettere in fuga la
notte. Comanda i venti, le piogge e le turbolenze, ma tra le sue
braccia la natura sa farsi silenziosa per accogliere il riposo
invernale. Vita e morte sono entrambe il suo dominio, poiché quando
l’anima si ritira dal corpo in Lei trova rifugio. Tutto ciò che
dispensa, a Lei fa infine ritorno.
La bellezza e la forza poetica di questi testi ci schiudono una
visione che con ogni evidenza appartiene a una religione ben più
antica rispetto alle vicende redazionali che li hanno prodotti e ai
manoscritti che ce li hanno trasmessi. Possiedono il senso di stupore
e di reverenza di tempi in cui il dialogo con ciò che è sacro non
passava attraverso la mediazione di divinità antropomorfe: tempi in
cui l’uomo era vicino alla forma più pura del dio. Spiccare l’erba
medicinale dal suo stelo significava accogliere il sacrificio del
principio divino in essa concentrato: l’atto di preghiera ne era il
necessario tributo di gratitudine. Ed è anche possibile immaginare che
questi inni venissero recitati nel gesto stesso della raccolta, nelle
modalità di un rito magico e propiziatorio mirato all’attivazione
della virtù terapeutica della pianta e alla trasformazione in
pharmakon.
Figlie amorevoli della madre primordiale, le erbe celano nella loro
apparente fragilità ed esile presenza il mistero divino della
guarigione. La letteratura relativa alle invocazioni alle erbe è tanto
ricca quanto sconosciuta, e si nutre di riferimenti che dai papiri
magici egizi spaziano fino alle pagine degli erbari della tarda
latinità, dove le preghiere botaniche ancora trovano spazio, residui
di un’archeologia sacra sopravvissuta per fortunata casualità tra le
righe della nuova medicina razionale. Compare così nel Corpus
Medicorum Latinorum un’invocazione attribuita ad Antonio Musa, medico
dell’imperatore Augusto, dedicata all’erba betonica, magna herbarum,
capace di guarire bel 47 diverse malattie. E ancora, in un’appendice
dei codici dell’Erbario dello Pseudo-Apuleio, la proserpinaca, o
serpentaria, erba regolatrice dei malesseri mestruali femminili, è
chiamata a compiere incantesimi (“incantare”), e similmente vengono
invocati il cocomero, il basilico, il prezzemolo, l’edera, la menta,
l’aneto, la ruta...
Ciò che è avvenuto in seguito è storia più conosciuta. Gli dèi
dell’olimpo ellenico, nuovi ospiti di uno spazio geografico e
culturale di antichissimo sostrato, procedettero a una spartizione dei
territori dell’immaginario sacro. Le profonde simbologie arboree e
vegetali vennero fagocitate da questo nuovo ordine di appropriazione,
finendo per essere assegnate per forza di attrazione alla sfera di
singole divinità o personalità eroiche. A ogni pianta, a ogni erba, si
assegna allora un valore magico, una valenza farmaceutica riferita
alla dimensione simbolica di un dio o di una dea. La sua appartenenza
archetipica va a comporre quella che potremmo definire una biografia
mitica della pianta stessa, che si arricchisce nelle trame di
un’aneddotica eziologica. In una sorta di catalogo mitologico troviamo
declinate le piante dell’oltretomba, le erbe apollinee e solari,
quelle afrodisiache, dominio di Venere, quelle donate da Ermes,
trovate da Prometeo, scoperte da Eracle. Secondo un principio di
simpatia semplici quali il prezzemolo, dal potere abortivo, o la menta
e il salice, antigenerativi e anafrodisiaci, sarebbero assegnati alle
divinità infere; tutte le piante afrodisiache a Venere.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi in un’agiografia arborea ricca di
sfumature. L’iperico, poiché nacque dalle gocce del sangue del superbo
Prometeo, si rivela capace di curare nell’uomo la tendenza alla
megalomania. Il papavero, che seda e placa gli affanni, è sacro a
Demetra, la dea che subì l’atroce sofferenza della separazione dalla
figlia Kore, a lei rapita dal tenebroso Ade. La calendula, nata dalle
lacrime di Venere affranta per la morte del giovane amante Adone, ha
virtù di curare le pene d’amore. Il capelvenere, poiché ricorda la
chioma della dea, è un rimedio contro la caduta dei capelli.
Rito, associazione mitica e proprietà medicinale si uniscono in una
relazione indissolubile. Anche le formule di preghiera, in questa
nuova rivisitazione dell’immaginario sacro, si riorganizzarono. L’erba
o la pianta si ammanta di sacralità perché avvinta alle vicende
mitiche del dio che l’ha scoperta o colta per la prima volta: è
scaturita dal suo sangue o dalle sue lacrime, oppure è il risultato
della metamorfosi divina di una ninfa o di una creatura amata. Con il
trascorrere dei secoli la forza di questo universo mitico non si è
estinta, riversandosi nell’orizzonte della tradizione popolare
cristiana, laddove le antiche invocazioni propiziatorie continuarono
ad essere associate al momento della raccolta delle erbe officinali. I
contenuti vennero assorbiti dall’immaginario cristiano, e
l’attivazione terapeutica della pianta spesso associata al fatto di
essere stata raccolta per la prima volta sul Monte Calvario, nuovo
omphalos virtuale, o di aver guarito le piaghe di Gesù. Si rinnova il
senso della raccolta come atto rituale primordiale, attraverso il
quale l’erba, saturata di sacro, può accedere alla dimensione di
pianta cosmica. Sopravvive in questi gesti ancestrali l’antica
certezza di Talete: “tutte le cose sono piene di dèi”.
Erika Maderna - In collaborazione con Aboca: [www.abocamuseum.it]