C’è una sostanziale differenza, nell’atteggiamento interiore, se noi crediamo di aver scelto il compimento di una determinata azione (o corso di azioni) oppure se noi semplicemente sentiamo di star affrontando delle contingenze (se rispondiamo cioè allo stimolo degli eventi in corso). Nel primo caso ci sentiamo responsabili ed abbiamo precise aspettative verso i risultati del nostro agire, nel secondo sappiamo che la nostra energia si muove in sintonia con le condizioni in cui ci troviamo e non calcoliamo di dover adempiere ad un preciso fine.
E’ evidente che nel primo caso sperimentiamo un senso di costrizione, delusione o speranza, mentre nel secondo il nostro comportamento molto somiglia ad un gioco infantile. Sappiamo bene che il distacco e la quiete interiore sono un fattore importante per la riuscita, tant’è che al momento di superare un esame facciamo di tutto per sentirci rilassati, anche se –in verità- lo sforzo stesso di rilassarci non produce l’effetto desiderato…..Eppure, nel mondo parliamo di "riuscita" in ben altri termini e cerchiamo sempre di porre l’accento sul nostro "sforzo personale".
Ma torniamo a considerare il primo caso, in cui definiamo il nostro agire una "libera scelta", agendo come bulldozers e seguendo regole precise auto-imposte o subite, affermando "questa è la nostra decisione" e seguendola con fede cieca. Magari non siamo consapevoli che nel secondo caso potremmo facilmente galleggiare -o nuotare- seguendo la corrente e che la nostra volontà corrisponderebbe spontaneamente alla nostra disposizione innata.
Vediamo ora che i risultati ottenuti nel primo caso sono per noi frutto di preoccupazione e sconforto mentre nel secondo caso, navigando a vista, ogni risultato è una scoperta, ogni approdo un arricchimento. Ma –stranezza del caso- sentiamo affermare nel mondo "…quello è un uomo tutto d’un pezzo e di successo che si è fatto da sé lottando con le unghie e coi denti…" e per contro "…quella persona è un sempliciotto che vive in beata innocenza, senza interessi e non sa nemmeno cosa è bene e cosa è male…".
Ed a questo punto vorrei chiedervi, non furono cacciati Adamo ed Eva dal paradiso terrestre proprio per aver assaggiato il frutto del bene e del male? Eppure di tutta la Genesi questo, che mi sembra il passaggio più significativo, viene spesso descritto come una favola… in realtà è un’allegoria dell’uscita dall’armonia dell’unità primigenia e l’entrata nell’inferno della differenza, del dualismo e della separazione.
Per fortuna non dobbiamo aspettare molto (né tante .. e neppure una vita, basta un momento) per capire il trucco dell’illusione, della proiezione egoica duale, giacché l’unità nella coscienza non è mai venuta meno, è proprio qui ed ora… e non allora o domani… Paradiso ed inferno son solo paradigmi della mente, nel divenire.
Si chiedeva Eric Fromm: "essere o avere?" Paolo D'Arpini
Nel corso degli anni vissuti a Calcata ho goduto immensamente nello sviluppare forme immaginarie di ciò che Calcata potesse rappresentare per ognuno di noi, nuovi venuti e vecchi abitanti del luogo. Ieri pomeriggio ad esempio mentre rientravo dal Tempio ho incontrato per la strada Angela Marrone, una vecchia amica che vive a Calcata da parecchi anni e che con me ha condiviso molti momenti magici. Angela è un’artista vecchio stile, pittrice, cantante, poetessa.. attrice… Sì con lei ho recitato in varie occasioni, sia al Circolo che in piazza… ed anche recentemente in “Tzuei Ning decapitato per errore”. Angela mi ha chiesto: “Ma è vero che te ne vuoi andare da Calcata?”
Ed io schernendomi… “Beh un amico mi aveva proposto una casetta in campagna… sai Calcata per me è diventata una specie di Sodoma e Gomorra, le cattiverie non si contano più… ma tu che ne sai di queste cose, tu vivi in un tuo mondo fantastico…”. Ed Angela: “Ma no, ma no, ti capisco, sai che anch’io avevo provato ad andarmene..? Ho preso la valigetta e sono andata a Frigolandia… dopo tre giorni sono scappata, poi avevo deciso di ritornare definitivamente a Napoli, ma dopo una settimana non ce l’ho fatta più… mi guardavano come un aliena, né carne né pesce, e sì che sono nata lì. Poi ho tentato in altri posti ma alla fine ho capito che ovunque sarei sempre stata un’estranea, perché ormai addosso ho il marchio “Calcata”, ed eccomi qua di nuovo. Qui posso litigare, arrabbiarmi ma alla fine è tutto un teatro… noi, caro Paolo, siamo condannati a stare a Calcata… a recitare qui la nostra parte in mezzo agli sderenati ed ai turisti… Il nostro messaggio è questo!”.
Mi ha consolato parlare con Angela, in fondo è una donna saggia, com’è giusto che sia una Cinghialessa di Terra, e mi sono anch’io riconciliato con il luogo. Un luogo che sarebbe piaciuto a Caravaggio … ed anche a Kafka.
Questa storiella -per associazione di idee- mi ha ricordato dell’esperienza di un altro attore calcatese, uno che ci provò professionalmente. Pensate che si vendette la casa di Calcata ed anche un locale in cui oggi c’è il baretto di Giovanni, per finanziarsi un paio di spettacoli a Roma in cui egli recitava da attore principale. Sperando di aver successo. Gli organizzai anche un paio di recite al Circolo, in cantina, invitando critici e giornalisti… Alla fine l’unico successo che ebbe fu quello –poco in verità- che potei offrirgli con una intervista che feci pubblicare sulle pagine del glorioso Paese Sera (non chiedetemi l’anno sarà stato verso la metà del 1990). Rileggendo il racconto mi sono accorto di quanto ci fosse del vero in quella storia, in cui (come al solito) mi ero inventato una similitudine Caravaggesca per via di un mio desiderio di parlar male di un oste calcatese che un giorno mi aveva scacciato dalla sua bettola… (leggete sotto)… Infine Mauro dovette andarsene da Calcata, povero in canna, e finì a recitar poesie ed insegnare recitazione in quel di Udine, dall’amico Sergio De Prophetis che lì gestisce un centro naturista (la Bioteca).
…………….. Mauro Cremonini ricorda i particolari degli avvenimenti che l’hanno ispirato a mettere in scena alcune importanti pieces a Calcata. L’ispirazione ha sempre una sua radice nella vita di ogni giorno di questo piccolo Centro Mondiale che è Calcata. “Proprio vivendo qui – ha confidato Cremonini -ho delineato alcuni dei miei personaggi. La cosa iniziò quando decisi di andare in scena con “La vita del Caravaggio, emblematica figura che sconvolse i canoni artistici del suo tempo rivoluzionando la pittura del ‘600. Una notte mi trovavo all’ingresso del Borgo e intravidi nel buio un paio di uomini che scendevano dalla Bocchetta.
Nel buio erano irriconoscibili, le voci impastate dall’alcool.
Avvicinatomi riconobbi due abitanti del paese, uno era un oste con il fiasco in mano e l’altro un avventore che si trascinava alticcio, andavano a finire la serata chissà dove. A quel punto, un po’ per l’atmosfera antica un po’ per il loro vociferare convulso, mi venne in mente la Roma del ‘600, che non doveva certo essere dissimile da questa scena di Calcata. Da qui l’ispirazione a recitare Caravaggio che, avvezzo com’era a girar per bettole miserabili, avrebbe senz’altro individuato in quei due gli “sgherri” da collocare nella crocifissione di Pietro o i “fustigatori” del Cristo alla colonna. Per i due beoni non erano certo trascorsi secoli e questa “finestra temporale” mi aveva apertogli occhi sul misterioso mondo del Caravaggio”. Cremonini decise così di emettere in scena “La vita del Caravaggio”; la cosa avvenne a San Luigi dei Francesi, a Roma, due anni fa. Ma l’esperienza potrà essere ripetuta anche qui a Calcata. C’è comunque un’altra esperienza che convinse Cremonini, ad interpretare un altro emblematico personaggio.
Si tratta del custode dell’opera kafkiana “Il custode del sepolcro”.
Da Caravaggio a Kafka il passo è breve -ha spiegato ancora Mauro- giacché l’inquietudine descritta dal pittore con i pennelli e dallo scrittore con i suoi scritti è una tematica antichissima e facilmente riconoscibile in un piccolo paese come Calcata, simbolo di un mondo eterogeneo e cosmopolita. La storia dì Calcata, misteriosa e piena di colpi di scena, distruzioni, invasioni, lunghi periodi di isolamento, è molto vicina allo spirito de “Il custode del sepolcro”. La storia ruota attorno alla figura di un anziano personaggio, da me interpretato, che viene incaricato dal principe di proteggere e custodire il sepolcro dei suoi antenati. È il dramma di un testimone scomodo che sorveglia la soglia tra l’umano ed il trascendente. Franz Kafka demiurgo di un mondo luciferino ci ha consegnato questo personaggio: l’ideale guardiano che è dentro di noi. (Questi due articoli risalgono alla metà degli anni '90 del secolo scorso)
Paolo D’Arpini
(Calcata. Recita in piazza 11 luglio 2008 - Foto Gustavo Piccinini)
Molto spesso parlando con amici del concetto di Spiritualità Laica mi son trovato a dover difendere quella che è la funzione del Guru in questo percorso. Solitamente, come spesso dichiarato dai due Kishnamurti (Jiddu e U.G.), sicuramente esponenti di un filone "anti-religioso", si intende che la ricerca spirituale debba essere indirizzata unicamente all'auto-conoscenza, intendendo che ciò che è fuori di noi è sicuramente anche dentro di noi, quindi non serve cercare all'esterno quel che abbiamo già all'interno.
Per conoscere se stessi -come diceva lo stesso Ramana Maharshi- non c'è bisogno di alcuna istruzione o azione, "il Guru può solo indicare la strada ma non può darti quello che già sei". Ma c'è da dire che per le tendenze inveterate a rivolgersi verso l'esterno non siamo in grado di affondare e ricongiungerci nel Sé. Perciò sentiamo il bisogno di un aiuto, perlomeno un esempio, un gesto di simpatia e di amore che ci incoraggi verso la meta.
La mia esperienza in tal senso, vissuta con Baba Muktananda, un maestro realizzato, può forse risultare significativa per l'accorto lettore. Il mio rapporto Guru / Discepolo rappresentava una relazione molto "animale". Poco o nulla appariva sul piano dell'insegnamento "formale". Mi sentivo stimolato ad avvicinarmi a lui con un approccio silenzioso, rivolto all'osservazione, alla mimica, alle azioni compiute, alla leggerezza, al calore dimostrato. In effetti era solo un gioco al "nascondino" in cui spiavo da dietro l'angolo ogni suo gesto e movimento. In alcuni momenti, quelli più intimi, mi sembrava che la conoscenza mi venisse trasmessa attraverso queste forze giocose.
Mi viene in mente, per analogia, l'immagine di una mamma gatta che gioca con il suo micio. Attraverso il gioco, le leccate, le zampate, il rotolarsi, il ringhiare, il miagolare, la mamma gatta trasmette conoscenza di sé... Ed il gattino scopre la sua natura felina, istintivamente, in quel gioco amoroso. Altrettanto è avvenuto per il risveglio interiore che si è manifestato spontaneamente al contatto con il mio Guru.
Tutto succedeva senza pensarci, come effetto della presenza nello stesso luogo e nello stesso tempo, vivendo situazioni comuni. La conoscenza trasmessa in tal modo è intrisa di varie emozioni, talvolta ribellione, talvolta affetto, gestualità, sguardi, odori, leggeri tocchi, persino ironia e senso del ridicolo.. Alla fine il risultato di quel fantastico rapporto, potrei definirlo d'amore, è la conoscenza per sottile "induzione" (o intuizione?), per risveglio della memoria ancestrale.. Il Guru non faceva altro che rappresentare quel che anch'io sono.. E' come guardarsi allo specchio, una volta riconosciuta la propria immagine non serve null'altro da aggiungere.. poiché "l'immagine" dello spirito è permanente, non è mutevole come quella di un volto che invecchia, lo spirito.. è eternamente giovane.
Questo il mio sentire... Infatti la spiritualità laica è un percorso che supera ogni concetto di religione e di comportamento, sta al di fuori degli indirizzi morali ed anche di quelli immorali.
Ciò potrebbe dar adito a dubbi ed anche a fraintendimenti. In effetti per come è stata descritta e giudicata, soprattutto nelle religioni di matrice giudeo/cristiana, l’amoralità e l'immoralità vengono spesso equiparate alla mancanza di coscienza spirituale. Ma questo pensiero è dovuto al fatto che si è sovrimposta una norma di comportamento, basata sull’etica e sulla morale religiosa, sullo stato naturale dell’uomo e sulla sua genuina espressione spirituale.
La spiritualità laica non può essere un “atteggiamento” od il risultato di un conformarsi alle norme scritte da qualcuno, spiritualità laica è semplicemente essere consapevolmente quello che si è, senza vergogna e senza modelli di sorta. Perciò la capacità del Guru di “insegnare” attraverso la vita quotidiana, in termini spirituali laici, sta nell'abilità intrinseca di “trasmettere” la “verità” in tutto ciò che noi manifestiamo o che a noi si manifesta.
Il Guru non è una persona, quindi, o perlomeno non soltanto una persona visto che comunque può apparire in ogni forma, bensì l’intelligenza illuminante che ci libera dalle sovrastrutture mentali e dalle finzioni religiose o morali. Paolo D'Arpini
Ich möchte die Bedeutung des Ausdrucks „laizistisch” wörtlich, etymologisch und konzeptionell klären. Er wird oft falsch ausgelegt, als eine Ausdrucksweise seitens der Laienmitglieder einer beliebigen Religion. Tatsächlich steht der Begriff, aus dem Griechischen „laikos” abgeleitet, für eine absolute Nicht-Zugehörigkeit zu einem religiösen, philosophischen bis hin zu einem politischen Modell. Laizistisch bedeutet „außerhalb jeglichen Kontexts eines sozialen Gefüges” ähnlich dem Begriff aus dem Sanskrit „pariah”. Folglich ist es undenkbar, dass ein Mitglied einer Religion die dieser Religion entsprechende Geisteshaltung laizistisch ausdrücken kann.
In Wahrheit entspricht die laizistische Spiritualität einer natürlichen Geisteshaltung, der spontanen Suche des Menschen nach seinem Ursprung, nach der geheimnisvollen Bedeutung des Lebens – ein Streben, das auf Selbsterkenntnis ausgerichtet ist. Am ehesten nähert sich das englische Wort „awe”, das heißt, das „Verwundern (oder die Achtung) vor sich selbst”, diesem Konzept an.
Dazu möchte ich gleich anfangs feststellen, dass „Geist – spirito” für mich eine „Synthese zwischen Intelligenz und Gewissen” bedeutet, und im übrigen klarstellen, dass ich in keiner Art und Weise „gläubig” bin. Das, was ich bejahe, ist die Basis meiner unmittelbaren Erfahrung zu existieren und mir dessen bewusst zu sein. Es ist nicht nötig, mir das von jemandem bestätigen zu lassen, und dieses gilt – natürlich – für jeden.
Man braucht nicht zu „glauben” um zu sagen „ich bin”, wir alle wissen es ohne den Schatten eines Zweifels von selbst. Wenn es hingegen darum geht, über das Vorhandensein oder das Fehlen eines Glaubens zu urteilen, können wir nicht umhin zu sagen „ich glaube” oder ich „glaube nicht”. Davon leitet sich ab, dass das „Sein” und das sich dessen gleichzeitig „bewusst sein” naturbedingt und unumstößlich wahr ist, während auf etwas zu bestehen, das seine Grundlage im Denken hat, das heißt in der gedanklichen Spekulation, nur ein Prozess, der Entwurf eines Konzepts ist.
Ich will es nicht komplizieren, aber es ist völlig klar, dass niemand je sagen wird „ich glaube zu existieren und ich glaube mir dessen bewusst zu sein” während man für jede andere Behauptung (oder auch abstrakte oder konkrete Gedankengänge) immer den Ausdruck gebrauchen wird „ich glaube an eine Religion” oder „ich glaube an den Atheismus”, oder an irgend etwas anderes dem man Glauben schenkt.
„Ich bin” ist also die reine und einfache Wahrheit, und es ist hier überflüssig, alle möglichen Gründe für dieses „Sein” anzuführen, weil dieser Erklärungsprozess (oder seine Interpretation) nur zu Spekulationen führt und folglich diskutierbar ist.
Zu behaupten, dass das Bewusstsein ein göttlicher Funke ist oder der zufällige Entstehungsprozess der Materie, die sich in Leben verwandelt, überlassen wir den Sophisten.
„Ich bin” ist hingegen die einzige unbestreitbare Tatsache, die keinen Beweis und keinerlei Diskussion benötigt.
Das ist die Basis von der ich ausgehe. Es hat also keinen Sinn sich in Diskussionen über den „Modus …. oder Hypothesen” zu ergehen.
Ich sage das, um jede entgegen gesetzte Position zur Realität dieses von mir beschriebenen Zufallsfaktors zum Schweigen zu bringen oder sie zu vermeiden (und alle die einen klaren Kopf haben können sich dessen bewusst sein).
Das ist der Laizismus des Geistes.
Die „laizistische Spiritualität” ist einfach und banal, sie ist die „Anerkennung” des natürlichen Zustandes eines jeden von uns …
“Salz ist unter allen Edelsteinen, die uns die Erde schenkt, der kostbarste.” - “Di tutte le gemme che ci dona la terra il sale è la più preziosa” (Justus v. Liebig)
“C’era una volta un re. Il nostro re aveva tre figlie in giusta età da maritare e tutte erano, ovviamente, bellissime. Nella ricerca di mariti degni dei suoi tre gioielli rimasero nella scelta finale soltanto tre principi, nobili di aspetto e di origini. Così arrivò il grande giorno dove i tre candidati fecero le loro proposte di matrimonio. Il primo candidato aveva preso d’occhio la figlia maggiore: “Oh, grande re, tua figlia grande mi piace più dell’oro e dell’argento.” E con questa frase i suoi servi donarono al re un enorme vassoio pieno di oro e argenti magistralmente lavorati. Il re era molto soddisfatto e acconsentì. Poi si fece avanti il secondo principe, sorridendo alla secondogenita: “Grande re, la tua seconda figlia mi piace più di tutte le gemme del mondo!” E come prova delle sue parole fece portare dai suoi servi un vassoio colmo di gemme provenienti da ogni parte del mondo finemente incastonate. E il re era visibilmente soddisfatto. Allora si fece avanti il più giovane dei principi, che era di una bellezza misteriosa: “Grande re, tua figlia è bella come l’acqua che sgorga dalle alte montagne. Prometto che la amerò per sempre. Per me vale più del sale!”
E con queste parole porse lui stesso al re un vassoio pieno di splendido sale marino cristallino. Alla vista del “povero sale” il re si infuriò moltissimo. Si sentì personalmente offeso e cacciò via il principe. Ma fu interrotto da una voce terribile e tuonante che proveniva da un altro mondo: “Vi maledico per la vostra ignoranza verso un dono così prezioso come il sale! Da oggi non lo vedrete mai più nel vostro regno. E tu, figlio mio, sarai punito per la tua scelta di aver voluto sposare una fanciulla, un essere umano!“ E in un istante il bel principe si trasformò in una statua di sale. Aveva appena parlato il Sovrano dei Mondi Sotterranei, cioè il Re dei Minerali. Vedendo il bel principe trasformato in sale, la giovane principessa s’innamorò perdutamente di lui.
Ma nella generale confusione la statua sparì così come era comparsa e del giovane non vi era più nessuna traccia. La nostra giovane principessa cadde in una profonda tristezza d’amore. Suo padre era rimasto bloccato nella sua rabbiosa offesa e non comprese il dolore della figlia. Così la giovane donna decise di fuggire la notte stessa dal castello per cercare il suo amato principe. Non vi racconto tutte le avventure che dovette affrontare. Accadde comunque che finì nel mondo sotterraneo degli gnomi, fedeli servi del sovrano della terra e dei minerali. La accolsero e le diedero tanti lavori utili da svolgere.
Sotto quelle terre ritrovò anche la statua immutata del principe. Intanto nel castello la terribile maledizione del Re dei Minerali aveva trasformato tutto il sale del regno in oro, argento e preziosi. Inizialmente potete immaginare la gioia di tutti perché anche i poveri erano diventati ricchi. Ma ben presto nella cucina del re e di tutti i sudditi regnò una tristezza terribile: infatti non si può vivere senza cibo salato e consumare solo pietanze fatte con lo zucchero e spezie. I tentativi di acquistare sale nei regni vicini fallirono perché l’oro si ritrasformava in sale fuori dal regno e tutto il sale che si cercò di portare verso il regno si trasformava prontamente in oro e preziosi. Presto si ammalarono tutti, poveri e ricchi. Non venne più nessuno nel regno ormai maledetto perché il cibo non era saporito. Una grande depressione regnò su tutti e il re si mise a letto in attesa della fine dei suoi giorni.
La nostra giovane principessa invece nella sua nuova abitazione continuava a sperare di liberare la statua di sale dalla maledizione… Un primo tentativo con una pianta rara e miracolosa, fallì. Ma, infine, versando milioni di lacrime sincere ai piedi della statua, il cuore del Re dei Minerali si ravvide e finalmente liberò suo figlio dalla prigionia alla vista dell’amore puro e sincero che la fanciulla nutriva per suo figlio. I due si recarono con la benedizione del sovrano alla corte del re. E così il re venne salvato dal più prezioso dono che potevano portargli: un sacchetto di sale marino! E finalmente la terribile maledizione cessò. Il re aveva avuto la più dura delle lezioni di vita. La giovane coppia innamorata si sposò con una grande festa e un grande banchetto. Subito dopo il re mise i due sul trono affinché regnassero con la loro saggezza il suo regno. Iniziò un lungo periodo di grandi sviluppi e cultura. Per questo motivo il sale viene a volte anche chiamato ORO BIANCO.”
La bella storia è finita. Vi ho raccontato la versione della favola che personalmente amo di più (questa ha origini slovacche), ma ci sono tantissime favole sul sale in tutto il mondo; anche in Italia ne esistono molteplici versioni. E come si può immaginare, tutte arrivano alla medesima conclusione: senza sale la nostra vita è triste. Credo sia una specie di “favola universale”. La consapevolezza dell’importanza del valore del sale per tutti noi è stata manifestata in infiniti rituali antichi. In molti Paesi il sale veniva benedetto una volta all’anno con solenne ritualità. A questo punto mi viene in mente anche una frase che troviamo nel Vangelo dove Gesù ci invita ad essere il Sale della Terra (Matteo 5.13).
Questa piccola grande storia cercate di ricordarla. Raccontatela ai vostri figli, magari con in pugno alcuni cristalli di sale naturale, e alla fine leccatene tutti un po’. Così non andrà mai perduta……
Ricordo parecchi anni fa un momento magico vissuto a Calcata, nelle grotte di Jorgen, l'amico danese che se ne tornò al suo paese per morire... Nelle grotte di Jorgen fu messa in scena una commedia mitologica e misterica: Il Risveglio di Titania.
Nella commedia Titania è una splendida creatura fatata che se ne va in giro per i boschi col suo fedele corteo di spiritelli. Shakespeare ha scritto del loro litigio e della vendetta del suo legittimo sposo Oberon, dopo che Titania non ha voluto vendergli il suo prezioso paggio indiano, motivo delle gelosie di Oberon.
Così Oberon sorprende Titania addormentata e le spreme sugli occhi il succo della viola del pensiero, fiore fatato capace di far innamorare chiunque della prima cosa che vedrà. Così, al suo risveglio, Titania si innamora di Bottom, un orribile uomo dotato di una testa d'asino. La storia ha comunque un lieto fine, i due sposi magici si riconciliano superando i concetti restrittivi di gelosia, invidia, etica e morale.
Questa storia, come tutti i racconti di Shakespeare evoca diversi significati. L'addormentarsi di Titania è come la morte ed il risveglio è in verità il sogno che noi prendiamo per realtà. In esso godiamo l'illusione dei sensi ed amiamo ciò che non possiamo riconoscere. La riconciliazione è il momento del ritorno alla libertà, il superamento delle illusioni e della schiavitù dei sentimenti imposti.
Etica e morale, due pensieri cangianti e relativi, i cinesi antichi avevano l'onestà di ammettere che queste due qualità fossero solo una convenienza sociale. Nel Taoismo erano considerate due forme ipocrite di asservimento alle consuetudini. La morale e l'etica sono state usate da tutte le religioni monoteiste come bandierine simboliche per giustificare il bene programmato a sistema, mentre l'amoralità e il "difetto" di contegno sono indicati come grave carenza sociale e religiosa. Ma ora lasciamo da parte questi aspetti che riguardano specificatamente il comportamento ed i costumi nella società attuale.
In fondo l'esempio di Titania è alquanto leggero e ludico, il risveglio "vero" avviene attraverso l'amore, che purifica gli occhi e rende chiaro l'intelletto. Ben diverso il caso in altre storie mitologiche in cui la sofferenza volontaria od espiativa degli eroi viene descritta in termini di emancipazione, come nella storia di Odino o Prometeo.
Cristo e Dioniso anch'essi morirono volontariamente per la salvezza altrui…. Insomma nella morale e nell'etica si accetta tranquillamente che il sacrificio di sé sia un bene supremo se rivolto ad una causa ritenuta nobile e degna… ma dal punto di vista della vita dov'è la differenza fra un suicida per disperazione ed un esaltato religioso?
Scriveva Elemire Zolla, in Discesa all'Ade e resurrezione: "Senza l'Essere l'ente non sussiste: infatti ne promana e ne fa parte. Ma l'essere non si restringe a spazio e tempo. Senza lo spazio non spaziale del luogo efficiente, suscitatore, dove si figura il punto, non nasce la geometria del mondo in divenire. Come designare questa fonte eterna? In latino proporrei "februare", che Semeraro fa derivare dall'accadico "haburu", germoglio, dal dio agrario Ha-ab-bu-ru; Servio informa che "februm" era un tratto di pelle lupesca, salata; nelle cerimonie februanti si celebrava il dio dell'impulso primaverile, Lupercus, e i luperci erano giovani coribanteschi che animavano, flagellandole, le donne, con fruste di pelle lupesca, i "febri". Le potenze generatrici " non avvennero mai, ma sono sempre: l'intelligenza le vede tutte insieme in un istante, la parola le percorre e le espone in successione" diceva l'osservatore platonico alla conclusione del mondo antico"
Ben diversa questa morale non-morale dalla moralità bacchettona dei nostri "santi padri" che predicavano e praticavano l'autoflagellazione, la misoginia, l'allontanamento dalla natura, la menzogna etica e religiosa, evidentemente anche maleinterpretando il messaggio salvifico del Cristo (ove quest'ultimo fosse realmente esistito...). Paolo D'Arpini