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Tutti i mali del mondo iniziano sul nostro desco

In che modo si manifesta il male nel mondo e nella vita di una persona? Sicuramente attraverso l’ingiustizia, la violenza, le malattie, la fame, l’ignoranza, la guerra. Quale è la causa?
Sicuramente è l’egoismo, la sete di potere e di denaro, la mancanza di sensibilità umana, l’indifferenza verso chi soffre, l’incapacità di immedesimarsi nel dolore della vittima. E che cos’è che impedisce all’essere umano di sviluppare una coscienza giusta, sensibile, fraterna e solidale, una mentalità libera dal desiderio di prevaricare sugli altri? Sicuramente la mancanza di educazione della massa ai valori fondamentali della vita, al rispetto della diversità, al rifiuto della violenza, al senso critico costruttivo.
E che cos’è che genera questa cultura che inclina l’essere umano alla violenza, all’indifferenza vero la sofferenza dell’altro, alla mancanza di compassione? Sicuramente è la visione antropocentrica che da millenni inclina l’essere umano a considerare sacrificabile ogni forma di vita non umana e lo inclina al disprezzo delle diversità formali e sostanziali componenti la vita, abituandolo a convivere con la logica della supremazia del più forte sul più debole. Se l’essere umano viene abituato, legittimato a sfruttare, sottomettere, violentare, uccidere gli animali ed ogni forma di vita, sperare poi che non abbia la propensione alla violenza e all’ingiustizia anche verso i suoi simili è pura illusione.
Da quando per estreme necessità di sopravvivenza la specie umana si nutrì della carne degli animali abbattuti l’uomo è diventato il più insensibile e spietato dei predatori; continuare a mangiare la carne significa perdurare nello stato di primordiale perversione che si esprime anche nei confronti degli esseri umani.
E’ l’abitudine a massacrare e a mangiare animali ciò che causa i più gravi problemi al genere umano, ciò che impedisce non solo lo sviluppo della vitale valorizzazione delle diversità ma della sensibilità umana, del senso di giustizia e di quell’intelligenza positiva imprescindibili per la realizzazione di un mondo finalmente libero dall’abuso, dalla violenza, dalla malattia, dalla miseria, dall’ignoranza, dal dolore.
Se si educasse la popolazione al sacro rispetto della vita di ogni essere vivente, ad apprezzare la diversità biologica nel suo intrinseco valore, a percepire l’anelito all’esistenza di ogni creatura non umana, come potrebbe l’uomo non amare e rispettare il suo simile? Ma tre sono le cause che precludono l’evoluzione morale, la vera cultura e la vera democrazia: 1) i mezzi di informazione al servizio del potere economico; 2) l’antropocentrismo religioso e non solo; 3) la medicina convenzionale. Questi generano simultaneamente ignoranza, malattia ed ingiustizia, incentivano, avallando, promuovono lo sfruttamento degli animali ed il consumo di carne privando la popolazione umana del bene supremo della salute, del pensiero libero e della sensibilità del cuore.
I mezzi di informazione al servizio delle grandi lobby agroalimentari-zootecninche, petrolifere e chimico-farmaceutiche, in grado di condizionare i prezzi di mercato agricolo e di ridurre alla fame intere popolazioni, manipolano la cultura rendendo indispensabile ciò che nel corso dei millenni è sempre stato superfluo, spingendo la gente ad utilizzare prodotti propagandati come utili, necessari e benèfici mentre vanno solo a loro vantaggio.
I mezzi di informazione, che dovrebbero essere al servizio del progresso sociale, morale e spirituale della popolazione, danno al popolo (dopo averlo condizionato) quello che il popolo chiede non quello di cui ha realmente bisogno, favorendo in questo modo la società dell’apparenza, dell’esteriorità, dell’immagine, del cattivo gusto, della volgarità. Se il popolo, abbindolato, chiede violenza, sesso, lusso sfrenato, essi danno violenza, sesso, lusso sfrenato e questo porta a modelli negativi, alla competizione, all’arrivismo, alla mancanza di senso critico, all’ignoranza piedistallo di tutte le tirannie.
Gran parte dei prodotti sponsorizzati dai media generano malattie con tutto ciò che ne consegue: sofferenza, dispendio di sostanze economiche ed umane, interruzione della vita professionale, emarginazione fisica, ecc. Una malattia cambia il destino di un uomo. Quando una persona è ammalata tutto si annulla, ogni cosa perde di valore e tutte le sue energie e le sue sostanze vengono assorbite nel tentativo di recuperare la salute. Anche se una persona è socialmente arrivata, anche se ricca, anche se possiede tutte le qualità e le virtù dell’universo, se non ha la salute è una persona debole, inerme e bisognosa di aiuto. I prodotti carnei sponsorizzati dai media, adatti agli animali carnivori, oltre a malattie generano aggressività e violenza, perché la carne fa aumentare i livelli dell’aminoacido tirosina e l’accumulo nel cervello di due neurotrasmettitori, dopamina e adrenalina che favoriscono appunto la stessa aggressività degli animali predatori. 
Chi se non i mezzi di informazione di massa, legittimati dallo Stato, dovrebbero favorire lo sviluppo della conoscenza e responsabilizzare l’uomo delle sue scelte? La religione antropocentrica che pone al centro della creazione l’uomo con la facoltà di disporre a suo piacimento della natura e della vita di ogni essere non umano, abitua l’uomo a convivere con la legge della supremazia del più forte sul più debole, allo sfruttamento di chi si ritiene non conforme a determinati paradigmi di intelligenza, bellezza, stato sociale secondo il concetto aristotelico (ereditato appieno dalle religioni di derivazione ebraica e dalla cultura occidentale, e non solo) secondo il quale i deboli sono destinati a servire i forti, gli schiavi fatti per i padroni, le donne per gli uomini. Il disprezzo verso le diversità formali componenti il sistema biologico inclina l’uomo allo specismo che a sua volta sfocia nel razzismo, nel predominio e quindi nella violenza. Inoltre l’accettazione passiva dei dogmi sanciti dalle dottrine religiose preclude il senso critico, l’indagine analitica conoscitiva, la mancanza di senso critico e quindi l’ignoranza. 
La carenza di sensibilità umana (madre di tutte le sventure) generata dalla violenza perpetrata nei confronti di ogni forma di vita, (diffusa in ogni latitudine) preclude al genere umano quei valori di compassione e condivisione imprescindibili per una società umana giusta, civile e capace di condividere le necessità vitali anche dell’altro. Se ciò che predispone l’uomo alla violenza e ai delitti è la mancanza di giustizia è l’incapacità di immedesimarsi nella vittima e di condividerne il dolore, nulla come la strisciante mentalità antropocentrica abitua l’essere umano ad una condizione di violenza e predominio ostacolando il vero progresso integrale dell’uomo. Chi se non la religione dovrebbe favorire lo sviluppo della pietà e della sensibilità umana verso l’altrui sofferenza? 
La medicina convenzionale che interviene sui sintomi senza rimuovere le cause della malattia, implicitamente autorizza il malato a persistere nei suoi cattivi stili di vita, nei suoi errori alimentari, assoggettandolo alla cure mediche, all’intervento farmacologico che spesso si traduce a danno per la salute umana (naturalmente senza disconoscere il grande contributo dalla medicina in tutti i casi di urgenza). Un meccanismo che asseconda le aspettative del popolo inerte e bisognoso di avere buone notizie sulla sua cattiva condotta; un popolo che esige dal medico la pillola che gli consente di non rinunciare alle sue abitudini malsane e indotte, che tende a sottovalutare o a trascurare del tutto l’importanza dell’alimentazione nella vita dell’individuo mentre questa è in grado di condizionare non solo la salute del corpo ma della mente e della coscienza. 
La mancanza di autodeterminazione e di senso critico, che non responsabilizza l’individuo sugli effetti delle sue scelte, favorisce l’assoggettamento e il dominio dei forti sui deboli. Una medicina i cui meccanismi d’indagine sono prioritariamente concentrati sui sintomi diffondendo così il bisogno condizionato impedendo all’individuo la capacità di essere artefice e responsabile delle proprie azioni, della sua salute e del proprio destino. 
La ricerca farmacologica viene indirizzata a dare risposta alle spinte consumistiche più che alle reali esigenze sanitarie basate sulla prevenzione delle malattie. Un cattivo stile di vita ed una innaturale alimentazione, responsabile di 9 decessi su 10 nel mondo occidentale, favorisce la mancanza di senso critico che a sua volta è foriero di dolore, morte prematura, ignoranza, dipendenza dagli altri. Chi se non il medico dovrebbe insegnare alla gente le regole del buon vivere per conservare o recuperare la salute?
Franco Libero Manco

Rothschild, il cazaro che si fece ebreo per conquistare il mondo...



Rothschild è una famiglia di banchieri molto nota e facoltosa, di origine Ashkenazi (Cazara, razza di origine turcomanna dell'Europa Orientale. )

Vedi: http://www.circolovegetarianocalcata.it/2013/12/25/storia-di-come-e-nato-il-sionismo-ovvero-se-gli-ebrei-non-sono-ebrei-ma-khazari-convertiti/)  

Questa famiglia  attraverso le sue sedi di Vienna, Parigi, Londra, Napoli e Francoforte controllava più o meno direttamente le politiche dei paesi che finanziava.

La famiglia Rothschild sta lentamente ma inesorabilmente fondando Banche Centrali che hanno la loro sede in ogni paese del mondo, dando loro quantità incredibile di ricchezza e potere. Nell’anno 2000 ci sono stati sette paesi senza una proprietà Rothschild Banca Centrale: Afghanistan, Iraq, Sudan, Siria, Libia, Cuba, Nord Corea, Iran. E’ non è una coincidenza che questi paesi sopra elencati, sono stati e sono tuttora sotto attacco da parte dei media occidentali, dal momento che una delle ragioni principali per cui questi paesi sono stati sotto attacco, in primo luogo perché non hanno ancora un Rothschild di proprietà della Banca Centrale.

Il primo passo per stabilire se un paese può avere una Banca Centrale è quello di farli accettare un prestito scandaloso, che pone il paese in debito della Banca Centrale e sotto il controllo dei Rothschild. Se il paese non accetta il prestito, il leader di questo paese sarà assassinato e un leader Rothschild allineato sarà messo in posizione, e se l’omicidio non funziona, il paese sarà invaso per avere un’Istituto bancario Centrale, ottenendo così con la forza, sotto il nome di terrorismo. 


Le banche centrali sono create illegalmente e sono private, dove la famiglia di banchieri Rothschild hanno lo zampino. Il fondatore della famiglia è nato più di 230 anni fa (Mayer Amschel Rothschild 1743-1812) e scivolò piano piano sulla strada in ogni paese di questo pianeta, minacciato ogni leader e governi d’ogni parte del mondo, con la morte fisica, economica e distruzione, per poi piazzare su ogni popolo, queste banche centrali, per controllare e gestire il portafoglio di ciascun paese. Peggio ancora, i Rothschild controllano anche le macchinazioni di ogni governo, a livello macro, fregandosene delle vicende quotidiane delle vite individuali di ogni popolo.

Gli attacchi dell’11 settembre sono stati un lavoro interno per poter invadere l’Afghanistan e Iraq per stabilire poi una Banca Centrale in questi paesi, insieme al petrolio e all’oppio. A partire dal 2003, tuttavia, Afghanistan e Iraq sono stati inghiottiti dalla piovra Rothschild; dal 2011 la stessa sorte è toccata a Sudan e Libia. In Libia una banca dei Rothschild è stata istituita a Bengasi mentre ancora imperversava la guerra.

Il 9 luglio 2011 il Sud Sudan è diventato la 193.ma nazione del mondo. Ciò che è stata la più lunga guerra civile dell’Africa, alla fine terminò quando il presidente sudanese Omar Hassan al-Bashir, sotto pressione, cedette la parte meridionale del suo paese ai vampiri bancari del FMI/Banca Mondiale, dopo un conflitto che ha lasciato più di 2 milioni di morti. Pochi giorni dopo essersi dichiarata nazione sovrana, la società petrolifera statale del Sud Sudan, la Nilepet, costituiva una joint venture con la Glencore International Plc., per commercializzare il suo petrolio. Glencore è controllata dai Rothschild. La joint venture sarà la PetroNile, con il 51 per cento controllato da Nilepet e il 49 per cento dalla Glencore.


Il nuovo presidente del Sud Sudan, Salva Kiir Mayardit, ha firmato una legge che istituisce formalmente la Banca Centrale del Sud Sudan. Il Sudan è uno dei cinque paesi – insieme a Cuba, Corea del Nord, Siria e Iran – la cui banca centrale non è sotto il controllo del cartello delle otto famiglie di banchieri guidate dai Rothschild. Non è dunque un caso che la moneta di questo nuovo feudo petrolifero dei Rothschild, si chiami sterlina del Sud Sudan.

I paesi lasciati soli nel 2011 senza una banca centrale di proprietà della famiglia Rothschild sono: Sudan del Nord, Siria, Cuba, Corea del Nord ed Iran. Dopo le proteste ed istigazioni con le rivolte nei paesi arabi, i Rothschild hanno la strada spianata per stabilire anche là delle banche centrali, e sbarazzarsi di quei leaders, con forte carisma verso i loro popoli. Proprio questi paesi, se ci fate caso, vengono fatti passare dai media come gli ultimi stati “cattivi” che i “buoni” americani devono distruggere per fondare la democrazia e la libertà. Basta fare qualche ricerca per capire facilmente che gli Stati Uniti sono lo stato più autoritario presente al momento, vedete gli articoli nelle categorie “Controllo Globale” e “Finta Democrazia”.

AGGIORNAMENTO: A seguito di ulteriori approfondimenti ho trovato opinioni discordanti sull’effettiva appartenza della Banca Centrale d’Islanda (vedi: Iceland Says Goodbye To Rothschild e Iceland’s Viking Victory over the Banksters) e del Brasile (vedi: Only 3 countries left w/o ROTHSCHILD Central Bank!) alla famiglia Rothschild

Ecco lo spaventoso potere della famiglia ROTHSCHILD in the World:

L’elenco delle loro proprietà

Albania: Bank of Albania

Algeria: Bank of Algeria

Argentina: Central Bank of Argentina

Armenia: Central Bank of Armenia

Aruba: Central Bank of Aruba

Australia: Reserve Bank of Australia

Austria: Austrian National Bank

Azerbaijan: National Bank of Azerbaijan

Bahamas: Central Bank of The Bahamas

Bahrain: Bahrain Monetary Agency

Bangladesh: Bangladesh Bank

Barbados: Central Bank of Barbados

Belarus: National Bank of the Republic of Belarus

Belgium: National Bank of Belgium

Belize: Central Bank of Belize

Bermuda: Bermuda Monetary Authority

Bhutan: Royal Monetary Authority of Bhutan

Benin: Central Bank of West African States (BCEAO)

Bolivia: Central Bank of Bolivia

Bosnia: Central Bank of Bosnia and Herzegovina

Botswana: Bank of Botswana

Brazil: Central Bank of Brazil

Bulgaria: Bulgarian National Bank

Burkina Faso: Central Bank of West African States (BCEAO)

Cameroon: Bank of Central African States

Canada: Bank of Canada – Banque du Canada

Cayman Islands: Cayman Islands Monetary Authority

Central African Republic: Bank of Central African States

Chad: Bank of Central African States

Chile: Central Bank of Chile

China: The People’s Bank of China

Colombia: Bank of the Republic

Congo: Bank of Central African States

Costa Rica: Central Bank of Costa Rica

C?te d’Ivoire: Central Bank of West African States (BCEAO)

Croatia: Croatian National Bank

Cyprus: Central Bank of Cyprus

Czech Republic: Czech National Bank

Denmark: National Bank of Denmark

Dominican Republic: Central Bank of the Dominican Republic

East Caribbean area: Eastern Caribbean Central Bank

Ecuador: Central Bank of Ecuador

Egypt: Central Bank of Egypt

El Salvador: Central Reserve Bank of El Salvador

Equatorial Guinea: Bank of Central African States

Estonia: Bank of Estonia

Ethiopia: National Bank of Ethiopia

European Union: European Central Bank

Fiji: Reserve Bank of Fiji

Finland: Bank of Finland

France: Bank of France

Gabon: Bank of Central African States

The Gambia: Central Bank of The Gambia

Georgia: National Bank of Georgia

Germany: Deutsche Bundesbank

Ghana: Bank of Ghana

Greece: Bank of Greece

Guatemala: Bank of Guatemala

Guinea Bissau: Central Bank of West African States (BCEAO)

Guyana: Bank of Guyana

Haiti: Central Bank of Haiti

Honduras: Central Bank of Honduras

Hong Kong: Hong Kong Monetary Authority

Hungary: Magyar Nemzeti Bank

Iceland: Central Bank of Iceland

India: Reserve Bank of India

Indonesia: Bank Indonesia

Iraq: Central Bank of Iraq

Ireland: Central Bank and Financial Services Authority of Ireland

Israel: Bank of Israel

Italy: Bank of Italy

Jamaica: Bank of Jamaica

Japan: Bank of Japan

Jordan: Central Bank of Jordan

Kazakhstan: National Bank of Kazakhstan

Kenya: Central Bank of Kenya

Korea: Bank of Korea

Kuwait: Central Bank of Kuwait

Kyrgyzstan: National Bank of the Kyrgyz Republic

Latvia: Bank of Latvia

Lebanon: Central Bank of Lebanon

Lesotho: Central Bank of Lesotho

Libya: Central Bank of Libya

Lithuania: Bank of Lithuania

Luxembourg: Central Bank of Luxembourg

Macao: Monetary Authority of Macao

Macedonia: National Bank of the Republic of Macedonia

Madagascar: Central Bank of Madagascar

Malaysia: Central Bank of Malaysia

Malawi: Reserve Bank of Malawi

Mali: Central Bank of West African States (BCEAO)

Malta: Central Bank of Malta

Mauritius: Bank of Mauritius

Mexico: Bank of Mexico

Moldova: National Bank of Moldova

Mongolia: Bank of Mongolia

Morocco: Bank of Morocco

Mozambique: Bank of Mozambique

Namibia: Bank of Namibia

Nepal: Central Bank of Nepal

Netherlands: Netherlands Bank

Netherlands Antilles: Bank of the Netherlands Antilles

New Zealand: Reserve Bank of New Zealand

Nicaragua: Central Bank of Nicaragua

Niger: Central Bank of West African States (BCEAO)

Nigeria: Central Bank of Nigeria

Norway: Central Bank of Norway

Oman: Central Bank of Oman

Pakistan: State Bank of Pakistan

Papua New Guinea: Bank of Papua New Guinea

Paraguay: Central Bank of Paraguay

Peru: Central Reserve Bank of Peru

Philippines: Bangko Sentral ng Pilipinas

Poland: National Bank of Poland

Portugal: Bank of Portugal

Qatar: Qatar Central Bank

Romania: National Bank of Romania

Russia: Central Bank of Russia

Rwanda: National Bank of Rwanda

San Marino: Central Bank of the Republic of San Marino

Samoa: Central Bank of Samoa

Saudi Arabia: Saudi Arabian Monetary Agency

Senegal: Central Bank of West African States (BCEAO)

Serbia: National Bank of Serbia

Seychelles: Central Bank of Seychelles

Sierra Leone: Bank of Sierra Leone

Singapore: Monetary Authority of Singapore

Slovakia: National Bank of Slovakia

Slovenia: Bank of Slovenia

Solomon Islands: Central Bank of Solomon Islands

South Africa: South African Reserve Bank

Spain: Bank of Spain

Sri Lanka: Central Bank of Sri Lanka

South Sudan: Bank of South Sudan

Surinam: Central Bank of Suriname

Swaziland: The Central Bank of Swaziland

Sweden: Sveriges Riksbank

Switzerland: Swiss National Bank

Tajikistan: National Bank of the Republic of Tajikistan

Tanzania: Bank of Tanzania

Thailand: Bank of Thailand

Togo: Central Bank of West African States (BCEAO)

Tonga: National Reserve Bank of Tonga

Trinidad and Tobago: Central Bank of Trinidad and Tobago

Tunisia: Central Bank of Tunisia

Turkey: Central Bank of the Republic of Turkey

Uganda: Bank of Uganda

Ukraine: National Bank of Ukraine

United Arab Emirates: Central Bank of United Arab Emirates

United Kingdom: Bank of England

United States: Board of Governors of the Federal Reserve System (Washington)

Federal Reserve Bank of New York

Uruguay: Central Bank of Uruguay

Vanuatu: Reserve Bank of Vanuatu

Venezuela: Central Bank of Venezuela

Yemen: Central Bank of Yemen

Zambia: Bank of Zambia

Zimbabwe: Reserve Bank of Zimbabwe


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Fonti:

http://www.abovetopsecret.com/forum/thread853902/pg1

http://www.brotherjohnf.com/forum/Thread-The-Rothschild-s-are-telling-us-something

http://apocalisselaica.net/varie/miti-misteri-e-poteri-occulti/la-famiglia-piu-potente-del-mondo-i-rothschild

http://italian.irib.ir/analisi/commenti/item/114963-i-rothschild-mettono-le-mani-sul-petrolio-del-sud-sudan

http://www.frontediliberazionedaibanchieri.it/article-i-rothschild-mettono-le-mani-sul-petrolio-del-sud-sudan-111514813.html

http://dionidream.wordpress.com/2013/01/30/solo-5-paesi-mancano-ai-rothschild-dove-fondare-una-banca-centrale/

Mantra Madre - Eros e spiritualità della natura - Recensione



"Mantra Madre", il libro di Selene Calloni Williams,  ti farà volare nel cielo e ti radicherà nella terra, ti immergerà nella bellezza e ti darà la forza di vedere i simboli che soggiacciono alla tua vita, dandoti la chiave della tua esistenza. Sopratutto ti darà un vero amore e un nuovo eros.

Esso svela il cuore di una tradizione spirituale universale e naturale di risveglio e di guarigione assai antica, eppure ancora in fase di codificazione ai nostri giorni: una chiave segreta che è nel cuore nascosto di ogni religione del mondo. 

Estratto dal libro: 
"Il cuore della religione di natura è l'esperienza estatica che nasce dalla immersione nella natura. I segreti delle religioni naturali sono incentrati su tecniche dell'estasi come la trance degli sciamani, degli oracoli tantrici, o la trance delle pizie di Delfi. La trance porta l'uomo a contatto con le armonie naturali e le leggi naturali, che si esprimono nella rivelazione della bellezza.
L'esperienza spirituale naturale è sempre una esperienza estatica della bellezza.
"

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Il Mahābhārata e le inferenze di una remota guerra nucleare




Da alcune anomalie registrate in due siti archeologici indiani, Harappa e Mohenjo-Daro e dall'ultima scoperta a Jodhpur, nonché dagli scritti di antiche opere letterarie di diverse migliaia di anni fa, come il 
Mahābhārata, sembrerebbe proprio che NEL LONTANO PASSATO SULLA TERRA CI FU UNA GUERRA NUCLEARE (o qualcosa di simile ndr).

Entrando nel merito, le due antiche città della Valle dell'Indo: Harappa e Mohenjo-Daro (che si fanno risalire a una decina di migliaia di anni fa), scoperte accidentalmente appena lo scorso secolo, mostrarono subito agli archeologi aspetti particolari, differenti da altri siti archeologici indiani. I mattoni in terra cotta e i resti di vasellame mostravano segni di vetrificazione, fatto questo riscontrabile nei materiali esposti a temperature di migliaia di gradi Celsius. Non solo, ma in questi due siti si registra ancora una certa radioattività nel terreno. Per fortuna su queste aree archeologiche non ci sono centri abitati, quindi, il rischio di contaminazione è relativo. Questo invece non accade a 18 Km da Jodhpur, una popolosa città del Rajasthan, una regione vicina al Pakistan. Tutto nasce da un progetto per la costruzione di una vasta lottizzazione edilizia. Quando gli operari hanno iniziato a scavare le fondamenta delle case, a circa un metro di profondità, è apparso un consistente strato di ceneri pesanti; ceneri che hanno cominciato a creare problemi alla salute degli operai. Sono intervenute le autorità sanitarie e per loro grande stupore hanno registrato nella zona un tasso molto elevato di radioattività. Questa scoperta ha messo subito in rilievo l'alta incidenza di malattie, in particolare tumori, della zona. A quel punto il governo indiano ha bloccato gli scavi e isolata tutta l'area.

Gli archeologi nel frattempo hanno individuato i resti di un antichissimo insediamento umano, calcolato intorno a 9.000 anni prima di Cristo; insediamento che come Harappa e Mohenjo-Daro, presentava fenomeni di vetrificazione causati probabilmente da qualche evento che ha prodotto nel lontano passato temperature elevatissime, capaci di fondere anche la pietra. Questi archeologi, in una recente conferenza stampa, non hanno esitato a paragonare l'accaduto di quest'area con quanto avvenuto nel 1945 a Hiroshima e Nagasaki.

Gli studiosi degli antichi testi indù a questa scoperta hanno aggiunto le loro conclusioni e cioè che quanto scritto, soprattutto nel Mahabharata, non è frutto di "fantasie" dell'epoca.

Ma cosa dice questo antico testo indiano? Il Mahabharata, scritto nell'antica lingua sanscrita? Descrive un’esplosione catastrofica che sconvolse il continente. Si legge, infatti, “Un unico proiettile caricato di tutta la potenza dell’Universo … Una colonna incandescente di fumo e fiamme, brillanti come 10.000 soli, s’innalzò in tutto il suo splendore … era un’arma sconosciuta, un fulmine di ferro, un gigantesco messaggero di morte che ridusse in cenere un’intera razza. I cadaveri erano così bruciati da essere irriconoscibili. I capelli e le unghie caddero, il vasellame si ruppe senza alcuna causa apparente, e gli uccelli diventarono bianchi. Dopo poche ore, tutti i cibi erano infettati. Per uscire da quel fuoco, i guerrieri si gettarono nel fiume.”

Lo storico Kisari Mohan Ganguli asserisce che gli antichi scritti sacri indiani sono pieni di eventi catastrofici prodotti da armi sconosciute dotate di una potenza simile a quelle nucleari che noi oggi conosciamo. Nel Drona Parva, un capitolo del Mahabharata, si parla chiaramente di battaglie in cielo condotte da "carri volanti", i Vimana, che si combattevano con "fulmini e tuoni". Il capitolo dell'opera sacra si conclude descrivendo l'uso di armi dalla immane forza distruttiva che provocarono alla fine la totale distruzione di interi eserciti.

L’archeologo Francis Taylor aggiunge che le raffigurazioni in bassorilievo, in alcuni templi sempre nel Rajasthan, da lui interpretate, mostrano personaggi intenti a pregare al fine d’essere risparmiati dalla grande luce, che stava per portare rovina sulle loro città. -“E’ abbastanza incredibile", afferma Taylor, "immaginare che qualche civiltà possedesse la tecnologia nucleare prima di noi. La cenere radioattiva trovata a Jodhpur aggiunge credibilità agli antichi scritti indiani che solo oggi comprendiamo parlano di un'antichissima guerra atomica”. 

In conclusione, sulla base di queste scoperte e rivelazioni, dobbiamo cominciare a rivedere con più attenzione quanto descritto in tutti i testi antichi giunti fino a noi, come quelli indiani. Forse anche le due opere di Platone: il "Crizia e il " Timeo", che parlano della distruzione di Atlantide, forse non sono solo frutto di fantasie del filosofo greco, ma cronache di fatti realmente accaduti.

Sabatino Moscati, l'archeologo "illuminato", morto alcuni anni fa, un giorno "oso" dire che la storia dell'umanità andava riscritta e retrodatata di molti migliaia di anni. Questa sua affermazione scandalizzò i grandi "dotti" della scienza e causò il suo allontanamento dalla casta degli archeologi baroni. Qualche anno dopo, però, si scoprì in Turchia Çatal Hüyük , una città già organizzata di 8.000 anni più vecchia di Cristo, più antica di Gerico. Questa scoperta ridisegnò i confini temporali sulla nascita delle prime civiltà dell'uomo, che prima di allora si attribuivano a 5.000 anni fa. Sabatino Moscati aveva avuto ragione. Ma la cosa non finì lì, nuove scoperte mandarono definitivamente in soffitta i vecchi testi di storia tanto cari ai "dotti" della scienza di allora. Il colpo finale ai dogmi di questi saccenti arrivò alcuni anni fa quando si scoprì che la mitica popolazione andina, conosciuta dai popoli incaici come i "guerriere delle nuvole", presente nel nord del Perù già 2000 anni fa, era di origine europea. Sabatino Moscati aveva vinto la sua battaglia contro i baroni della scienza. Cadute le barriere della scienza conservatrice e grazie alle nuove tecnologie, ogni giorno scopriamo qualcosa di nuovo e più antico anche rispetto alle grandi civiltà Sumera ed Egizia. Ci si avvicina sempre di più verso la scoperta di presenze sul nostro pianeta di civiltà antichissime e tecnologicamente evolute, scomparse per motivi naturali o perché autodistruttesi; civiltà dimenticate che forse riusciranno a gettare una nuova luce sulla storia dell'uomo sulla Terra.

(Fonte: Accademia Kronos)


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Mia considerazione: "...delle antiche civiltà scomparse me ne sto occupando da tempo. Da quando cioè andai ad abitare a Calcata, infatti tanti anni fa sotto l’ascendente di sensazioni e messaggi dall’inconscio, percepii quello che realmente Calcata era stata ed il suo ruolo nelle trame primigenie della vita nella società umana. E’ come se gli antichi spiriti della valle del Treja, il genius loci, mi parlassero per confidarmi dei segreti rimasti per troppo tempo nascosti. A dire il vero la verità su Calcata e sull’antichità della civilizzazione falisca ad essa collegata mi era stata svelata già con il libro dell’archeologo Potter che negli anni ’60 fece una grande campagna di scavi su Narce, riscontrando le vetustà del sito. In un’altra occasione ricordo la visita di Marcello Creti, un sensitivo che viveva a Sutri, il quale mi raccontò di una antica civiltà Antalidea che aveva trovato rifugio qui a Calcata, attenzione non si tratta dei rifugiati di Atlantide bensì di un’altra mitica popolazione di “prima che nascessero gli dei”, secondo lui di origine extraterrestre. E con Marcello Creti andammo in giro nella Valle del Treja in cerca di reperti, egli credeva fermamente nell'esistenza di queste popolazioni misteriose, dotate di ampie conoscenze scientifiche, che poi per strani motivi scomparvero dalla faccia del pianeta. Ed in alcune occasioni trovammo grotte in cui sembrava che vi fossero delle tracce degli antichi abitanti pre-umani"
(Paolo D'Arpini)

L'uomo, primo nemico della vita sul pianeta


Gli interventi dell’uomo nel tentativo di “aggiustare” la vita sul pianeta sono diventati talmente pesanti da mettere a rischio la stessa esistenza umana. Infatti il controllo sulle altre specie e sulla natura  coinvolge anche l’uomo, che non è separato dal mondo animale e dalla natura.
Le regole della vita sono molto semplici, ogni specie sia vegetale che animale ha una interrelazione mutualistica con il suo habitat e con tutte le specie che lo condividono. Le piante hanno bisogno degli animali per la loro riproduzione e propagazione, gli erbivori sono controllati dai carnivori e così si mantiene un equilibrio fra ambiente e suoi abitanti.
Ma dove l’uomo è intervento immediatamente questo equilibrio è andato perso. Lo abbiamo visto con la desertificazione del Nord Africa e del Medio Oriente causata da un esagerato incremento dell’allevamento domestico e di transumanza. 
Questo più l’abitudine venatoria nei confronti di specie ritenute nocive o -al contrario- utili all’economia umana hanno trasformato talmente l’habitat da renderlo irriconoscibile… Tutto ciò in passato avveniva in modo quasi impercettibile, poiché gli avvenimenti sopra descritti si protraevano per lunghi periodi di tempo, secoli, se non millenni, ed era alquanto difficile per l’uomo riconoscerne gli effetti (legati al suo comportamento).
Ben diversa è la situazione attuale. Oggi l’intervento umano sull'ambiente  ha una conseguenza presso che immediata e non si può far a meno di considerare le cause -come gli effetti strettamente interconnessi- delle mutazioni in corso. Dove l’uomo interviene la natura e la vita recedono.
Persino ove l’uomo cerca di rimediare ai mali del suo operato anche lì combina guai peggiori. Lo abbiamo visto ad esempio con la politica dei ripopolamenti artificiali di specie faunistiche scomparse in una data bioregione e recuperate in altri luoghi del pianeta per esservi reimmesse. 
Questa politica di recupero ambientale è invero deleteria. I danni causati all’habitat dall’introduzione di specie non autoctone sono enormi. Tant'è che di tanto in tanto, con la scusa del sovrappopolamento, ci si inventa partite di caccia per il contenimento di dette specie.
A dire il vero la mia impressione è che questa pseudo  politica ambientale è solo funzionale ad interessi altri, che non sono quelli della natura. La natura, se lasciata a se stessa, trova sempre il modo di armonizzarsi, creando una altalena di presenze fra fonti alimentari, specie predate e specie predatorie ma dove interviene l’uomo appare il caos. Ma oggi sembra  impossibile che la natura sia lasciata a se stessa, dovrebbe scomparire l’uomo. 
La specie umana è aumentata numericamente a dismisura e non ha predatori, né  grosse epidemie che secoli fa decimavano la popolazione, e cibare tutte queste persone, carnivori o vegetariani che siano, porta comunque ad un’alterzione dell’habitat naturale.
Inoltre gli animali sono sempre più visti come oggetti di abbellimento -se inseriti nei parchi- o d’uso alimentare o industriale -se allevati intensivamente. 
Potete allora vedere che questo gioco delle parti danneggia tutti i cittadini e la natura stessa che è continuamente manipolata pro e contro questo e quello. Insomma un pretesto affaristico in una società che non considera l’animale diversamente da un plusvalore qualsiasi.


Il rapporto fra uomo natura e animali è andato nel corso di questo ultimo secolo deteriorando sino al punto che gli alberi e gli animali,  un tempo simboli di vita, totem, archetipi e divinità, sono relegati nei parchi, nelle riserve o negli zoo o utilizzati come cavie o produttori di carne da macello, come fossero “oggetti” e non esseri viventi dotati di intelligenza, sensibilità e coscienza di sé. 
Anche se etologi famosi, come ad esempio K. Lorenz e tanti altri, hanno raccontato le similitudini comportamentali e le affinità elettive che uniscono l’uomo agli animali, il metodo utilitaristico, che per altro si applica anche nella società umana verso i più deboli ed i reietti, ha preso il sopravvento.
Pare, ma non è detto, che al momento opportuno si risvegli nella coscienza umana la consapevolezza della comune appartenenza alla vita.
Paolo D'Arpini

Morte e rinascita... (ed illusione di continuità dell'io)


“Quando tutte le anime si scelsero la loro vita nell’ordine che la sorte aveva stabilito, si presentavano a Lachesi; essa assegnava a ciascuna il demone[1] che l’anima stessa aveva scelto perché le fosse custode durante tutta la vita e desse adempimento al destino prescelto. Il demone anzitutto conduceva l’anima da Cloto per ratificare, sotto la sua mano e il vorticoso girar del fuso, il destino che aveva scelto dopo il sorteggio. Toccato il fuso, il demone la conduceva poi alla trama che Atropo per rendere immutabile il destino una volta filato. Di qui, senza voltarsi, il demone e l’anima andavano sotto il trono di Ananke[2] e passavano dall’altra parte”.[3]
Ogni anima, incarnandosi, non fa che porre in atto un destino già scelto e tracciato; un destino che, in potenza, è già presente, immutabile e che la nascita dell’individuo, la sua discesa nel corpo, non fa che reificare e vivificare. Questo è quanto asserisce il mito di Er, fornendo una peculiare risposta ad alcune delle domande esistenziali che da sempre tormentano gli uomini alla ricerca di una chiave segreta per capire i significati occulti del proprio vivere. La chiave che dà Platone è questa: dopo la morte, ogni anima è destinata a reincarnarsi, scegliendo, in un luogo al di là dello spazio e del tempo, le caratteristiche fondamentali di quella che sarà la propria nuova vita terrena. E la stessa scelta della vita a venire è paradigmatica dell’ambigua ma lineare duplicità del destino: nella scelta, infatti, libero arbitrio e necessità si avvicinano fino a coincidere, al punto che ognuno sceglie – liberamente – proprio la vita, quella e solo quella, a cui era predestinato, in un gioco di Disegni concentrici in cui causalità e teleologia si disperdono verso l’infinito di due opposti (o convergenti?) orizzonti.
A due millenni di distanza, il mito di Er torna ad essere attuale attraverso la rilettura che ne dà, nella sua “teoria della ghianda”, lo psicologo e psichiatra (o meglio, anti-psichiatra) americano James Hillman.
Hillman rifiuta le più comuni correnti della psicologia secondo cui ognuno di noi è semplicemente il risultato di una serie di interazioni fra i dati genetici iscritti nel DNA, l’educazione familiare e l’ambiente sociale:
“Il paradigma oggi dominante per interpretare le vite umane individuali, e cioè il gioco reciproco tra genetica e ambiente, omette una cosa essenziale: quella particolarità che dentro di noi chiamiamo “me”. Se accetto l’idea di essere l’effetto di un impercettibile palleggio fra forze ereditarie e forze sociali, io mi riduco a mero risultato. Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o hanno omesso di fare e alla luce dei miei primi anni di vita ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima. La vita che io vivo sarà una sceneggiatura scritta dal mio codice genetico, dall’eredità ancestrale, da accadimenti traumatici, da comportamenti inconsapevoli dei miei genitori, da incidenti sociali (¼).
Più in profondità, tuttavia, noi siamo vittime della psicologia accademica, della psicologia scientistica, financo della psicologia terapeutica, i cui paradigmi non spiegano e non affrontano in maniera soddisfacente – che è come dire ignorano – il senso della vocazione, quel mistero fondamentale che sta al centro di ogni vita umana (¼), il destino, il carattere, l’immagine innata: le cose che, insieme, sostanziano la “teoria della ghianda”, l’idea, cioè, che ciascuna persona sia portatrice di un’unicità che chiede di essere vissuta e che è già presente prima di poter essere vissuta”.[4]

Secondo Hillman, non sono i cromosomi, dunque, né la famiglia, né l’istruzione, né la società a plasmare l’individuo incanalando la sua vita entro determinati binari: le tracce di quegli stessi binari erano infatti già state solcate dall’anima prima dell’incarnazione, esattamente come sosteneva Platone:

“Ciascuna persona viene al mondo perché è chiamata. L’idea viene da Platone, dal mito di Er che egli pone alla fine della sua opera più nota, la Repubblica. In breve, l’idea è la seguente:
Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino.
Secondo Plotino (205-270 d.C.), il maggiore dei filosofi neoplatonici, noi ci siamo scelti il corpo, i genitori, il luogo e la situazione di vita adatti all’anima e corrispondenti, come racconta il mito, alla sua necessità. Come a dire che la mia situazione di vita, compresi il mio corpo e i miei genitori che magari adesso vorrei ripudiare, è stata scelta deliberatamente dalla mia anima, e se ora la scelta mi sembra incomprensibile, è perché ho dimenticato”.[5]

Le apparenti casualità o necessità che caratterizzano la vita, il destino di ognuno, quindi, non sono altro che “vocazioni”, compiti ai quali consapevolmente abbiamo attirato noi stessi, anche se ora ne siamo immemori. E, verso queste prove che abbiamo scelto per noi, siamo spinti da una forza invisibile alla quale possiamo forse opporci solo apparentemente o momentaneamente, ma mai resistere fino alla fine, poiché è impossibile andare contro il proprio destino.
Una o più idee ricollegabili a questa intuizione platonica hanno attraversato, spesso sotterraneamente, molte tradizioni del pensiero occidentale, come riconosciuto dallo stesso Hillman:

“Si è cercato per secoli il termine più appropriato per questo tipo di “vocazione”, o chiamata. I latini parlano del nostro genius, i greci del nostro daimon e i cristiani dell’angelo custode. I romantici, Keats per esempio, dicevano che la chiamata veniva dal cuore, mentre l’occhio intuitivo di Michelangelo vedeva un’immagine nel cuore della persona che stava scolpendo. I neoplatonici parlavano di un corpo immaginale, ochema, che ci trasporta come un veicolo, che è il nostro personale supporto o sostegno. C’è chi fa riferimento alla dea Fortuna, chi a un genietto, a un cattivo seme o genio malefico. Per gli egizi poteva essere il ka o il ba, con il quale si poteva dialogare”.[6]

Le concezioni della vita come realizzazione di un destino già scritto, del destino come “scelta necessaria” dell’anima disincarnata, dall’esistenza di forze – spesso personificate – che impongono all’anima di seguire il proprio destino e le proprie scelte, sono tutte idee rintracciabili anche nelle filosofie orientali, fin dai loro albori.
Nell’induismo, ad esempio, si parla di un principio spirituale denominato Jiva, che, così come in Platone, preesiste alla vita individuale fisica, ed è depositario del cammino esistenziale dell’uomo:

“In India, la credenza più diffusa sull’Io, l’individuo, è, a prima vista paragonabile a quella espressa nei catechismi cristiani: “l’uomo è composto di un corpo materiale e di un’anima immortale”.
Tuttavia, lo Jiva, principio vitale che sopravvive al corpo, come lo intendono gli indiani, differisce abbastanza dall’anima e ha un ruolo differente. Mentre l’anima, per la credenza occidentale, nasce con l’individuo, lo Jivamolto più importante del corpo umano precede la forma fisica e compare nel mondo con la nascita dell’essere umano. Infatti, esiste da un periodo di tempo inconcepibile, ed ha viaggiato, di reincarnazione in reincarnazione, fino al momento in cui è apparso sulla terra con sembianze umane.
La natura della condizione umana che gli tocca, non è un caso fortuito. È il risultato di una serie di cause inflessibilmente conseguenti ai loro effetti. Queste cause sono gli atti fisici e mentali compiuti, nel passato dai corpi degli individui che lo Jiva ha successivamente abitato.”[7]

Il principio vitale, dunque, esiste prima della vita fisica e, proprio come una ghianda che contiene in sé in potenza la quercia, anch’esso porta in sé il carattere e le vicissitudini che caratterizzeranno l’esistenza terrena. Tali carattere e vicissitudini, in India come in Platone, sono determinati da quanto l’anima ha compiuto nella vita precedente. Non si tratta tanto di un premio o di una punizione, quanto di una lezione. Infatti, l’anima, nel corso della vita a venire, andrà ad imparare – per migliorarsi – ciò che nelle vite precedenti ha dimostrato di non essere stata in grado di apprendere. Questo aspetto migliorativo piuttosto che punitivo è il vero significato dell’idea di karma.
La concezione del karma è sicuramente uno dei punti basilari del pensiero induista e, successivamente, buddhista:

“La legge del karma nel mondo morale corrisponde a quella che nel mondo fisico è la legge dell’uniformità; è la legge della conservazione dell’energia morale (¼). Secondo il principio del karma non c’è niente di incerto o arbitrario nel mondo morale: raccogliamo ciò che abbiamo seminato. Il buon seme procura buoni frutti; quello cattivo, frutti cattivi. Ogni azione, per piccola che sia, produce effetti sul carattere. L’uomo sa che alcune tendenze all’azione che ora esistono in lui sono il risultato di una scelta cosciente o intelligente da parte sua. Le azioni coscienti tendono a diventare abitudini inconsce, ed è naturale che le tendenze inconsce che troviamo in noi stessi siano considerate l’effetto di passate azioni coscienti. Non possiamo arrestare il processo dell’evoluzione morale più di quanto possiamo arrestare il flusso delle maree o il corso delle stelle. Tentare di scavalcare la legge del karma è futile quanto tentare di saltare oltre la propria ombra. È un principio psicologico che la nostra vita porta dentro di sé, una registrazione che il tempo non può confondere né la morte cancellare (¼).
L’uomo diventa virtuoso con le opere buone e malvagio con le cattive (¼). L’uomo è una creatura dotata di volontà. Secondo quanto egli crede in questo mondo, così sarà dopo la sua dipartita (¼). La ricompensa dell’azione produce il samsara [8] con nascita e morte, senza inizio e senza fine. La teoria del karmaabbraccia uomini e dèi, animali e piante (¼).
Ciò che ci lega alla catena di nascite e morti non è l’azione in quanto tale, ma l’azione egoistica. In un epoca in cui l’individuo era sempre pronto a sottrarsi alla responsabilità di quanto faceva scaricandola sulla provvidenza, sulle stelle o su qualche altro essere, la dottrina del karma affermò che l’uomo si incatena da se stesso (¼). Ciò che incombe su di noi non è un oscuro destino, ma il nostro passato”.[9]

L’uomo dunque è il frutto del seme del karma: il pensiero indiano, nella stessa terminologia, è qui avvicinato dalla teoria della ghianda di Hillman, secondo cui ogni vita è il germoglio di un seme che è presente prima della vita.
Non dissimile è, in proposito, il pensiero buddhista, secondo cui l’illusorio sé dell’uomo è composto dai cosiddetti cinque skandha o gruppi di attaccamento, ma anche da qualcosa di ineffabile trascendente rispetto ad essi:

“Il Buddha chiama il corpo, la sensazione, la percezione, le attività della mente e la coscienza, che possiamo afferrare come la totalità di tutto [l’insieme psicofisico che costituisce l’individualità umana], i cinque gruppi di attaccamento (¼). Il processo della nascita consiste appunto nell’interazione, ossia nel divenire di questi cinque gruppi con il corpo, quale loro base (¼)”.[10]

“Se siamo costituiti dai cinque gruppi, se la nostra essenza consiste in essi, dovrebbero allora essere per noi la cosa più familiare e naturale del mondo. Essi non sarebbero nient’altro che noi stessi, il nostro io, e quindi assolutamente riconoscibili e definibili. Ma (¼) consideriamo con quanta curiosità non solo il bambino, ma anche l’adulto tratta e osserva il proprio corpo nella sua vita, se ne stupisce come fosse un enigma, un mistero, si comporta esattamente come se si fosse imbattuto improvvisamente in qualcosa di assolutamente strano con cui non ha avuto prima d’allora niente a che fare. (¼) L’uomo riflessivo (¼) s’interroga sulle sue facoltà sensoriali, sulle proprie sensazioni, sui propri stati d’animo e pensieri: “Com’è possibile che io possieda tutte queste cose? Devo averle realmente?”. Una domanda che sarebbe pressoché impossibile, se egli non fosse altro che questi stessi processi (¼). Tuttavia tale stupore esiste, e non soltanto il semplice stupore della coscienza di se stessa, bensì lo stupore di chi si meraviglia degli altri quattro gruppi in cui è compreso e, soprattutto, della stessa coscienza, dietro cui deve stare. Si tratta del grande stupore di come ho avuto “questo corpo dotato di sensorialità e coscienza” o, per esprimersi in parole povere, come sono arrivato a questo mondo. È il grande stupore che costituisce la fonte principale di ogni religione e di ogni filosofia (¼).
Si noti come questo sentimento fondamentale dell’umanità si rifletta anche nella lingua, che esprime più direttamente la percezione immediata: “vengo al mondo”, “lascio il mondo”, “mi piace la vita”, “sono attaccato alla vita”, “mi tolgo la vita”. In queste espressioni si può notare che la vita non è nient’altro che i cinque gruppi in azione. Come potrei essere attaccato alla vita e, soprattutto, togliermi la vita, se non fossi io stesso vita, se non consistessi cioè nei cinque gruppi? Soprattutto togliersi la vita sarebbe in questo caso impossibile, così come sarebbe impossibile per la mano staccarsi dal braccio (¼). Ma come potrei sopprimere il mio vero sé, ciò in cui di fatto consisto, sia quel che sia, dal momento che esso costituisce la mia essenza, per essere ciò che sono? (¼) Posso soltanto gettare via o sopprimere ciò di cui non consisto e che mi è, dunque, estraneo. Questo pensiero, a ben considerare, basterebbe a far comprendere che io sono qualcosa che sta dietro la vita, dietro i cinque gruppi, qualcosa che si attacca aderisce alla vita e ai cinque gruppi che costituiscono la personalità, come a qualcosa di estraneo che considero desiderabile”.[11]
L’esistenza fisica è perciò, nel buddhismo, qualcosa a cui il principio spirituale (un sé, peraltro, privo di reale sostanza), aderisce perché spinto dal desiderio, dalla necessità, dalla legge del karma.
La vita, in oriente come in Platone come in Hillman, è dunque destino che l’anima si autoimpone, scelta consapevole ed ineluttabile che l’essenza spirituale individuale compie, spinta dalla necessità e dal desiderio di migliorarsi, fino a ritornare all’Unità della Potenza primigenia originaria che l’ha posto in essere.
Così come il karma è una necessità e al tempo stesso una pulsione che porta l’anima individuale a reincarnarsi in un certo modo per diventare migliore, così, in Platone e Hillman, il daimon è ciò che sta alla base del proprio progetto di vita e consente di visionarlo e sceglierlo.
Il daimon è dunque Destino, scelta di vita.
Questo, almeno, è uno dei due significati fondamentali del daimon.
L’altro significato, come vedremo, è riconducibile all’esistenza di quella forza sottile, impalpabile ma ineludibile, che spinge l’uomo alla realizzazione del suo Destino e delle sue scelte: una forza che in diverse culture è stata ipostatizzata e dipinta con un carattere angelico o demoniaco.
Nei suoi scritti, infatti, Hillman usa “in maniera pressochè intercambiabile molti dei termini che designano la nostra ghianda – immagine, carattere, fato, genio, vocazione, daimon, anima, destino”.[12]

Daimon come Destino, dunque: questo è il significato primo di quella ghianda da cui ognuno di noi dipana la propria esistenza. Un destino che ognuno serba nell’animo prima di nascere.

“Ciascuna vita è formata dalla propria immagine, unica e irripetibile, un’immagine che è l’essenza di quella vita e che la chiama a un destino. In quanto forza del fato, l’immagine ci fa da nostro genio personale, da compagno e da guida memore della nostra vocazione.
Il daimon svolge la sua funzione di “promemoria” in molti modi. Ci motiva. Ci protegge. Inventa e insiste con ostinata fedeltà. Si oppone alla ragionevolezza facile ai compromessi e spesso obbliga il suo padrone alla devianza e alla bizzarria, specialmente quando si sente trascurato o contrastato. Offre conforto e può attirarci nel suo guscio, ma non sopporta l’innocenza. Può far ammalare il corpo. È incapace di adattarsi al tempo, nel flusso della vita trova errori, salti e nodi – ed è lì che preferisce stare. Possiede affinità con il mito, giacché lui stesso è un essere del mito e pensa in forma mitica.
Il daimon è dotato di prescienza – non dei particolari, forse (¼), perché non ha il potere di manipolare gli eventi per conformarli all’immagine e adempiere la vocazione. La sua prescienza, dunque, non è perfetta ma limitata, riguarda piuttosto il senso generale della vita in cui si incarna. Inoltre, il daimon è immortale, nel senso che non ci lascia mai e non può essere liquidato dalle spiegazioni di noi mortali.
C’entra molto con i sentimenti di unicità, di grandezza, e con l’inquietudine del cuore, con la sua impazienza, la sua insoddisfazione, i suoi struggimenti. Ha bisogno della sua parte di bellezza. Vuole essere visto, ricevere testimonianza, riconoscimento, soprattutto dal suo padrone. È lento ad ancorarsi e svelto a volare. Poiché non può dimenticare la sua vocazione divina, si sente insieme esule sulla terra e partecipe dell’armonia del cosmo. Le immagini e le metafore sono la sua lingua madre, innata, la stessa che costituisce la base poetica della mente e rende possibile la comunicazione con tutti gli uomini e tutte le cose”.[13]

Il destino che il daimon racchiude è una scelta a cui l’anima tende per migliorarsi, esattamente come avviene secondo la dottrina del karma. Lo stesso Platone, nel mito di Er, parla infatti esplicitamente di metempsicosi:

“Le anime, che provengono da vite precedenti e soggiornano in una sorta di aldilà, hanno ciascuna un destino da compiere, una parte assegnata (moira), che corrisponde in un certo senso al carattere di quell’anima. Per esempio, racconta il mito, l’anima di Aiace Telamonio, il valoroso e irruente guerriero, scelse la vita di un leone, mentre quella di Atalanta, la vergine famosa per la velocità nella corsa, scelse il destino di un atleta e un’altra anima quella di un nobile artigiano. L’anima di Ulisse, memore delle prove e dei travagli patiti, “e guarita di ogni ambizione, andò a lungo in giro alla ricerca di una vita di uomo solitario senza occupazione, e la trovò a stento, gettata in un canto e negletta dagli altri¼
“Quando tutte le anime si erano scelte la vita, secondo che era loro toccato, si presentavano davanti a Lachesi [lachos, “parte, porzione di destino”]. A ciascuna ella dava come compagno il genio [daimon] che quella si era assunto, perché le facesse da guardiano durante la vita e adempisse il destino da lei scelto”. Ildaimon conduce l’anima dalla seconda delle personificazioni del destino, Cloto [klotho, “filare, volgere il fuso”]. “Sotto la sua mano e il volgere del suo fuso, il destino [moira] prescelto è ratificato”. (Gli viene impresso il suo particolare effetto?). “¼ quindi il genio [daimon] conduceva l’anima alla filatura di Atropo [atropos, “che non si può volgere all’indietro, irreversibile”], per rendere irreversibile la trama del suo destino.
“Di lì, senza voltarsi, l’anima passava ai piedi del trono di Necessità” (Ananke), o, come traducono alcuni, “del grembo” di Necessità.
Dal testo non risulta chiaro in che cosa consista esattamente il kleros lasciato cadere ai piedi delle anime affinché ciascuna scelga il proprio. Il termine kleros può avere tre significati strettamente connessi: a) pezzo di terra, come il nostro lotto di terreno e, per estensione, b) lo spazio, la parte assegnata nell’ordine generale delle cose e c) eredità, ciò che per diritto ci viene in quanto eredi.
Io interpreto i kleroi del mito come immagini. Poiché ciascuno di essi è particolare e compendia lo stile di tutto un destino, l’anima percepirà intuitivamente un’immagine che abbraccia l’insieme di una vita tutto in una volta. E sceglierà l’immagine che la attrae: “Ecco quella che voglio, che è la mia giusta eredità”. La mia anima sceglie l’immagine che io vivo.
Il testo platonico chiama questa immagine della vita paradeigma, “modello”, come viene di solito tradotto. Dunque quella che ricevo è l’immagine che è la mia eredità, la porzione assegnatami nell’ordine del mondo, il mio posto sulla terra, condensata in un modello che è stato scelto dalla mia anima, perché nelle equazioni del mito il tempo non entra (¼).
Per dipanare quell’immagine occorre tutta la vita. Se pure è percepita tutta in una volta, la si comprende solo lentamente. Sicché l’anima possiede un’immagine del proprio destino, che il tempo può rendere manifesta soltanto come “futuro”. Che “futuro” sia dunque un altro nome per indicare il destino, e le nostre preoccupazioni circa “il futuro” fantasie del destino?
(¼) Plotino, il più grande dei filosofi del neoplatonismo, così sintetizza il mito platonico: “Il fatto di venire al mondo, di entrare in questo corpo particolare, di nascere da questi genitori e nel tal luogo, e in generale ciò che chiamiamo le condizioni esteriori della nostra vita¼ tutti gli eventi formano una unità e sono per così dire intessuti assieme”. Ciascuna anima è guidata dal daimon a quel particolare corpo e luogo, a quei dati genitori e condizioni di vita, per la forza di Necessità; ma noi non abbiamo il minimo sentore di tutto questo, perché il suo ricordo è stato cancellato nella pianura dell’oblio”.[14]

Non solo in Platone e poi Hillman, ma in tutta l’Asia si può ritrovare una filosofia secondo cui il Destino – sia quello individuale, microcosmico, sia quello universale, macrocosmico – è l’espressione di una storia già scritta, delineata, mossa da principi di armonia tutt’altro che casuali. D’altronde, se esiste un destino, un disegno per il singolo, è solo perché esiste un Destino, un Disegno per il Tutto: l’eredità, la porzione di destino dell’individuo rappresenta la sua parte nel grande ordine dell’Universo. Il Tutto e il particolare – i singoli individui – si muovono all’insegna di un’armonia sincronica. Questo, il pensiero cinese l’aveva già intuito oltre 3.000 anni fa, come aveva sottolineato Carl Gustav Jung nella sua introduzione all’ I King, il millenario e oracolare “Libro dei Mutamenti”:

“La nostra scienza è basata sulla causalità, e quest’ultima è considerata verità assiomatica (¼). La mentalità cinese, quale io la vedo all’opera nell’I King, sembra invece preoccuparsi dell’aspetto accidentale degli eventi. Ciò che noi chiamiamo coincidenza sembra essere la cosa della quale questa peculiare mentalità principalmente si interessa, e ciò che noi adoriamo come causalità passa quasi inosservato (¼). Il modo con cui l’I King è incline a considerare la realtà sembra non vedere di buon occhio i nostri procedimenti causalistici (¼). L’oggetto che interessa sembra essere la configurazione che gli eventi accidentali formano al momento dell’osservazione, e nulla affatto le ragioni ipotetiche che apparentemente rendono conto della coincidenza. Mentre la mentalità occidentale accuratamente separa, pesa, sceglie, classifica, isola, ecc., l’immagine cinese del momento contiene ogni particolare fino al più minuto assurdo dettaglio, perché l’istante osservato è il totale di tutti gli ingredienti. Accade così che quando succede che si gettino le monete [15] o si contino i 49 steli di millefoglie, questi dettagli causali entrano nel quadro dell’istante d’osservazione formandone una parte – insignificante per noi eppure colma di significato per la mentalità cinese. Da noi dire che qualunque cosa avvenga in questo momento possiede inevitabilmente la qualità peculiare per quest’ultimo sarebbe un’affermazione banale e quasi senza senso (¼). Questo non è un argomento astratto, anzi è un argomento assai pratico: vi sono certi esperti che dall’aspetto, gusto e comportamento di un vino, sapranno dire il sito della sua vigna ed il suo anno di origine; vi sono degli antiquari che sapranno informarci dell’epoca, della provenienza e dell’artefice di certi oggetti d’arte o di un pezzo di mobilio con un’accuratezza impressionante (¼). Considerando simili fatti bisogna ammettere che degli istanti possono lasciare delle tracce di lunga durata.
In altre parole: chiunque sia stato l’inventore dell’I King, era convinto che l’esagramma [16] costruito in un dato momento coincideva con questo anche nella qualità e non soltanto nel tempo. Per lui l’esagramma era l’esponente del momento in cui lo si otteneva, più ancora anzi del misuramento del tempo, in quanto lo si comprendeva come un indicatore della situazione essenziale prevalente al momento della sua origine. Questa assunzione implica un certo strano principio che io ho denominato sincronicità, concetto che formula un punto di vista diametralmente opposto alla causalità. (¼) La sincronicità considera la coincidenza degli eventi in spazio e tempo come significatore di qualche cosa di più d’un mero caso, cioè di una peculiare interdipendenza di eventi oggettivi tra di loro, come pure fra essi e le condizioni soggettive (psichiche) dell’osservatore o degli osservatori. La mentalità cinese contempla l’universo in una maniera paragonabile a quella del fisico moderno, il quale non può negare che il suo modello dell’universo è una struttura decisamente psicofisica”.[17]

Il Tutto e il singolo, come si diceva, agiscono in sincronia. Il destino dell’uomo dipende dal destino dell’Universo:

“La vitalità, le complessioni, le sorti sono diverse fra gli uomini. L’uomo (come gli altri esseri) è costituito dalsing [18] del Cielo e della Terra; dalla Terra egli deriva il suo sangue, e i suoi umori fecondi e nutritivi, come le linfe; deriva dal Cielo il suo soffio caldo e sottile; da ambedue il ritmo – battito del polso e respirazione – che mantiene o piuttosto costituisce in lui la vita. Ma è il Cielo (onorato come un padre, provvisto di autorità, lodato per la sua permanenza e la sua unità) che distribuisce le sorti, i ranghi, i periodi di vita, i destini”.[19]

Il cielo – come la moira, come il karma – attribuisce dunque i destini degli uomini, dando a ciascuno la parte di disegno che serve a contribuire allo svolgimento del Disegno più grande. La strada dell’individuo segue la strada del Tutto. La via del primo dipende dalla via del secondo. Così si afferma anche nel Tao Te Ching, il Libro della via e della virtù.
“Infatti gli esseri fioriscono e (poi) ognuno torna alla propria radice. Tornare alla propria radice si chiama la tranquillità: ciò vuol dire deporre il proprio compito. Deporre il proprio compito è una legge costante. Colui che conosce questa legge costante si chiama illuminato. Colui che non conosce questa legge costante agisce da stolto e attira su di sé la disgrazia. Colui che conosce questa legge costante è tollerante; essendo tollerante è senza pregiudizi; essendo senza pregiudizi, è comprensivo; essendo comprensivo è grande; essendo grande è (identico a) la Via”.[20]
“Quando un nobile superiore sente parlare della Via, si affretta a seguirla.
Quando un nobile medio sente parlare della Via, talvolta la conserva, talvolta la perde.
Quando un nobile inferiore sente parlare della Via, ci fa grandi risate.
Se non se ne ridesse, la Via non meriterebbe di essere considerata tale.
Poiché l’adagio dice:
“La Via chiara è come oscura.
La Via progressiva è come retrograda.
La via unita è come ruvida.
La virtù somma è come una valle.
Il bianco più immacolato è come contaminato.
La virtù più larga è come insufficiente.
La virtù più forte è come impotente.
La realtà più solida è come tarlata.
Il più grande quadrato non ha angoli.
Il più grande vaso è l’ultimo ad essere finito.
La più grande musica ha il suono più sottile.
La più grande immagine non ha forma.
La Via è nascosta e non ha nomi (di categorie).
Difatti, proprio perché sa prestare, la Via sa portare tutto a compimento””.[21]

Questa grande Via che sa prestare a ognuno la sua piccola Via, il suo destino individuale, porta tutto a compimento. Dando a ogni individuo il suo compito, che andrà svolto fino al momento di deporlo, la Via lo rende grande come lei. La realizzazione della Grande Via e della Piccola Via coincidono. Il Destino dell’Universo e quello del singolo coincidono.
Come avvenga poi la distribuzione dei destini, dei compiti, delle piccole Vie, ce lo dice invece il pensiero indiano. Alla base di tale distribuzione, come abbiamo già visto, c’è la nozione di karma, la legge universale che sta alla base di ogni nascita e rinascita e che opera secondo criteri tutt’altro che accidentali:

“La legge del karma non è nient’altro che la legge di causalità non soltanto nel suo significato formale, come legge di causa ed effetto, ma anche nel suo significato concreto, in base a cui un determinato effetto segue sempre una determinata causa. Soltanto che essa è priva di ogni limite del mondo fisico e si estende anche ai regni dominati dalla morale e, dunque, oltre la morte”.[22]

Come si applichi all’uomo e al suo destino questa legge di causa ed effetto ce lo narra, in forma mitica, un’antica credenza indiana con moltissime, evidenti analogie al mito platonico di Er:

“Quando l’uomo è in punto di morte, ha l’improvvisa visione dell’Unità Suprema (¼). Poi il soffio vitale fugge via dal suo corpo e gli inviati del Re della morte (Yama) estraggono il suo Jiva dal corpo (¼).
Gli inviati hanno aspetti terrificanti, sono armati di mazze e lacci. Indirizzando terribili minacce contro di lui, portano via con sé lo Jiva lungo la via che conduce al regno di Yama.
Lo Jiva è affamato, tormentato dalla sete, minacciato da bestie feroci, malmenato da coloro che lo trascinano ed è impietosamente costretto ad andare lungo una strada fatta, di volta in volta, di vertiginose dicese o di ripidissime salite (¼).
Durante questo (¼) viaggio, lo Jiva soffre ancora caldo e freddo (¼). Egli si ricorda delle cattive azioni che ha compiuto, e si affligge per i risultati dolorosi, per lui, che queste gli hanno procurato. Cerca invano, attorno a sé, un protettore che gli venga in aiuto, ma non ne trova.
(¼) Sei mesi dopo, arriva sulle sponde di un fiume. Una barca è ancorata alla riva, ma prima che gli sia concesso di prendervi posto, per poter attraversare il fiume, egli deve esibire le prove delle buone azioni che ha compiuto. Non riuscendo a darle, è gettato in acqua, arpionato e trascinato come un pesce lungo il fiume, fino alla città di Yama (¼).
La città di Yama ha quattro porte, attraverso le quali rispettivamente, entrano coloro che sono stati caritatevoli, i saggi, i valorosi. Attraverso la porta a sud entrano i peccatori (¼).
Il Re dei Morti è seduto sul suo trono, circondato da saggi, da sapienti e da buoni. Tutto è Verità e Giustizia attorno a lui. La menzogna, l’ingiustizia e i sentimenti malevoli non hanno accesso alla sua Città.
Il ministro de re, Chitagupta, ha una Corte personale e degli assistenti che annotano le opere compiute da ogni uomo in pensieri, parole, azioni.
Viene fatta la lettura delle pagine del registro riguardante colui che compare in giudizio. In seguito è pronunciata una sentenza. L’uomo che si è comportato male in vita, è condannato a soffrire nei mondi infernali per periodi di tempo, a volte, incredibilmente lunghi, prima di reincarnarsi di nuovo in persona umana dopo essere, magari, passato, attraverso una serie di reincarnazioni riguardanti vari ordini di esseri animali”.[23]

Se il mito di Er, così come l’interpretazione buddhista della legge del karma, sottolineano l’importanza della scelta compiuta dall’individuo – o almeno dell’attrazione da lui sentita – per il proprio futuro destino, questo mito indiano rimarca invece il carattere di necessità con cui si viene vincolati alla vita che si andrà a vivere. Scelta e necessità, come abbiamo visto, vengono in realtà paradossalmente a coincidere, poiché non si può sfuggire al Destino Ultimo, che coincide con l’azione volontaria dell’Uno. Ciò non toglie che anche Hillman rilevi come, talvolta, l’aspetto di scelta volontaristica appaia subordinato all’elemento apparentemente coercitivo che sta alla base di una nuova incarnazione. A tal proposito, l’antipsichiatra americano cita la Qabbala:

“Lo Zohar, il testo canonico della letteratura qabbalistica, dice chiaramente che la discesa è dura; l’anima è restia a discendere e a contaminarsi col mondo.
“Al tempo in cui il Santo, sia benedetto il suo nome, era in procinto di creare il mondo, decise di foggiare tutte le anime da assegnare, a tempo debito, ai figli degli uomini, e ciascuna anima era formata secondo i contorni esatti del corpo che era destinata ad abitare ¼ Ecco, ora va’, scendi nel tale luogo, entra nel tale corpo.
“Ma il più delle volte l’anima obiettava: Signore del mondo, a me piace restare qui in questo regno, e non ho alcun desiderio di andarmene in un altro, dove sarò schiava e verrò contaminata.
“Al che il Santo, sia benedetto il suo nome, rispondeva: Il tuo destino è, ed è sempre stato fin dal giorno in cui fosti formata, quello di andare in quel mondo.
“Allora l’anima, vedendo che non poteva disubbidire, suo malgrado scendeva in questo mondo””. [24]

La costrizione è però solo qualcosa di apparente, di ancora legato a ciò che il buddhismo definisce “l’illusione del sé”, l’erronea credenza di possedere un’individualità separata. Non c’è nessun essere o principio esterno che obbliga l’anima ad incarnarsi: è lei stessa ad incamminarsi sulla via che la conduce alla vita terrena, spinta dalle proprie pulsioni interiori. La differenza sta nel fatto che di tali pulsioni l’anima può essere consapevole, oppure che esse possono agitarlesi dentro in modo inconscio. Quando l’anima è conscia delle proprie pulsioni, l’incarnazione appare come un atto volontario; quando non ne è consapevole, la nuova vita sembra qualcosa di imposto. Il pensiero buddhista è estremamente chiaro in proposito:

“Come avviene che una creatura morente provi attaccamento per l’ovulo di una donna, un’altra per l’ovulo di un grembo d’animale, un’altra per l’inferno o il paradiso? O più brevemente: da cosa viene determinata la diversa direzione dell’attaccamento alla morte di un essere? La risposta è: dallo stesso fattore che rappresenta, in genere, la causa dell’attaccamento, ossia la sete (¼). Il tipo particolare di sete o, in altre parole, la direzione principale assunta dalla volontà di un essere morente determina non soltanto lo stesso attaccamento, ma anche la sua direzione”.[25]

Identico è il concetto che emerge dal credo tibetano, in particolare dal Libro tibetano dei morti. Qui si narra il cammino dell’anima nel Bar-do, ossia nel periodo compreso tra una morte fisica e la successiva rinascita:

“Se le tue inclinazioni tendenti al Bene ti ci spingono irresistibilmente, seguirai questa via di pallidi chiarori e assaporerai per un po' il riposo a cui porterà.
Se hai nutrito sentimenti di gelosia, di violenta ambizione, se i tuoi ultimi pensieri ti hanno fatto entrare nelBar-do con un corpo sottile impregnato di influssi combattivi, sarai tentato di dirigerti su una via fatta di luce verde.
Resisti al tuo impulso, il raggio verde conduce al mondo dei Lha-ma-yin (¼). Eternamente in guerra con i Lha, essi si sforzano invano di superare lo spazio che li separa dal mondo della quiete e della fedeltà. Vinti continuamente, continuamente rinnovano i loro sforzi con una fatica infinita. Se puoi, distoglitene”.[26]

L’anima, secondo il Libro tibetano dei morti, può scegliere una rinascita in almeno sei mondi diversi. Tutti questi mondi sono illusori, allo stesso modo in cui è illusoria l’idea di un principio esterno che costringa ad incarnarsi:

“Nessun potere supremo regola la reincarnazione dello jiva-namshe [27]. Esso è diretto automaticamente verso il nuovo corpo che dovrà abitare. Questo nuovo corpo non gli è estraneo, come il vestito acquistato in un negozio è estraneo a colui che lo indosserà. È il namshe che ha egli stesso, nel corso della sua unione con il corpo materiale, tessuto e confezionato il vestito che si appresta a riceverlo.
Questo processo di “confezione” è continuo. Di volta in volta, il namshe sarto effettua ritocchi all’opera fatta precedentemente. Ne modifica l’aspetto, aggiungendo differenti parti di tessuto, o ricoprendone altre di guarnizioni (¼).
Così l’incessante attività del corpo, della parola e dello spirito (¼) confezionano il destino dell’individuo nella sua esistenza, continuando a farlo di reincarnazione in reincarnazione, attraverso la successione delle morti e delle rinascite.
Soltanto gli ignoranti parlano di punizioni e ricompense. Non c’è che la legge inesorabile, superiore e razionale delle cause e degli effetti “dell’atto e dei suoi frutti”, dicono i Tibetani”.[28]

Sempre secondo il buddhismo tibetano, dopo la morte,

“Quando la visione della chiara luce è terminata, un individuo ordinario viene involontariamente spinto dai radicati impulsi mentali in un altro stato di ‘divenire’. I tibetani credono che non possa controllare il luogo e la qualità della sua prossima esistenza, dato che egli non ha nessun controllo sulle tendenze della propria mente, quindi viene sballottato da un’esistenza all’altra, condizionato dai suoi desideri e avversioni.
Tuttavia, l’essere che ha un completo controllo sulla propria mente ha la capacità di dirigere la propria coscienza verso qualsiasi forma desideri. Se lo vuole, potrebbe rimanere in un ‘reame puro’, dove sperimentare di continuo una beatitudine indescrivibile, oppure, da vero bodhisattva che ode i lamenti degli altri, ritornare volontariamente e più volte per aiutarli”.[29]

Il segreto per non farsi travolgere dagli impulsi inconsci che inducono verso reincarnazioni apparentemente indesiderabili, è quello di controllare la mente, di sedare l’attaccamento verso le cose materiali:

“Per avere una cattiva rinascita è necessario che al momento della morte nella mente si sviluppi l’attaccamento, la confusione e la poca lucidità mentale, per cui se questi stati non si verificano, la colla dell’attaccamento non fa effetto e anche se si possiede una grande quantità di energia negativa che ci spinge a rinascere in un reame inferiore sperimentando incredibili tormenti (¼), possiamo salvarci e dire arrivederci alle negatività, anche se queste sono numerose come il Monte Meru”.[30]

L’acquisizione della consapevolezza e del controllo mentale può anche ridurre gli effetti del karma:

“Il viaggiatore disincarnato è, come noi, sottoposto agli influssi delle sostanze materiali e mentali di cui momentaneamente è composta la sua essenza. Come noi egli reagisce attraverso i suoi istinti, o varie abitudini che regolano il suo comportamento.
Tuttavia, gli insegnamenti enunciati nel Bar-do Thödol [31] sembrano ben sottolineare che questo comportamento non è sottoposto a un rigido fatalismo. Alcune trasposizioni o combinazioni possono effettuarsi nell’insieme di “elementali” che costituiscono il viaggiatore, e dare la prevalenza a quelli di loro che sceglieranno per lui una favorevole decisione.
Questa scelta si farà, come facciamo le nostre, sotto la direzione dello stato d’animo momentaneo dell’individuo”.[32]

Che ce ne rendiamo conto o no, ci scegliamo tutta la nostra vita prima ancora di nascere. Ci scegliamo il luogo in cui nascere, le avventure da vivere, i genitori da cui venire concepiti.
Se, nelle vite precedenti, abbiamo coltivato la consapevolezza e il controllo mentale, siamo consci che la scelta è stata effettuata da noi stessi. Ecco che, secondo il buddhismo,

“Si dice che quando un essere ha ottenuto un (¼) elevato livello di sviluppo, lui o lei possa stabilire le precisecondizioni della sua prossima rinascita, scegliendo quella che meglio si adatta al suo scopo”.[33]

Altrimenti, saremo sballottati dagli impulsi inconsci e dal desiderio. Così, nel bar-do,

“La memoria delle sensazioni carnali a cui ti sei abbandonato nel corso della vita che hai lasciato ti pungola questo corpo di materia sottile che ora ti ritrovi.
Davanti a te, attorno a te, uomini e animali si accoppiano, tu li desideri, ti attirano.
Se l’effetto delle tue inclinazioni ti destina a nascere come maschio proverai una forte avversione per i maschi che vedrai. Se il tuo destino ti fa nascere femmina, proverai una forte avversione per le femmine che vedrai. Non avvicinarti alle coppie che vedi, non cercare di metterti tra loro, per prendere il posto di uno di essi (¼).
Svaniresti nella sensazione che sentiresti e saresti concepito come un essere umano o come un essere dell’una o dell’altra specie animale”.[34]

Quando anche, tuttavia, la scelta pare una mera casualità, effettuata sulla base di impulsi incontrollabili, c’è una logica dietro di essa. Tale scelta è stata effettuata dal nostro karma, dalla nostra anima superiore, dal nostro destino, dal nostro daimon.
Spiega Hillman:

“Se esiste nella nostra civiltà una fantasia radicata e incrollabile, è quella secondo la quale ciascuno di noi è figlio dei propri genitori e il comportamento di nostra madre e di nostro padre è lo strumento primo del nostro destino. Così come abbiamo i loro cromosomi, allo stesso modo i loro grovigli e i loro atteggiamenti sono gli stessi nostri. La loro psiche inconscia – le collere rimosse, i desideri irrealizzati (¼) – conforma congiuntamente la nostra anima e noi non riusciremo mai e poi mai a venire a capo di questo determinismo e a liberarcene. L’anima individuale continua a essere immaginata biologicamente come un frutto dell’albero genealogico. La nostra psiche nasce da quella dei nostri genitori, così come la nostra carne nasce dai loro corpi (¼).
Da qualche parte, tuttavia, un folletto continua a sussurrare un’altra storia: “Tu sei diverso; non assomigli a nessuno della famiglia; tu non sei dei loro”. Nel cuore si annida un eretico, che chiama la famiglia una fantasia, una superstizione.
Del resto, il modello biologico stesso presenta smagliature che lasciano perplessi. Sappiamo spiegare (¼) più facilmente la contraccezione che non la concezione. Che cosa avviene in realtà in quel compatto (¼), conchiuso ovulo, che permette a quell’unico particolare spermatozoo, tra milioni, di penetrare? Ma forse sarebbe più giusto chiederlo allo spermatozoo: ce n’è uno tra voi che è più furbo, più intraprendente degli altri o forse più congeniale, che sente una maggiore affinità? O è un caso, una questione di “fortuna”¼ ma poi, che cosa si intende per fortuna? Sappiamo molte cose sul DNA e sui risultati della congiunzione, ma rimane intatto il mistero sul quale Darwin spese la vita, il mistero della selezione.
La teoria della ghianda propone una soluzione antica: è stato il mio daimon a scegliere sia l’ovulo sia lo spermatozoo, così come aveva scelto i portatori, detti “genitori”. La loro unione deriva dalla mia necessità, non il contrario. Questo non aiuta forse a spiegare le unioni impossibili, le incompatibilità (¼), i veloci concepimenti e i bruschi abbandoni che si verificano tra genitori di molti di noi, e in particolare nelle biografie delle persone eminenti? Lui e lei si sono messi insieme non per unirsi ma per concepire quella persona unica e irripetibile, dotata di una particolare ghianda, che poi sono risultato essere io”.[35]

Consapevole o meno, la scelta della vita in cui incarnarsi, una volta compiuta è irreversibile. E, per cominciare a vivere, come sottolineava Platone, è comunque necessario dimenticarsi di avere scelto:

“Prima di fare il loro ingresso nella vita umana (¼) le anime attraversano la pianura del Lete (oblio, dimenticanza), sicché al loro arrivo sulla terra tutto ciò che è accaduto – la scelta delle vite e la discesa dal grembo di Necessità – viene cancellato. È in questa condizione di tabula rasa che noi veniamo al mondo. Abbiamo dimenticato tutta la storia, anche se rimane con noi il modello ineludibile e necessario del nostro destino e anche se (¼) il daimon ricorda”.[36]

“Di norma, veniamo al mondo con la testa in avanti, come se ci tuffassimo nello stagno dell’umanità. E nella testa c’è un punto molle, attraverso il quale, secondo la tradizione del simbolismo del corpo, l’anima del neonato continua a ricevere l’influsso delle sue origini. Il lento processo di chiusura della fontanella, il suo indurirsi in un cranio ermeticamente sigillato, segna la separazione da un invisibile aldilà e il definitivo arrivo quaggiù. Ci vuole un po’ a discendere. E un bel pezzo di vita prima di reggersi in piedi.”[37]

Il pensiero indiano esprime esattamente lo stesso concetto esposto da Platone e ribadito da Hillman:

“Lo jiva che si ritrova in una matrice umana si ricorda [inizialmente] le circostanze delle sue vite precedenti, ricorda i desideri, gli errori, le cattive azioni, il male che ha causato ad altri. Si ripromette di non ricedere più negli stessi funesti errori, causa dei tormenti che ha sofferto¼
Egli nasce, la sua memoria si oscura gradatamente¼
Allora, subendo l’effetto delle tendenze che vivono radicate in lui per effetto dell’ignoranza che non ha potuto vincere, ricomincia ad accumulare, senza discernimento le azioni buone e quelle cattive ed è trascinato nella ruota (samsara) verso nuove morti e nuove rinascite”.[38]

Tutta la vita di ognuno di noi, dal concepimento alla morte, è dunque frutto di una scelta effettuata e messa in pratica, anche se dimenticata, con l’aiuto del nostro daimon, del nostro destino.
Ma il termine “destino” è solo uno dei due significati principali della parola daimon. L’altro significato fondamentale, come avevamo già accennato è quello di daimon come personificazione della forza che ci lega al nostro destino: ossia come genio, come demone o come angelo custode.

“La teoria della ghianda dice (¼) che io e voi e chiunque altro siamo venuti al mondo con un’immagine che ci definisce (¼). Ovvero, nel linguaggio di Platone e di Plotino, ciascuno di noi incarna l’idea di se stesso (¼). La teoria, inoltre, attribuisce all’immagine innata, un’intenzionalità angelica, o daimoniaca, come se fosse una scintilla di coscienza; non solo, afferma che l’immagine ha a cuore il nostro interesse perché ci ha scelti per il proprio.
L’idea che il daimon abbia a cuore il nostro interesse è probabilmente l’aspetto della teoria più difficile da accettare. Che il cuore abbia le sue ragioni, d’accordo; e anche l’esistenza di un inconscio dotato di intenzionalità e l’idea che in quello che ci succede svolga una parte il destino: tutto questo è accettabile, quasi banale.
Perché allora è così difficile immaginare che qualcuno o qualcosa tenga a me, si interessi a quello che faccio, magari mi protegga o addirittura mi mantenga in vita, indipendentemente, in una certa misura, dalla mia volontà e delle mie azioni? Perché preferisco una polizza di assicurazione agli invisibili garanti dell’esistenza? Perché non ci vuole niente a morire. Un attimo di distrazione, e i progetti più accurati di un Io forte giacciono riversi sul marciapiedi. Quotidianamente qualcuno o qualcosa mi salva la vita, impedendomi di cadere per le scale, di inciampare mentre cammino, di ricevere una tegola sulla testa (¼). A ciò che ci salvaguarda diamo il nome di istinto, autoconservazione, sesto senso, coscienza subliminale (tutte cose invisibili eppure presenti). Nei tempi antichi, ciò che con tanta efficacia mi sapeva proteggere era uno spirito custode e io mi guardavo bene di mancargli di rispetto.
Nonostante questa protezione invisibile, noi preferiamo immaginarci gettati nudi nel mondo, vulnerabili e completamente soli. È più facile credere nella favola di uno sviluppo autonomo, eroico, che in quella di una provvidenza che ci guida, che ci ama, che ci trova necessari per ciò che abbiamo da offrire, che accorre in nostro aiuto nella disgrazia, a volte proprio all’ultimo momento. Ebbene, io voglio affermare la sua esistenza come semplice dato dell’esperienza comune (¼). Perché non possiamo far rientrare nell’ambito della psicologia ciò che un tempo si chiamava provvidenza, ovvero la presenza invisibile che ci sorveglia e veglia su di noi?”.[39]

Di presenze invisibili che ci sorvegliano, vegliano su di noi e controllano che svolgiamo il compito per il quale siamo vivi, sono piene anche le filosofie e le mitologie orientali.
In Cina, nel già citato I King, le previsioni oracolari avvenivano proprio grazie all’intervento di queste presenze invisibili:

“Secondo l’antica tradizione sono degli “agenti spirituali” operanti in modo misterioso quelli che fanno dare una risposta sensata agli steli di millefoglie. Queste potenze formano, quasi, l’anima vivente del Libro”.[40]

Nell’induismo vedico, si credeva che lo Jiva, il principio spirituale individuale, avesse con sé un compagno, un “doppio astrale”:

“Lo Jiva, sembra aver trascinato con sé, separandosi dal corpo, un compagno che è il corpo sottile del defunto.
Potremmo chiamare questo compagno un “doppio” (¼).
All’epoca dei Veda non soltanto gli indiani delle classi popolari, ma gli intellettuali, credevano all’esistenza di un “doppio” unito al corpo. La natura di questo non pareva però ben definita. A volte lo si confondeva con il soffio vitale che si manifestava con il respiro, a volte con il principio pensante della coscienza”.[41]

Sicuramente più esplicito in proposito è il buddhismo tibetano, che afferma che non c’è un solo “daimon” che accompagna l’uomo nel suo viaggio terreno, bensì due. Essi si manifestano apertamente dopo il trapasso, quando il defunto deve affrontare il giudizio del re della morte. In quel momento,

“la divinità delle buone azioni, nata insieme a te, verrà e metterà da parte le azioni buone che hai fatto e le segnerà con sassolini bianchi, e il demonio nato insieme con te verrà e metterà da parte i peccati e li segnerà con sassolini neri”.[42]

Il Libro tibetano dei morti porta, secondo lo stile dell’epoca, esempi molto cruenti. Di fronte alla divinità della morte,

“colui che rappresenta la divinità delle azioni positive e che insieme a noi nasce indossi una maschera bianca di sereno aspetto e vesti di lana candida. Rechi inoltre un vassoio ricolmo di sassolini bianchi.
Colui che rappresenta il demone delle azioni negative e che assieme a noi nasce abbia una maschera nera, un abito nero e un vassoio ricolmo di sassolini neri (¼).
Il demonio delle azioni negative che nasce con l’uomo lo segue (¼), mentre la divinità innata (¼) offre umilmente ai compagni negativi una sciarpa bianca ma, per quanto insista nel pregare (¼), non ottiene nulla. Anzi, quelli imprecando portano il defunto al cospetto del re il quale chiede: “Tu, uomo nero (¼), chi sei? Vieni da dove? (¼) Hai forse offeso le candide azioni positive? Sei riuscito a evitare i neri peccati? (¼)”. Allora il peccatore risponde: “(¼) Ho avuto un corpo umano ma ben poca fortuna, abiti e alimenti pessimi, molti figli e molte donne che non ho potuto sfamare. Ho privato della vita numerose creature (¼). Avevo da mangiare soltanto calda carne (¼). Se avevo sete bevevo acqua e sangue. (¼) Sulla terra molte buone e pie guide mi hanno parlato della compensazione che fa seguito al peccato e dei vantaggi della virtù. Ma non ho badato loro. Tutti mi dicevano: ‘Non peccare così, un giorno colei che chiamiamo morte verrà e scenderai nell’inferno (¼)’.
Ascoltandoli, fra me e me pensavo: ‘Chi sa se davvero l’inferno esista come essi dicono? Eppoi, chi mai è tornato dall’inferno per raccontarlo?’ (¼).
Ridevo così. E pensando che non esistesse l’inferno ho commesso numerosi peccati (¼).
Mi hanno guidato la non comprensione e l’ignoranza. Ora prego, tutti voi di non punirmi. Quando ero nel mondo degli uomini se avessi saputo come in realtà stanno le cose non avrei peccato. Ora rinnego la mia mente malvagia. È detto che tu sei il Signore della Legge: ebbene, abbi pietà di me, sii per me sostegno e guida (¼). Lasciami (¼) ancora nel mondo degli uomini. Non commetterò più peccati, solo azioni positive. Ti prego”.
A ciò la divinità delle azioni positive, che con noi nasce, porgendo una sciarpa bianca chiederà: “Signore della Legge, quest’intoccabile di infima casta non ha conosciuto né bene né male, e ciò a causa dell’annebbiamento dell’ignoranza. Ha dunque commesso numerosi peccati. Non sapeva e non capiva. Non pronunciare a suo carico un penoso giudizio. Ha anche compiuto qualche azione positiva (¼). Quale segno (¼) ecco sei sassolini bianchi. Ti prego dunque di soffermarti su questa azione positiva e su quante altre ne abbia fatte, o re della Legge” (¼).
Interviene però il demone nero: “Ah, candida divinità, hai dunque solo questo da dire? Non provi vergogna a portare un vaso vuoto? Quest’intoccabile (¼) da vivo s’affidò solo al peccato: ha offeso ogni bene; ha ucciso ogni creatura che gli capitava di vedere, e si sfamava con carne calda. Si dissetava con il sangue caldo, e parlando usava parole negative. Uccideva i caprioli che mai gli avevano fatto del male, i pacifici pesci, colpiva i mendicanti mansueti. Offendeva le buone e pie guide, diede fuoco ai templi, avvelenò i laghi; incendiò le foreste sui monti, percosse padre e madre e ne disperse i resti (¼). Osserva questo mucchio di sassi neri (¼). Uccidendo provavi gioia; poi, mangiando le vittime, ti compiacevi. Ti compiaci anche ora? A che serve sciorinare parole? Hai desiderato carpire la vita a milioni di creature. Ora devi scontare la pena per ogni azione malvagia che hai compiuto. Quanto ingiusto sarebbe se ora tu non provassi queste pene (¼). Il re della Legge, per quanto grande, nulla può fare per impedire l’esito del tuo peccare. Questi sassolini più grandi indicano che hai dato alle fiamme alcuni templi, questi più piccoli che hai ucciso alcune cimici. Osserva quanti sassi! Preparati ad andare lungo questa strada nera ed erta come un passo minaccioso”.[43]

Guidata da queste presenze invisibili, l’anima si appresta, dopo ogni morte, a seguire il nuovo destino indicatole dalla legge del karma, accompagnata dal suo daimon. E tutto si ripeterà di vita in vita, di trapasso in trapasso, finché l’anima non si renderà conto che tutto – i demoni bianchi e neri, il signore della morte, il suo stesso sé – non è che un’illusione:

“Sappi che ogni forma che puoi contemplare nello stato di Bar-do è un’immagine irreale di sogno da te costruita e che tu proietti, senza riconoscerla come una tua creazione, spaventandotene.
Lo specchio in cui ti sembra di vedere Shindje [44], è la tua memoria che ricorda la catena delle tue azioni passate e che giudica secondo i concetti che tu hai formato.
Sei tu che, per le tendenze che sono in te, pronuncerai il tuo giudizio e ti assegnerai la tua ri-nascita.
Nessun terribile Dio ti ci spingerà.
Ti ci avvicinerai da solo.
Le forme degli esseri spaventosi che vedi impadronirsi di te e spingerti verso la tua nuova nascita sono quelle di cui tu stesso rivesti le forze delle tue tendenze interiori.
Sappilo ancora.
Al di fuori delle tue allucinazioni, non esistono né dei, né demoni, né il vincitore della Morte.
Comprendilo e sii liberato”.[45]

Riferimenti bibliografici
David-Neel A. (1961): Immortalità e reincarnazione, tr. it. Genova: Ecig, 1982;
Granet M. (1934) Il pensiero cinese, tr. it. Milano: Adelphi, 1971;
Grimm G. (1988): Gli insegnamenti del Buddha, Roma: Ed. Mediterranee, 1994;
Hillman J. (1996): Il codice dell’anima, tr. it. Milano: Adelphi, 1997;
Il libro tibetano dei morti, tr. it. Bussolengo (VR): Demetra, 1994;
Jung C. G. (1948), Prefazione alla traduzione inglese dell’I King, contenuto in I King, Roma: Astrolabio, 1950;
Lama Yesce (1982): L’arte buddhista di saper morire, tr. it. Pomaia (PI): Chiara Luce Edizioni, 1992;
Mackenzie V. (1988):, Reincarnazione, tr. it. Pomaia (PI): Chiara Luce Edizioni, 1992;
Napolitano A. (2011): Oltre la notte dell’ego. La concezione della morte nel buddhismo, Padova: Il Torchio;
Platone: Repubblica, tr. it. Milano: Mursia, 1990;
Radhakrishnan (1923): La filosofia indiana, tr. it. Roma: Asram Vidya, 1993;
Tao Te Ching, tr. it. Milano: Adelphi, 1973.



[1] La parola “demone” è la traduzione di “daimon”, che si può rendere anche come “genio”
[2] Necessità.
[3] Platone, Repubblica, X, 620 d-e , Milano, 1990, Mursia, p. 358
[4] James Hillman, Il codice dell’anima, Milano, 1997, Adelphi, pp. 20, 21
[5] James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., pp. 22, 23.
[6] James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., p. 24.
[7] Alexandra David-Neel, Immortalità e reincarnazione, Genova, 1982, Ecig, p. 103.
[8] La ruota del continuo fluire di esistenza in esistenza.
[9] Radhakrishnan, La filosofia indiana, Roma, 1993, Asram Vidya, Volume primo, pp. 224, 225.
[10] Georg Grimm, Gli insegnamenti del Buddha, Roma, 1994, Edizioni Mediterranee, p. 186.
[11] Georg Grimm, Gli insegnamenti del Buddha, op. cit., pp. 133, 134.
[12] James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., p. 25.
[13] James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., pp. 60, 61.
[14] James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., pp. 67-69.
[15] Il lancio delle monete è alla base della funzione oracolare dell’I King.
[16] Gli esagrammi sono le figure ottenute con il lancio delle monete, e si ottengono attribuendo un simbolo grafico (una linea unita o una spezzata) a ciascuna delle due facce della moneta.
[17] Carl Gustav Jung, Prefazione alla traduzione inglese dell’I King, contenuto in I King, Roma, 1950, Astrolabio, pp. 12-14.
[18] Complessione, temperamento, essenza.
[19] Marcel Granet, Il pensiero cinese, Milano, 1971, Adelphi, p. 304.
[20] Tao Te Ching, Milano, 1973, Adelphi, p. 57.
[21] Tao Te Ching, op. cit., p.105.
[22] Georg Grimm, Gli insegnamenti del Buddha, op. cit., p. 203.
[23] Alexandra David-Neel, Immortalità e reincarnazione, op. cit., pp. 113, 114.
[24] James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., pp.65, 66.
[25] Georg Grimm, Gli insegnamenti del Buddha, op. cit., p.191.
[26] Alexandra David-Neel, Immortalità e reincarnazione, op. cit., pp. 56, 57.
[27] Il principio consapevole, legato al corpo, da cui si distacca con la morte fisica.
[28] Alexandra David-Neel, Immortalità e reincarnazione, op. cit., p. 39.
[29] Vicki Mackenzie, Reincarnazione, Pomaia (Pisa), 1992, Chiara Luce Edizioni, p.89.
[30] Lama Yesce, L’arte buddhista di saper morire, Pomaia (Pisa), 1992, Chiara Luce Edizioni, p.44.
[31]Il Libro tibetano dei morti.
[32] Alexandra David-Neel, Immortalità e reincarnazione, op. cit., p. 63.
[33] Vicki Mackenzie, Reincarnazione, op. cit., p. 82.
[34] Alexandra David-Neel, Immortalità e reincarnazione, op. cit., p. 60.
[35] James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., pp. 89, 90.
[36] James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., pp. 68, 69.
[37] James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., p. 64.
[38] Alexandra David-Neel, Immortalità e reincarnazione, op. cit., p. 114.
[39] James Hillman, Il codice dell’anima, op. cit., pp. 27-29.
[40] Carl Gustav Jung, Prefazione alla traduzione inglese dell’I King, contenuto in I King, op. cit., p.15.
[41] Alexandra David-Neel, Immortalità e reincarnazione, op. cit., p. 109.
[42] Il libro tibetano dei morti, Bussolengo (VR), 1994, Demetra, p. 72.
[43] Il libro tibetano dei morti, op. cit., pp. 102-107.
[44] Il Signore di morti.
[45] Alexandra David-Neel, Immortalità e reincarnazione, op. cit., p. 61.