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Lo zen come “filosofia” surreale - Nella visione di Julius Evola



Lo Zen, per l'Occidente in crisi, presenta qualcosa di «esistenzialistico» e di surrealistico. Anche la concezione Zen di una realizzazione spirituale libera da qualsiasi fede e da qualsiasi vincolo e, in più, il miraggio di una «rottura di livello» istantanea e, in un certo modo, gratuita, tale, tuttavia, da risolvere ogni angoscia dell'esistenza, non ha potuto certo non esercitare su molti una attrazione particolare.

Però tutto questo riguarda, in buona misura, soltanto le apparenze: la «filosofia della crisi» in Occidente, che è la conseguenza di tutto uno sviluppo materialistico e nichilistico, e lo Zen, che per antecedente ha sempre la spiritualità della tradizione buddhista, presentano dimensioni spirituali ben distinte, per cui ogni autentico incontro presuppone, in un Occidentale, o una predisposizione eccezionale, ovvero la capacità di quellametànoia, di quel rivolgimento interno, che riguarda meno «atteggiamenti» intellettuali che non ciò che in ogni tempo e luogo è stato concepito come qualcosa di assai più profondo.

Lo Zen vale come la dottrina segreta trasmessa, al di fuori delle scritture, dallo stesso Buddha al suo discepolo Mahâkâçyapa, introdotta in Cina verso il VI° secolo da Bodhidharma e poi continuatasi attraverso una successione di Maestri e di «Patriarchi» sia in Cina che in Giappone, ove è ancor vivo ed ha i suoi rappresentanti e i suoi Zendo (le «Sale di Meditazione»). Quanto a spirito, lo Zen può venir considerato come una ripresa dello stesso Buddhismo delle origini. Il Buddhismo nacque come una energica reazione contro lo speculare teologizzante e il vuoto ritualismo in cui era finita l'antica casta sacerdotale indù, già detentrice di una sapienza sacra e viva. Il Buddha fece tabula rasa di tutto questo; pose invece il problema pratico del superamento di ciò che nelle esposizioni popolari viene presentato come «il dolore dell'esistenza» ma che nell'insegnamento interno appare essere, più in genere, lo stato di caducità, di agitazione, di «sete» e di oblio degli esseri comuni. Avendola lui stesso percorsa senza l'aiuto di nessuno, egli indicò a chi ne sentiva la vocazione la via del risveglio, della immortalità. Buddha, come si sa, non è un nome, ma un attributo, un titolo; significa il «Risvegliato», «Colui che ha conseguito il risveglio» o l'«illuminazione».

Quanto al contenuto della sua esperienza il Buddha restò in silenzio, ad impedire che, di nuovo, invece di agire, ci si desse a speculare e a filosofare. Così egli non parlò, come i suoi predecessori, del Brahman (l'Assoluto), nè dell'Atmâ (l'Io trascendentale) ma usò il solo termine negativo di nirvâna, anche a rischio di fornire appigli a coloro che, nella loro incomprensione, nel nirvâna vollero vedere il «nulla», una ineffabile e evanescente trascendenza, quasi al limite dell'inconscio e di un cieco non-essere.

Orbene, nel successivo sviluppo del Buddhismo, mutatis mutandis, si ripeté proprio la situazione contro cui il Buddha aveva reagito; il Buddhismo divenne una religione coi suoi dogmi, coi suoi rituali, con la sua scolastica, con la sua mitologia. Esso inoltre si differenziò in due scuole, l'una - il Mâhâyâna - più ricca di metafisica e compiacentesi di un astruso simbolismo, l'altra - l'Hinayâna - maggiormente severa e nuda nei suoi insegnamenti, ma troppo preoccupata della semplice disciplina morale, portata su di una linea più o meno monastica. Il nucleo essenziale e originario, ossia la dottrina esoterica dell'illuminazione, andò quasi perduto.

Ed ecco che qui interviene lo Zen, a far daccapo tabula rasa, a dichiarare l'inutilità di tutti quei sottoprodotti, a proclamare la dottrina del satori. Il satori è un fondamentale avvenimento interiore, una brusca rottura di livello esistenziale, corrispondente in essenza a ciò che abbiamo chiamato il «Risveglio». Però la formulazione fu nuova, originale, vicina ad una specie di capovolgimento. Lo stato del nirvâna - il presunto ‘nulla’, l'estinzione, già lontano termine finale di uno sforzo di liberazione che secondo alcuni richiederebbe ben più di una unica esistenza - viene ora indicato come lo stato normale dell'uomo. Ogni uomo ha la natura di Buddha.

Ogni uomo è già un «liberato», superiore a nascita e a morte. Si tratta solamente di accorgersene, di realizzarlo, di «vedere nella propria natura», formula fondamentale dello Zen. Come uno spalancamento senza tempo - questo è il satori. Per un lato, il satori è qualcosa di improvviso e di radicalmente diverso da tutti gli stati a cui sono abituati gli uomini, è come un trauma catastrofico della coscienza ordinaria; ma nel contempo è ciò che riconduce appunto a quel qualcosa che, in un senso superiore, va considerato come normale e naturale; quindi è il contrario di una estasi, o di unatrance. È il ritrovamento e la presa di possesso della propria natura: illuminazione, o luce, che trae fuori dall'ignoranza o dalla subcoscienza la realtà profonda di ciò che, da sempre, è stato e che mai cesserà di essere, qualunque sia la propria condizione.

La conseguenza del satori sarebbe una visione completamente nuova del mondo e della vita. Per chi lo ha avuto, ogni cosa è lo stesso tutto - le cose, gli altri esseri, sè medesimo, «il cielo, i fiumi e la vasta terra» - eppure tutto è fondamentalmente diverso: come se una dimensione nuova si fosse aggiunta alla realtà e ne avesse trasformato completamente il significato e il valore. Secondo quanto dicono i maestri dello Zen, il tratto essenziale della nuova esperienza è il superamento di ogni dualismo: dualismo fra dentro e fuori, fra Io e non-Io, fra finito e infinito, fra essere e non essere, fra apparenza e realtà, fra «vuoto» e «pieno», fra sostanza e accidenti - e altresì indiscernibilità di ogni valore posto dualisticamente dalla coscienza offuscata e finita del singolo, sino a dei limiti paradossali: sono una stessa cosa il liberato e il non-liberato, l'illuminato e il non-illuminato, questo mondo e l'altro mondo, colpa e virtù.

Lo Zen riprende effettivamente l'equazione paradossale del Buddhismo Mâhâyâna: “nirvâna = samsâra” e quella del Taoismo: «l'infinitamente lontano è il ritorno a casa». È come dire: la liberazione non è da cercarsi in un aldilà; questo stesso mondo è l'aldilà, è la liberazione, nulla ha bisogno di essere liberato. Il punto di vista del satori, della illuminazione perfetta, della «sapienza trascendente» (prajñâpâramitâ), è questo.
In essenza, si tratta di uno spostamento del centro di sé. In qualsiasi situazione e in qualsiasi avvenimento della vita ordinaria, anche nei più banali, il posto del senso comune, dualizzante e intellettualistico di sé viene preso da quello di un essere che non conosce più un ‘Io’ contrapposto ad un ‘non-Io’, che trascende e riprende i termini di ogni antitesi, tanto da godere di una perfetta libertà e incoercibilità: come quella del vento, che soffia dove vuole, ed anche dell'essere nudo che, proprio perchè «ha lasciato la presa», (altra espressione tecnica), proprio perchè ha abbandonato tutto («povertà»), è tutto e possiede tutto.

Lo Zen - almeno la corrente predominante dello Zen - insiste sul carattere discontinuo, improvviso, imprevedibile della dischiusura del satori. Con riferimento a ciò, Suzuki era andato oltre il segno nel polemizzare contro le tecniche in uso nelle scuole indù, nel Shâmkhya e nello Yoga, ma contemplate anche in alcuni dei testi originari del Buddhismo. La similitudine è quella dell'acqua che ad un dato momento si tramuta in ghiaccio. Viene anche data l'immagine di una suoneria che ad un dato punto, per una qualche scossa, scatta. Non vi sarebbero sforzi, discipline o tecniche che di per sè possano condurre al satori. Si dice, anzi, che talvolta esso interviene ad un tratto, quando abbiamo esaurito tutte le risorse del nostro essere, soprattutto del nostro intelletto e della nostra capacità logica di comprensione. Altre volte sensazioni violente, perfino un dolore fisico, possono propiziarlo. Ma la causa può essere anche la semplice percezione di un oggetto, un fatto qualunque dell'esistenza ordinaria, data una certa disposizione latente dell'animo.

A tal riguardo, possono però nascere degli equivoci. Succede che, come riconobbe lo stesso Suzuki, «in genere non sono state date indicazioni sul lavoro interiore che precede il satori». Egli, comunque, parla della necessità di passare, prima, per un «vero battesimo del fuoco». Del resto, la stessa istituzione delle cosidette «Sale di Meditazione», dove coloro che vogliono raggiungere il satori si assoggettano ad un regime di vita in parte analogo a quello di alcuni Ordini Cattolici, indica la necessità di una preparazione preliminare, la quale anzi può richiedere un periodo di molti anni. L'essenziale sembrerebbe consistere in un processo di maturazione, identico a quello dell'avvicinarsi ad uno stato di estrema instabilità esistenziale, dato il quale basta un minimo urto per produrre il cambiamento di stato, la rottura di livello, l'apertura che conduce alla «visione folgorante della propria natura».

I Maestri conoscono il momento in cui la mente del discepolo è matura e l'apertura è sul punto di prodursi; allora essi danno, eventualmente, la spinta decisiva. Talvolta può essere un semplice gesto, un’esclamazione, qualcosa di apparentemente irrile-vante, perfino di illogico, di assurdo. Ciò basta a produrre il crollo di tutta la falsa individualità e, col satori, subentra lo «stato reale», e così si assume il «proprio volto originario», «quello che si aveva prima della creazione». Non si è più dei «cacciatori di echi» e degli «inseguitori di ombre». Viene da pensare, in alcuni casi, ad un’analogia del motivo esistenzialista del «fallimento» o «naufragio» (das Scheitern - Kierkegaard, Jaspers). Infatti, come si è accennato, spesso l'apertura avviene appunto quando si sono esaurite tutte le risorse del proprio essere e, per così dire, si è messi con le spalle al muro. Lo si può vedere in relazione ad alcuni metodi pratici di insegnamento dello Zen. Gli strumenti più usati sul piano intellettuale sono i kôan e i mondo; il discepolo viene messo dinanzi a dei detti o a delle risposte di un genere paradossale, assurdo, talvolta grottesco o «surrealistico». 

Si deve logorare la mente, se necessario per anni interi, fino al limite estremo di ogni facoltà normale di comprensione. Se, allora, si osa poi fare ancora un altro passo avanti, può prodursi la catastrofe, il capovolgimento, la metànoia. Si ha così il satori.

In pari tempo, la norma dello Zen è quella di una assoluta autonomia. Niente dèi, niente culti, niente idoli. Svuotarsi di tutto, perfino di Dio. «Se sulla tua via incontri il Buddha, uccidilo» - disse un Maestro. Occorre abbandonare tutto, non appoggiarsi a nulla, andare avanti, con la sola essenza, fino al punto della crisi. Dire qualcosa di più sul satori e fare un confronto fra esso e le varie forme di esperienza mistica e iniziatica d'Oriente e d'Occidente, è molto difficile. Avendo accennato ai monasteri Zen, vale rilevare che in essi vi si trascorre solo il periodo della preparazione. Chi ha conseguito il satori, lascia il convento e la «Sala della Meditazione», torna al mondo scegliendosi la via che più gli conviene. Si potrebbe pensare che il satori sia una specie di trascendenza che allora si porta nell'immanenza, come stato naturale, in ogni forma della vita.

Dalla nuova dimensione che, come si è detto, in seguito al satori si aggiunge alla realtà, procede un comportamento per il quale potrebbe valere la massima di Lao-tze: «Essere interi nel frammentato». In relazione a ciò, è stata rilevata l'influenza che lo Zen ha esercitato sulla vita estremo-orientale. Fra l'altro, lo Zen è stato chiamato «la filosofia del Samuraj» e si è potuto affermare che «la via dello Zen è identica alla via dell'arco» o «della spada». Si vuol significare che ogni attività della vita può essere compenetrata di Zen e così elevata ad un significato superiore, ad un'«interezza» e ad una «impersonalità attiva». Un senso di irrilevanza dell'individuo che non paralizza, ma assicura una calma e un distacco che permette una assunzione assoluta e «pura» della vita, in determinati casi sino a forme estreme e tipiche di eroismo e di sacrificio, che per la maggioranza degli Occidentali sono quasi inconcepibili (vedi il caso dei Kamikazé nell'ultima guerra mondiale).

E' uno scherzo ciò che dice Jung, ossia che, più di qualsiasi corrente occidentale, è la psicanalisi che potrebbe capire lo Zen, perchè, secondo lui, l'effetto del satori sarebbe la stessa interezza priva di complessi e di scissioni a cui presume di giungere il trattamento psicanalitico quando rimuove le ostruzioni dell'intelletto e le sue pretese di supremazia, e ricongiunge la parte cosciente dell'anima con l'inconscio e con la «Vita». Ma Jung non si è accorto che, nello Zen, sia il metodo che tutti i presupposti stanno all'opposto dei suoi: non esiste «inconscio» come una entità a sé stante, a cui debba aprirsi il conscio, ma si tratta di una visione supercosciente (l'illuminazione, la bodhi o «risveglio») che porta in atto la luminosa «natura originaria» e, con ciò, distrugge l'inconscio. Tuttavia ci si può tenere al sentimento di una «totalità» e libertà dell'essere che va a manifestarsi in ogni atto dell'esistenza. Un punto particolare è però di precisare il livello a cui ci si riferisce.

In effetti, specie nella sua esportazione fra noi in Occidente, si sono avute delle tendenze ad «addomesticare» o moralizzare lo Zen velandone, anche sul piano della semplice condotta di vita, le possibili conseguenze radicaliste e «antinomistiche» (= di antitesi alle norme vigenti), insistendo invece sugli obbligatori ingredienti di tutti gli «spiritualisti», cioè sull'amore e sul servizio al prossimo, sia pure purificati in una forma impersonale e a-sentimentale. In genere, sulla «praticabilità» dello Zen, non possono non nascere dei dubbi, in relazione al fatto che la «dottrina del risveglio» ha un carattere essenzialmente iniziatico. Così essa non potrà mai riguardare che una minoranza, in opposto al più tardo Buddhismo che prese la forma di una religione più aperta a tutti, oppure di un codice di semplice moralità.

Come ristabilimento dello spirito del Buddhismo originario, lo Zen avrebbe dovuto attenersi ad un esoterismo. In parte, lo ha fatto: basta riandare alla leggenda delle sue origini. Tuttavia vediamo che lo stesso Suzuki è stato incline a presentare in modo diverso le cose e ha valorizzato quegli aspetti del Mahâyâna che «democratizzano» il Buddhismo (del resto. la denominazione «Mahâyâna» è stata interpretata come il «Grande Veicolo» anche nel senso che sarebbe adatto per ampie cerchia, e non per pochi). 

Se si dovesse seguirlo, nascerebbero delle perplessità sulla natura e sulla portata dello stesso satori; sarebbe cioè da chiedersi se una tale esperienza riguardi semplicemente il dominio psicologico, morale o mentale o se investa quello ontologico, come è il caso per ogni iniziazione autentica, della quale però può esser questione solo per un assai piccolo numero di partecipanti.

Julius Evola

Esiste "altra" vita nell'Universo?



Uh, Uhu… Certo, mettersi a parlare di UFO ed alieni non è propriamente nel mio filone culturale, anche se talvolta in passato me ne sono occupato.

Veramente ricordo che anche il mio Guru, Swami Muktananda, in vari discorsi parlò di abitanti di altri piani e di altri mondi. E che la vita sia possibile in ogni condizione, anche diversa dal nostro sistema biologico, è una logica conseguenza dell’espressione della Coscienza attraverso i cinque elementi: Etere, Aria, Fuoco, Acqua e Terra.

Si dice che possano esistere intelligenze ed enti persino nelle stelle (trattasi evidentemente di esseri energetici dell’elemento Fuoco).

Beh, comunque l’Universo è praticamente infinito e la considerazione che la vita possa essere  presente in esso, nella totalità di esso, è decisamente plausibile.

Anche a titolo personale ho avuto delle “sensazioni” che mi fanno intuire che altre forme vitali possano e vogliano prendere contatto con noi umani, anche se -lo confesso- dal mio punto di vista ritengo che sia opportuna la non interferenza diretta fra le specie in via evolutiva.

Ovvero ritengo che ogni specie vivente, su ogni nucleo o dimensione, debba potersi sviluppare senza che ci siano dirette manomissioni nella sua crescita da parte di entità aliene. Perciò il contatto con gli alieni -secondo me- dovrebbe avvenire unicamente su un piano di parità, almeno in senso spirituale se non tecnologico.

Comunque tutto è possibile…. e d’altronde anche noi, in quanto specie umana, abbiamo pesantemente interferito nello sviluppo degli animali (perlopiù sfruttandoli e torturandoli) forse ci meritiamo altrettanto da parte di intelligenze più evolute…

Ma se realmente fossero “più evolute” potranno poi compiere quegli stessi errori nei nostri confronti?

Paolo D'Arpini


(Fonte: http://www.terranuova.it/Blog/Riconoscersi-in-cio-che-e/Esistono-altre-vite-oltre-quelle-sul-pianeta-Terra)

Il ritorno ai bisogni primari di Osho



"Vivi una vita semplice nella quale i tuoi bisogni sono soddisfatti, senza alcun desiderio folle. Hai bisogno di cibo, di vestiti, hai bisogno di un riparo, nient’altro. Hai bisogno di qualcuno da amare, hai bisogno di qualcuno da cui essere amato. Amore, cibo, riparo – semplice."

Un uomo austero arriva a capire che la felicità è la natura stessa della vita. Non hai bisogno di alcuna ragione per essere felice. Puoi essere felice semplicemente perché sei vivo! La vita è felicità, la vita è beatitudine; ma questo è possibile solo per un uomo austero.

Un uomo che accumula cose, pensa sempre che diventerà felice grazie a queste cose. Palazzi, soldi, aggeggi vari – pensa che grazie a queste cose diventerà felice.


Le ricchezze non sono il problema; il problema è l’atteggiamento dell’uomo che cerca di ottenere quelle ricchezze. L’atteggiamento è: se non riesco ad avere tutte queste cose, non posso essere felice. Quest’uomo resterà sempre infelice.


Un uomo austero arriva a capire che la vita è così semplice che, qualunque cosa possegga, può essere felice. Non ha bisogno di aspettare qualcos’altro.


Allora l’austerità significherà: ritorna ai tuoi bisogni. I desideri sono follia, i bisogni sono naturali. Cibo, riparo, amore – riporta tutta la tua energia vitale al livello dei bisogni e sarai felice.


Un uomo felice non può che essere religioso. Un uomo infelice non può che essere irreligioso. Può anche pregare, può andare al tempio o alla moschea, ma questo non ha importanza. Come può pregare un uomo infelice? La sua preghiera sarà una lamentela profonda, un rancore. Sarà piena di rabbia. La preghiera è gratitudine, non lamentela.
Perciò ricorda: più sei orientato al possesso, meno sarai felice. E meno felice sei, più sarai lontano dal divino, dalla preghiera, dalla gratitudine. 


Sii austero. Vivi col necessario e dimentica i desideri; sono fantasie della mente, increspature nel lago. Ti possono solo dare disturbo, non possono mai portarti ad alcuna soddisfazione."

Osho - ("Yoga: potenza e libertà")

Così parlò Milarepa



Sono uno yogi che vaga per il paese,
Un mendicante che viaggia solo,
Un povero che non possiede nulla.
Ho lasciato dietro di me la terra che mi ha visto nascere,
Ho voltato le spalle alla mia bella casa,
Ho abbandonato i miei fertili campi.
Sono stato in ritiro solitario, sulle montagne,
Ho praticato in caverne di roccia circondate dalla neve,
E ho trovato il cibo come fanno gli uccelli
Così è stato fino ad ora.
E' impossibile predire il giorno della mia morte,
Ma io ho uno scopo prima di morire.
Questa è la storia di me, lo yogi;
Ora, vi darò qualche consiglio:

 Cercando di controllare gli eventi di questa vita, 

Cercando continuamente di fare i furbi, 

Milarepa.gif (9844 byte)Sempre tentando di manipolare il vostro mondo, 

Coinvolti in ripetitive relazioni sociali...

Nel mezzo di queste preparazioni per il futuro
Arrivate senza saperlo alla fine dei vostri anni,
Senza realizzare che la vostra fronte è piena di rughe,
Inconsapevoli che i capelli sono diventati bianchi.
Mentre siete inseguiti dagli emissari delle morte
Continuate a cercare piaceri effimeri.
Senza sapere se la vita durerà fine alla mattina dopo,
Continuate a pianificare il vostro futuro.
Senza sapere dove rinascerete,
Insistete nella vostra compiacente contentezza.
Ora è il momento di prepararsi alla morte,
Questo è il mio sincero consiglio;
Se ne capite il valore, iniziate a praticare.

Milarepa

Tratto da "Buddhismo in Occidente"


(Fonte: Centro Nirvana)

Laicità e matrismo opposti a ideologia e patriarcato



Controllando sul vocabolario  l'origine etimologica della parola "laico" viene fuori una cosa  sconcertante... "Laico", dal latino "laicus" di derivazione dal greco "laikos" significa "del popolo, profano, estraneo al contesto strutturale sociale e religioso", opposto a "clerikos" (dal greco) "del clero"! 

Tutta la storia è stata scritta dal patriarcato, ed anche il significato delle parole, tant'è vero che le antiche simbologie sono state descritte in negativo. Il fatto che la parola laikos in greco esprima  un giudizio negativo aiuta la mia teoria..... Avvenne lo stesso per i pariah (o fuori-casta) indiani, così disprezzati dagli ariani  (patriarcali). Sia il laico che il fuori-casta erano esclusi dalla società civile, costituita in termini di classe e censo (dal padre). Altrettanto essi erano considerati estranei alla cultura  religiosa ufficiale (e quindi opposti al clericos ed al bramano).

Ad esempio nel sud dell'India, meno toccato dalla cultura patriarcale, si mantennero i culti dedicati alla shakti (energia femminile) in cui non vi è uno specifico sacerdozio costituito. Tutto ciò  fa supporre che l'emarginazione sociale ed il dis-rispetto subito dai laici in Grecia,- o dai pariah in India-, (ritenuti apolidi, popolino basso ed ignorante) era senz'altro l'effetto della emarginazione finale nei confronti della cultura espressivamente libera e della spiritualità non gerarchizzata del matrismo.

Tra l'altro sia in Grecia, come nell'area dravidiana del subcontinente indiano, resistette  (Creta ne è un esempio) un lembo matristico. La lotta di costume e di pensiero fra patriarcato e matrismo era ancora in atto ai tempi in cui fu coniato il termine "laikos" e "pariah" dalla cultura patriarcale  che stava avendo il sopravvento sull'altra. 


Parlare di "Spiritualità laica" corrisponde al parlare di "Spiritualità naturale", ovvero una spiritualità non strutturata in alcuna forma di credo ma basata sull'intuizione spontanea dell'uomo, entrambe queste definizioni evocano la stessa identica cosa: la capacità di percepire in se stessi, senza tramiti, la presenza dello Spirito, una sintesi fra coscienza ed intelligenza.

Oggi il termine "laico" è sostanzialmente travisato ma è sicuramente preferibile restituire a questa parola  la sua valenza piuttosto che condannare il termine in se stesso perché usato malamente, in questi ultimi anni,  dalla "cultura laicista" in contrapposizione a quella "clericale". Altrimenti facciamo come i tedeschi che oggi condannano la Svastica, per l'utilizzo fattone dal nazismo, dimenticando le migliaia di anni –ancora adesso- di sacralità simbolica (in molte parti del mondo) in cui la Svastica è l'emblema dell'energia creativa e della  pace. 


Perché darla vinta a chi storpia il significato invece di correggere le devianze (opera di strumentalizzazione)? Occorre  restituire valore-verità al simbolo della Svastica, facendo altrettanto con la parola "laico" che è stata storpiata -nel significato profondo- dalle ideologie politiche e religiose, ma che non merita di scomparire dal nostro vocabolario. Spiritualità laica è espressione  di autonomia di pensiero, un'espressione priva di connotazioni (...del popolo, estranea al costrutto sociale e religioso..), insomma libera!

Paolo D'Arpini  - (Circolo Vegetariano VV.TT.)




Commento di Aliberth: "Perfettamente d’accordo, caro Paolo, anche perché, per chi non lo sapesse, Il Buddha, come pure in tempi più recenti S. Francesco, preferì istituire una sorta di religiosità laica, nei confronti del clericalismo ufficiale, proprio basato sui simboli della povertà popolare, cioè la tonaca grezza di canapa color ocra dei primi monaci buddisti, ed il saio di rozza stoffa marrone dei frati confratelli del poverello d’Assisi. Perciò, a parer mio, il termine ‘laico’ unito a ‘spirituale’, dovrebbe oggigiorno esser considerato più una forma di saggezza autentica dell’uomo che è arrivato a ‘comprendere la propria vera natura’, simile a quella di tutti gli altri, che non quel dispregiativo termine spesso usato dal clericalismo ecclesiastico per definire coloro che non possono accedere al loro elitario livello di eccellenza socio-cultural-religiosa" (Centro Nirvana)


In una goccia d'acqua c'è l'oceano, con tutte le sue differenze....

Non si può separare il corpo dallo spirito, come non può essere separato il fuoco dal calore, il fiore dal suo profumo. C’è chi da più importanza alla bellezza formale del fiore, chi al suo colore, chi al suo profumo. Ma la sua forma, il suo colore e la sua fragranza sono un’unica cosa: non può esistere l’una senza l’altra. L’unità è sterile, fecondo è solo la dualità: è il contrasto, la differenza ciò che genera la vita. 
I valori morali, culturali, spirituali, scientifici, si arricchiscono al contatto con realtà differenti. Tutto ciò che è parziale, settoriale è per sua natura incompleto; avere una tale visione della realtà limita nella percezione delle cose, e questo genera esclusioni, razzismi, specismi, rivalità, guerre. Tutte le visioni parziali si sono rivelate tanto più perniciose quanto più avevano la presunzione di essere preminenti sulle altre.
Armonizzare le forze eterogenee nel luminoso obiettivo del bene comune, la pace, la giustizia, l’evoluzione, l’amore, la vita, questo è il primo, fondamentale scopo dell’esistenza e ciò che rende l’esistenza dell’uomo nobile e degna di essere vissuta.

Io sono ricco in virtù della presenza degli altri e delle cose che mi circondano. Se fossi solo non potrei evolvere. Ogni persona ed ogni cosa influisce sulla mia vita e contribuisce al mio arricchimento interiore per mezzo dell’esperienza che acquisisco nell’incontro. Come un uomo è tanto più padrone della sua lingua quanti più vocaboli conosce, così è tanto più ricco interiormente quante più esperienze positive della sua ha potuto contattare.
Ma io non percepisco che una piccolissima parte dell’insieme: l’insieme mi condiziona attraverso la sua unità e il suo singolo componente. Il tutto è importante perché è composto dal singolo elemento, altrimenti sarebbe come dire che è importante il mucchio non il singolo chicco di grano, la foresta non il singolo albero, il popolo non la singola persona. Il dirigente d’azienda è importante quanto la donna delle pulizie perché l’uno senza l’altro non potrebbe funzionare l’azienda. Il musicista quanto il suo strumento musicale perché l’uno senza l’altro nessun concerto potrebbe essere realizzato.
Come il contesto in influenza e condiziona il mio comportamento e la mia vita così il mio comportamento influenza e condiziona il mio prossimo, perché gli altri ed io siamo una cosa sola: siamo la folla dei viventi, siamo la vita. Se io violento o uccido qualcuno in sostanza sto violentando e uccidendo una parte di me stesso, sia perché nell’azione malvagia sto rendendo peggiore la mia coscienza e sia perché nei confronti del contesto e della vita mi esprimo in modo negativo, lesivo, disarmonico.
Non v’è pensiero o azione che non abbia i suoi effetti universali, “Non si può cogliere un fiore senza turbare le stelle”. Una buona azione influenza il mio vicino e lo induce ad essere anch’egli più disposto alla bontà e più disponibile nei confronti del suo simile. Per contro un’azione egoistica, malvagia si ripercuote negativamente non solo sulla vittima ma su tutti generando malcontento, rabbia, autodifesa e quindi disarmonia.
L’interdipendenza è la realtà a cui sono legate indissolubilmente tutte le cose: essere in sintonia con il proprio contesto aiuta al funzionamento armonico del tutto; apprezzando il valore delle diversità si apre la mente e la coscienza a considerare ogni cosa come membra dello stesso organismo, tessere del medesimo mosaico, note della stessa sinfonia: proprio per questo esiste la terra e l’universo.
Franco Libero Manco

Chi comanda in Europa? Chiedetelo al Parlamento Ebraico Europeo


Forse non molti sono a conoscenza che il 18 Febbraio 2012 è stato istituito il Parlamento Ebraico Europeo, con tutti i crismi di legalità. (http://www.mosaico-cem.it/articoli/aperto-a-bruxelles-il-parlamento-europeo-ebraico)

E’ riservato ai soli Ebrei (120 membri), sta dentro al Palazzo del Parlamento Europeo di Bruxelles, ha ottenuto un riconoscimento ufficiale e inoltre la facoltà di essere “ascoltato” regolarmente dal Parlamento Europeo in merito ai provvedimenti e alle leggi discusse da quest’ultimo.

A che titolo non si è ben capito.

Nessuno ha osato fiatare, anzi tutti si sono affrettati a complimentarsi, ad eccezione di bravissime persone, guarda caso Ebrei (EJIP) gli unici pare con un po’ di spina dorsale, che senza tanti mezzi termini hanno scritto:
EJJP ha appreso con raccapriccio la creazione di un cosiddetto ”Parlamento degli Ebrei Europei”, presso gli uffici del Parlamento Europeo a Brussels.

EJJP denuncia questa creazione come una triplice mistificazione. Nulla nel modo in cui è stato costruito questo “Parlamento”, nel modo in cui opera, nè nel modo di scelta dei suoi partecipanti gli consente la pretesa di rappresentare tutti gli Ebrei europei. Non c’è alcuna giustificazione per il fatto che alcuni Ebrei Europei mettano su un proprio Parlamento con il compito di dettare una politica comune degli Ebrei in Europa.Tutto indica che, una volta ancora, il creare uno strumento di pressione dedicato alla incondizionata difesa di Israele indipendentemente dai crimini commessi dai governi che in Israele si succedono, e il pretendere che debba esistere un legame indissolubile tra Israele e gli Ebrei del mondo intero, e l’intrigare per fare sì che le istituzioni internazionali si allineino su queste posizioni stimolerà e rafforzerà l’antisemitismo dove già esiste.”

Successivamente gli Islamici (N.B. Gli Islamici Europei sono almeno 40 milioni, gli Ebrei circa 1,5) hanno chiesto a loro volta di avere un loro Parlamento, ma la proposta è stata considerata irricevibile con la motivazione che c’era già un Parlamento Europeo e quello valeva per tutti gli Europei (tutti i goyim evidentemente) senza distinzione di razza o credo, e perciò la richiesta era contraria allo spirito e alla lettera dell’Unione Europea. 


SVOLGIMENTO

Come avevo preventivato, da essere “ascoltato” dal Parlamento Europeo  il Parlamento Ebraico Europeo è passato a farsi “ascoltare”.

Ha stilato un comunicato ufficiale nel quale l’Unione Europea è stata accusata di legittimare il terrorismo poichè aveva criticato, per bocca di alcuni suoi Parlamentari, la politica di Israele in Palestina.

Recentemente invece il Parlamento Ebraico Europeo, dopo una riunione, ha stabilito che un Parlamentare Europeo che critichi la politica Israeliana deve essere considerato neo-antisemita, e ha mandato al Parlamento Europeo copia.

Non ho notizie se il Parlamento Europeo abbia già detto “signorsì”.

Come dice Gilad Atzmon, alla fine dovranno accusare tutto il mondo di antisemitismo, e alla fine continuando in questo modo otterranno il magnifico risultato che “antisemita” anziché indicare un brutto pregiudizio indicherà chi non è d’accordo nel rinchiudere, perseguitare o espellere a forza la gente, nell’erigere muri, nell’abbattere case, e nello sparare a donne e bambini.



UFFICIALE: IL PARLAMENTO EUROPEO E' NEO-ANTISEMITA - Come Don ...

Mincuo – (Fonte: Come Don Chisciotte)